L'ultimo segreto
RIASSUNTO: seguito del racconto "La tregua". Scoperto il segreto di Catherine, Jarod e Miss Parker, con l’aiuto di Sydney e Broots, lanciano la sfida decisiva contro il Centro e la storia giunge finalmente all’epilogo.
DATA COMPOSIZIONE: ultimato il 24 gennaio 2004
VALUTAZIONE : adatto a tutti
DISCLAIMER
Si ricorda che tutti i diritti del racconto sono di proprietà del sito “Jarod
il Camaleonte Italia”, e che tutti i personaggi della serie “Jarod il
Camaleonte / The Pretender” utilizzati nel racconto sono di proprietà MTM
Productions / 20th Century Fox, e sono utilizzati senza il permesso degli autori
e non a fini di lucro.
Era
sopravvissuto. Ancora una volta era sfuggito a chi lo voleva fuori gioco,
ridotto ad inerme marionetta per sfruttare le sue conoscenze ed impossessarsi
di ciò che doveva essere suo.
Idioti a
pensare di poterlo fermare! Lui era di nuovo lì, determinato e pronto a tutto
pur di arrivare allo scopo.
Oramai i tempi erano maturi…il progetto di Catherine Parker non era più un mistero, ne era certo. Non doveva fare altro che pazientare ancora un po’, restare nell’ombra, nascosto, proprio nell’ultimo luogo al mondo in cui i suoi nemici lo avrebbero cercato, ad aspettare che le uniche persone in grado di farlo svelassero l’ultimo segreto e lo conducessero fino alla lista… solo allora avrebbe finalmente ottenuto ciò che da sempre voleva…il potere.
* * *
Da qualche parte nel
Delaware – ore 08:00 p.m.
La vecchia berlina, dall’aria a
dir poco anonima, procedeva alla massima velocità consentita sull’immensa
superstrada, illuminata da possenti lampioni che si susseguivano velocemente
lungo la corsia di destra, i cui coni di luce colpivano l’abitacolo ad
intervalli regolari, quasi tenessero il tempo di un noioso ritmo sincopato.
Le mani ben salde sul volante,
lo sguardo concentrato sul fascio luminoso dei fari, Jarod lasciava la sua
mente libera di vagare, rincorrendo le note della malinconica ballata rock
trasmessa alla radio…
Desperado, why don’t you
come to your senses?
You been out ridin’
fences for so long now
“E’ strano come certe canzoni inspiegabilmente
rispecchino la tua vita, almeno in parte...come se chi le ha scritte sapesse di
te, dei demoni contro cui devi combattere...” pensò Jarod piegando le labbra in
un sorriso amarognolo. Bé, lui aveva trovato qualcuno che lo amasse, qualcuno che
a sua volta amava profondamente, tuttavia era ancora costretto a vivere nella
prigione della sua solitudine e quell’arcobaleno, che a volte gli pareva
d’intravedere oltre il turbine di
segreti e menzogne che da sempre costellavano il suo cammino, sembrava
ogni giorno più lontano.
La sua fuga dal Centro aveva
posto fine ad una prigionia che certo non rimpiangeva, ma non era stata che
l’inizio di un tormentoso sentiero: una volta libero, era stata la sete di
giustizia a consumarlo, il bisogno di rimediare in qualche modo alle nefandezze
che la spietata organizzazione aveva compiuto grazie alle sue simulazioni si
era poco a poco trasformato in necessità irrinunciabile di proteggere i più
deboli, di aiutare gli altri ad essere
felici, forse per poter vivere almeno di riflesso quella gioia che a lui
sembrava essere negata…o forse per appagare il suo bisogno di espiazione per
quelle colpe che non erano sue, ma per le quali si sentiva responsabile.
Diamine era lui il genio! Lui era il soggetto estremamente dotato, quindi era
compito suo impedire che certe terribili cose accadessero, punire le
ingiustizie, proteggere gli innocenti.
La disperazione ed il senso di
colpa che l’attanagliavano quando non riusciva nel suo intento stavano quasi
per condurlo alla pazzia, ma poi, sebbene a fatica, aveva capito di non poter
salvare il mondo da solo e le sue aspirazioni erano divenute quelle che
accomunano tutti gli esseri umani…una casa, una famiglia, una vita serena,
un’identità. Sì, proprio così: un’identità. Perché anche se all’inizio era
stato interessante, persino divertente, calarsi nei panni di tanti personaggi
diversi, oramai non ne poteva più di vivere la vita di persone che lui non
sarebbe mai stato. Jarod voleva la sua vita, voleva essere se stesso, ma
c’erano ancora troppe cose che non sapeva sul proprio conto.
Era così stanco di lottare, di
inseguire una verità che assomigliava sempre più ad un miraggio, che gli si
rivelava centellinata in piccoli frammenti, parti di un misterioso puzzle in
cui il suo ruolo ancora non era ben definito. Il progetto di Catherine Parker
era stato svelato e con esso la vera natura del Centro, ma cosa aveva a che
fare lui con tutto questo? Perché lo rivolevano ad ogni costo, come mai per
loro riprenderlo era importante a tal punto da continuare a braccarlo invano
anche dopo cinque anni dalla sua fuga?
Era stanco…stanco di pensare e
ripensare, di lambiccarsi il cervello con interrogativi in apparenza senza
risposta, ma mai come in quel momento si era sentito motivato a non arrendersi,
anzi aveva una ragione in più per non farlo, perché scoprire tutta la verità e
distruggere il Centro significava soprattutto poter finalmente stare accanto
alla donna che amava, invece di limitarsi a sognarla.
Anche in quel preciso istante
pensava a lei, rivedeva i suoi incredibili occhi blu cielo che lo fissavano
ingenui e maliziosi allo stesso tempo, il suo sorriso radioso che le illuminava
il volto, l’espressione dura e risoluta con cui nascondeva la sua fragilità.
Tutto ciò che desiderava in quel momento era stringerla tra le braccia…e
partire con lei verso un altro mondo, un’altra vita…ma ancora non poteva.
Avrebbe tanto voluto riunire la
sua famiglia, anziché essere costretto a vedere solo saltuariamente e di
nascosto il Maggiore Charles, Emily, Ethan e Jay, il suo giovane clone…e
avrebbe voluto riabbracciare sua madre, che ancora lo stava cercando proprio
come lui cercava disperatamente lei, ma senza successo. Infatti, dopo quella
fugace apparizione a Boston, quasi tre anni prima, Margaret sembrava essere
svanita nel nulla. Nemmeno Emily né suo padre avevano più avuto sue notizie,
eppure Jarod sentiva che la donna non si era arresa, che come lui seguitava a
lottare per vedere la sua famiglia riunita …ed avvertiva anche che si trovava
in grave pericolo, ma non poteva far niente per aiutarla, se non continuare a
cercare, a sperare…
Dio quanto avrebbe voluto che
tutto finisse in quell’istante! Che le sue ardue ricerche si concludessero, che
le sue tormentose domande trovassero risposta. Quanto desiderava che il motivo
per cui Miss Parker gli aveva lasciato quel messaggio nella mailbox “Rifugio”,
chiedendogli di mettersi urgentemente in contatto con lei, fosse dirgli che
aveva trovato la lista, che il Centro aveva i giorni contati, che oramai erano
liberi…e magari che aveva persino
notizie di sua madre…chissà! Certo Miss Parker doveva essere preoccupata per
lui, anzi, doveva avercela a morte con lui, visto che avendo letto il messaggio
solo quella mattina, non si faceva vivo con lei da oltre due settimane. Purtroppo
non è facile comunicare con l’esterno quando sei rinchiuso in un carcere di
massima sicurezza…eh già, perché così aveva passato gli ultimi giorni,
impegnato a smascherare un gruppo di secondini che costringevano i prigionieri
a battersi in incontri di lotta clandestini, per alimentare un lucroso giro di
scommesse illegali. In tal modo avevano causato la morte di un detenuto,
cercando poi di farla passare per un incidente. Quel poveretto era sul punto di
uscire per buona condotta, era cambiato, aveva messo la testa a posto e
desiderava soltanto ritornare al più presto dalla moglie e dalla figlia…e Jarod
non poteva certo permettere che quei bastardi la facessero franca, dopo aver
distrutto una famiglia che stava per riunirsi.
“Blue Cove” indicava il cartello
materializzatosi improvvisamente sul ciglio della strada. Eccolo di nuovo lì,
nel luogo dei suoi incubi peggiori, nel punto in cui tutto ebbe inizio e dove
tutto forse sarebbe finito. Era estremamente rischioso per lui andarsene a
zonzo in quei paraggi, anche se quello era probabilmente l’ultimo angolo di
mondo in cui chi gli dava la caccia avrebbe pensato di trovarlo. Tuttavia
qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo e per lui sarebbero stati guai seri, ne
era consapevole, ma non aveva potuto fare a meno di spingersi fin lì, non si
era potuto accontentare di una semplice telefonata. Era troppo forte il
desiderio di rivederla, toccarla…stringerla a sé, affondando il viso tra i suoi
capelli…sfiorare le sue labbra…
Jarod fermò l’auto davanti
all’elegante villetta che ben conosceva: imposte chiuse, luci spente, nessuno
in giro. Tutto sembrava tranquillo, poteva attenderla senza pericolo. Erano
appena le otto e mezza e Miss Parker avrebbe tardato ancora un paio d’ore
almeno prima di rincasare…sarebbe stata dura ingannare il tempo tanto a lungo…
Il Centro, Blue Cove – ore
09:45 p.m.
Come ogni sera, l’ascensore
raggiunse rapidamente il sottolivello 7 e le porte scorrevoli si aprirono
silenziose sul vasto parcheggio sotterraneo, illuminato dalla luce diafana ed
innaturale di numerose lampade al neon.
Oltrepassando la soglia, Miss
Parker rivolse un’occhiata infastidita ad una delle tante telecamere che la
seguiva subdola, spiando ogni mossa sua e di chiunque altro si trovasse in
quella sorta di prigione. Nuovi e sofisticati dispositivi di sicurezza,
eludibili solo con codice, impronta digitale o scansione della retina…quasi
raddoppiato il numero degli uomini di sorveglianza al perimetro dell’edificio
ed al suo interno…massiccio aumento dei sistemi video a circuito chiuso dotati
di microfoni ultrasensibili…mancava soltanto che installassero telecamere
persino nelle toilettes…anzi, forse già lo avevano fatto! Da un paio di
settimane una strana atmosfera aleggiava nei tetri corridoi del Centro e Miss
Parker non aveva certo mancato di notarlo, nonché di chiedere il motivo di un
tale spiegamento di forze e di mezzi tecnologici. Le era stato detto di stare
tranquilla (…e già questo era bastato a metterla sul chi vive!), che si
trattava soltanto di normali precauzioni per evitare nuove intrusioni, come
l’ultima di Jarod nell’ufficio di suo padre ma…no, lei sentiva che qualcosa non
andava. Mr. Parker e Lyle, dietro la loro solita, ostentata indifferenza,
stavano nascondendo qualcosa…qualcosa di grosso, che li preoccupava non poco…
ma cosa?! Che qualcuno si fosse accorto delle sue indagini? Eppure aveva preso
ogni possibile precauzione, si era mossa con estrema cautela nel cercare la
lista in buona parte degli archivi cartacei e magnetici del Centro, si era
fatta spiegare da Broots come entrare in un qualsiasi computer via rete senza
lasciare tracce, ma aveva tenuto sia lui che Sydney all’oscuro di tutto, come
stabilito. Quindi no, era quasi certa che quello smisurato rafforzamento dei
sistemi di sicurezza non fosse dovuto alle sue ricerche, peraltro del tutto
vane…ma a che cosa allora?!
Miss Parker si ripromise di
indagare a fondo, per scoprire quale nuova porcheria stesse bollendo nella
pentola del Centro, quindi procedette risoluta verso il suo posto auto, lo
sguardo gelido e l’espressione altera di sempre dipinta sul bel volto.
Guardandola incedere decisa sui suoi tacchi vertiginosi, fasciata
dall’immancabile, raffinatissimo tailleur, nessuno avrebbe potuto immaginare
che da qualche mese qualcosa in lei fosse radicalmente cambiato, che nel suo
cuore apparentemente di ghiaccio pulsasse invece il calore di un tenero
sentimento, di un amore che credeva perduto per sempre, insieme quella felicità
che non aveva più provato dopo la morte di sua madre…un amore al quale
purtroppo aveva ormai capito di dover rinunciare.
Concedendosi un lungo sospiro
carico di sconforto, si sistemò al
volante, mise in moto e si allontanò in tutta fretta da quel luogo che la
soffocava fin da quando era venuta al mondo. Quel luogo che si sarebbe sempre
insinuato tra lei e Jarod come un’ombra malevola, un subdolo veleno nell’aria,
trasformandosi col tempo in ostacolo tangibile, in un muro invalicabile, a
dispetto dei sentimenti che provavano…o che credevano di provare l’uno per
l’altra. Ci aveva riflettuto a lungo ed aveva dovuto ammetterlo: nonostante
desiderasse credere con tutta se stessa alle sue parole, un sottile ma
persistente dubbio che Jarod un giorno si sarebbe reso conto di non averla mai
veramente amata continuava a tormentarla e quella spada di Damocle appesa sulla
testa avrebbe finito per logorare il
tenero, profondo affetto (…amore) che da sempre sentiva per lui. Doveva farsene
una ragione: il loro legame, germogliato tra le oscure pareti di quell’inferno,
forse…anzi, quasi sicuramente non sarebbe mai nato in circostanze diverse. Il
Centro li aveva costretti a crescere insieme, li aveva avvicinati provocando la
loro solitudine ed il loro dolore, poi li aveva separati. Aveva portato via
loro tutto ciò che di più caro avevano al mondo ed infine li aveva messi uno
contro l’altra, inducendo lei a dargli la caccia, a tenerlo lontano dalle
persone che amava, obbligando la sua stessa famiglia a separarsi, a fuggire, a
nascondersi.
Cose del genere non si potevano
certo cancellare con un colpo di spugna: lei stessa non riusciva a perdonarsi
per tutte le sofferenze di cui era stata causa insieme al Centro, come potevano
farlo Jarod e la sua famiglia? Lui al momento lo negava, le diceva che il
passato non aveva importanza, ma Miss Parker era certa che quel passato sarebbe
sempre rimasto tra loro ed avrebbe finito col separarli, perciò, per non
rovinare tutto, per preservare almeno la sincera amicizia che dividevano fin da
quando erano bambini, non le rimaneva che…Dio quant’era difficile! Ma era
davvero inevitabile? Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter passare il resto
della sua vita accanto a Jarod, lo desiderava a tal punto che forse la sua sola
volontà sarebbe bastata a far avverare il suo sogno…sì, forse…
No, ma cosa stava dicendo?!
Tutto giocava a loro sfavore, persino quel funesto presagio che ormai da
settimane le tormentava il sonno…e se si fosse avverato, per l’uomo che amava
sarebbe stata la fine…
Ah basta! Non voleva nemmeno
pensarci.
I fari delle auto che
incrociava lungo la strada le
apparivano ormai come chiazze di luce senza forma, attraverso il velo di
lacrime che, pur lottando strenuamente non era riuscita a trattenere. Le si
spezzava il cuore al solo pensiero, ma doveva farlo, non aveva altra scelta.
Doveva allontanarlo da lei, perché il Centro era più che mai un pericolo per
Jarod e lei suo malgrado ne faceva ancora parte.
Ma lui non l’avrebbe mai
accettato. Per quanto Miss Parker si fosse prodigata a spiegarsi, non avrebbe
mai capito le sue motivazioni, quindi non c’era che un’unica soluzione: doveva
mentirgli, dirgli che tra loro era finita, che aveva commesso un errore, che in
realtà non lo amava affatto. Sì, non appena il suo dannato cellulare si fosse
deciso a squillare, non appena Jarod si
fosse messo in contatto con lei glielo avrebbe detto, anche se era meschino,
anche se era da vigliacca fargli sapere una cosa del genere per telefono e lei
lo sapeva bene.
“Certo che lo so…ma so anche
che non potrei mai farlo guardandolo dritto negli occhi…”
Il Centro, Blue Cove – ore
10:00 p.m.
«Lo hai trovato?» chiese Mr.
Parker con un’impercettibile nota d’ansia nella voce, non appena Lyle ebbe
varcato, con aria inquieta, la porta a vetri del suo elegante ufficio.
«No. Sembra proprio essere
sparito nel nulla» replicò questi a denti stretti, piuttosto seccato di dover
ammettere il proprio momentaneo fallimento.
«Diamine, non può certo essere
andato lontano nelle sue condizioni!» esclamò irritato il direttore del Centro,
sobbalzando sulla poltrona in pelle e rinunciando per un attimo il suo imperturbabile
autocontrollo.
«La mia squadra sta ancora
setacciando la zona palmo a palmo. Se si trova nei paraggi non ci sfuggirà»
promise il figlio, ostentando una sicurezza che era ben lontano dal provare.
Non poteva proprio permettersi di fare fiasco, non quella volta e lo sapeva
bene, prima ancora che suo padre lo confermasse.
«Sarà meglio, perché in caso
contrario le conseguenze sarebbero tragiche per te…e anche per me…»
Davanti a quel tono duro, unito
allo sguardo torvo che balenò nei gelidi occhi grigi del genitore, Lyle faticò
non poco a tenere la propria tensione sotto controllo.
«Non preoccuparti, non ti
deluderò – promise apparentemente tranquillo, ma quanto mai ansioso di
andarsene – E’ tutto?»
«Sì…anzi, no. Ancora una cosa:
sta attento a come ti muovi – lo ammonì serio Mr. Parker - Tua sorella non è affatto stupida, al
contrario, sono certo che già sospetta qualcosa»
«Sospetta che lui sia..?»
azzardò allarmato Lyle.
«No, non ne sa niente. Ma tutte
queste nuove misure di sicurezza l’hanno messa sul chi vive e dubito che abbia
preso per buone le spiegazioni che mi sono inventato»
«Se la conosco bene come credo,
questo significa che comincerà ad indagare»
«Allora fa in modo che non
scopra la verità! – replicò bruscamente Mr. Parker - Attira la sua attenzione
su qualcos’altro. Lei non deve sapere, altrimenti manderà tutto a monte!»
«Ma perché è così importante
per te catturare quell’individuo? - chiese Lyle cedendo alla curiosità -
Oramai, nelle sue condizioni, non può certo nuocerti»
«Perché lui conosce la
verità…quella verità che sto cercando da una vita e che spettava a me sapere,
non a lui» confessò il direttore del Centro con malcelato rancore, gli occhi
ridotti a due fessure.
«Ma di che parli?»
Mr. Parker sospirò
pesantemente. Quel suo figlio non era proprio una cima in quanto ad intuito!
Certo sua sorella era tutt’altra cosa, gli era senza dubbio superiore, ma
sfortunatamente somigliava troppo alla madre…in tutti i sensi!
«Parlo di un segreto Lyle –
chiarì infine seccato, fissando il vuoto davanti a sé – Di un segreto che
Catherine scoprì tanti anni fa riguardo al Centro…un segreto di portata tale da
esserle costato la vita…un segreto – aggiunse puntando sugli occhi di Lyle uno
sguardo carico di cupidigia – che mi consentirebbe di tenere in pugno il Triumvirato,
invece di dover dipendere da quei dannati zulu!»
«E Catherine avrebbe rivelato
un’informazione così importante…a lui?! – osservò scettico l’altro – Ma
com’è possibile?! Non si può certo dire che corresse buon sangue tra loro»
«Non so come ci sia riuscito,
ma lui lo ha scoperto – asserì Mr. Parker, sicuro di quanto diceva – e noi
dobbiamo assolutamente riportarlo qui per convincerlo a parlare, con le buone o
con le cattive»
«E quando l’avrà fatto?»
«Non mi sarà più di alcuna
utilità – dichiarò tranquillo Mr. Parker, nella sua voce un’inquietante nota di
cinismo, il suo volto come sempre una maschera impassibile - Perciò, come si fa
con le cose superflue, ce ne sbarazzeremo …definitivamente».
Casa di Miss Parker, Blue Cove – ore 10:30 p.m.
Miss Parker entrò in casa, si
chiuse la porta alle spalle ed appoggiò la borsetta sulla mensola, quindi, come
era solita fare, cercò a tastoni l’interruttore per accendere la luce, quando
improvvisamente si sentì afferrare con forza alle spalle.
«Ma che..?!» ebbe appena il
tempo di farfugliare, prima di ritrovarsi bloccata con la schiena al muro, il
cuore che le batteva all’impazzata nel petto.
“Okay. Niente panico” si
impose, cercando lucidamente di ipotizzare perché quell’individuo di trovasse
in casa sua: rapinatore …maniaco…sicario del Centro…
Mentre quelle congetture
tutt’altro che rassicuranti attraversavano la sua mente in una frazione di
secondo, la donna, con gesto rapido ed improvviso, tentò di estrarre la sua 9mm
dalla fondina, ma invano, perché prima ancora che la sua mano potesse
agguantarla, il misterioso aggressore le aveva già ghermito entrambi i polsi,
immobilizzandola contro la parete.
A quel punto Miss Parker,
disorientata, fu sul punto di gridare, quando il fantomatico assalitore le
chiuse la bocca …con un bacio! Solo allora i suoi nervi poterono rilassarsi.
Avrebbe riconosciuto dovunque quelle labbra morbide come il velluto che
accarezzavano lente e sensuali le sue, quelle dita sottili e forti che
s’insinuavano sotto la sua camicia di seta e le sfioravano languidamente la
schiena, facendole accapponare la pelle.
“Ora mi ricordo perché ti trovo
irresistibile..!” ammise la donna tra sé e sé, avvinghiandosi a lui, affondando
voluttuosamente le dita tra i suoi capelli, senza riuscire a trattenere la
propria passione, desiderando ardentemente che le sue mani non finissero mai di
toccare ogni centimetro del suo corpo.
«Dobbiamo smetterla di vederci così, Miss Parker – le mormorò
Jarod all’orecchio, il respiro affannoso - O la gente comincerà a spettegolare..!»
Ripreso possesso dei propri
sensi, lei arrivò finalmente ad accendere la luce: «E tu non dovrai
preoccuparti di stare a sentire, perché se mi fai prendere un altro spavento
del genere ti strappo le orecchie!!!» sibilò allontanandolo mentre Jarod
ridacchiava soddisfatto e lo squadrò furiosa, incapace di decidere se volesse
prenderlo a schiaffi o baciarlo di nuovo…
Poi optò per volgergli
prudentemente le spalle: non doveva dimenticare quali erano i suoi propositi.
Maledizione! Non aveva proprio calcolato che Jarod sarebbe venuto di persona.
Ma perché non si era limitato a telefonarle?! Così sarebbe stato tutto più
difficile…tremendamente più difficile.
«Sono giorni che ti cerco - lo
rimproverò acida, dirigendosi verso il divano - Dove diavolo sei stato tutto
questo tempo?!»
«A San Quintino» rispose lui
seguendola.
«In prigione? A fare che?!»
«A scoprire le cause di uno
strano incidente…che non è stato affatto un incidente»
Miss Parker non riuscì a
trattenere un sorriso indulgente: «Sempre a fare il buon samaritano, eh?»
«E’ nella mia natura, lo sai.
Non posso farne a meno! – si giustificò Jarod con aria innocente – Mi sei
mancata Allison» aggiunse cercando di baciarla di nuovo, ma lei gli sfuggì.
«Sei stato un imprudente a
venire qui!» lo rimbeccò ancora, dando sfogo al proprio disappunto. Come poteva
dirgli che tra loro era finita se in quel momento desiderava soltanto lasciarsi
sedurre da lui?!
«Il tuo messaggio diceva che
era urgente»
«Non così urgente da correre il
rischio di farti catturare» insistette lei, versando due bicchieri di soda…le
ci sarebbe voluto ben altro, ma purtroppo aveva smesso di bere dannazione!!!
«Non ti agitare – continuò lui
sorseggiando la sua bibita - Casa tua non è sorvegliata, non ci sono microfoni
né telecamere in giro e il tuo telefono non è sotto controllo - lei lo fissò
sbigottita – Non sapevo come ingannare il tempo mentre ti aspettavo!»
«Oltre a punire a dovere il
cattivo di turno, hai scoperto qualcosa nelle ultime settimane?» domandò Miss
Parker sedendosi di fronte a lui.
«Purtroppo no. Non c’è nessuna
traccia della lista nemmeno nelle banche dati del Centro indicate sull’ultimo
elenco che mi hai mandato…e tu? Trovato niente?»
«Sfortunatamente no, però ho
imparato un sacco di cose sui computer – commentò lei ironica, tamburellando
nervosamente con le unghie sul suo bicchiere di soda - Broots a questo punto
penserà che voglia laurearmi in ingegneria informatica!»
Jarod sorrise: «Allora di cosa
volevi parlarmi?» le chiese allungandosi verso di lei, i gomiti appoggiati alle
ginocchia, ed affondando uno sguardo suadente nei suoi occhi colmi
d’inquietudine.
«Ecco… - No, decisamente non
poteva farcela! – Ehm…so che avevamo deciso di non coinvolgere nessuno in
questa faccenda, ma a questo punto credo che non possiamo più evitarlo – riuscì
finalmente a dire Miss Parker, iniziando a passeggiare agitata per il
salotto…bè, infondo anche quell’argomento le stava comunque a cuore - Sono mesi
che cerchiamo senza concludere nulla: devi ammetterlo, non possiamo riuscirci
da soli. Abbiamo bisogno d’aiuto»
«Pensavi a Sydney e Broots?»
Lei annuì: «Forse Syd sa
qualcosa o ha sentito parlare della lista, magari da mia madre e Broots
potrebbe aiutarmi a spulciare negli archivi»
«D’accordo. Non si può certo
negare che ci serve una mano – convenne lui – Ma dovremo essere molto chiari
sui rischi ai quali andranno incontro. Dopodiché la decisione spetterà
solamente a loro»
«Certo»
«Dovevi dirmi altro?» domandò
ancora Jarod, avvicinandosi pericolosamente.
«No» mormorò lei volgendogli bruscamente
le spalle.
“Dannazione Allison ! – si
rimproverò esasperata – Ci sei cresciuta in mezzo alla falsità e alle menzogne,
non dovrebbe essere poi così difficile per te dire una bugia!”
«Cioè sì… - esordì
improvvisamente, afferrando a due mani tutto il suo coraggio per poi voltarsi a
guardarlo dritto negli occhi - A dire la verità c’è un’altra cosa che dovrei
dirti»
«Ti vedo così strana – osservò
impensierito lui, cercando nuovamente di abbracciarla, col solo risultato di
farla allontanare – Allison, cosa c’è che non va?»
«Ecco io…io credo – Miss Parker
tirò un lungo sospiro per farsi forza –
Io ci ho pensato bene…e ho capito che tra noi non può funzionare Jarod»
«Cosa..?» sussurrò lui
incredulo, un amaro stupore dipinto sul volto. No, aveva capito male. Lei non
intendeva dire quel lui aveva appena ascoltato…ma allora perché si sentiva come
se un fulmine lo avesse improvvisamente colpito in pieno petto?
“Okay, il dado è tratto. Ora
viene la parte più difficile” si diceva intanto la donna, cercando di non
pensare a quanto le facesse male vedere una tale amarezza dipinta negli occhi
di Jarod.
«Mi dispiace, ma credo che
tutti e due abbiamo preso una decisione affrettata – lui scosse il capo
contrariato, però Miss Parker non lo lasciò parlare – Andiamo! Ci sentivamo
tutti e due soli…eravamo a Parigi, in una cornice romantica e ci siamo
semplicemente fatti prendere la mano. Può succedere»
«E’ davvero questo che pensi?»
mormorò lui fissandola ancora incredulo.
«Sì Jarod – confermò la donna
con ostentata convinzione - Ci ho riflettuto e…insomma, è innegabile che adesso
mi senta attratta da te, ma questo non può bastare»
«Attrazione fisica?! – proruppe
Jarod, dando finalmente sfogo alla propria disperazione, mentre il mondo
sembrava cadergli rovinosamente addosso - Per te si riduce a questo quello che
c’è tra noi?»
«No…non è solo questo - dovette
ammettere lei scossa. In quel momento più che mai non era affatto certa di
poter arrivare fino infondo – Ma non significa che...»
«Io non ti capisco – insistette
ancora lui prendendola per le spalle e costringendola ad affrontare il suo
sguardo carico di dubbi e di malcelate speranze - Allison, se è successo
qualcosa, se c’è un problema che ti preoccupa devi solo dirmelo e lo
affronteremo insieme»
«Non è possibile…» disse lei in
un sussurro appena percettibile.
«Niente è impossibile –
l’interruppe deciso lui – Anche tu, fino a poche settimane fa pensavi che
insieme potessimo superare qualunque ostacolo…»
«Bè…forse mi sbagliavo» mormorò
Miss Parker, sempre meno convinta di ciò che stava facendo.
«Allison…ti ho guardata negli
occhi mentre mi dicevi che mi amavi e non stavi mentendo. Che cosa è cambiato
da allora?»
Diamine doveva farlo! Proprio
per questo, perché lo amava, doveva allontanarlo da lei .
«Niente. Non è cambiato niente
e niente cambierà mai!» dichiarò lei a quel punto liberandosi del suo abbraccio
e scoccandogli un’occhiata fredda quanto la sua voce.
«Non ti seguo» ammise Jarod
sconcertato.
«Io non faccio che pensare a te
e a me come a due relitti viventi – continuò lei con malinconica disillusione -
Caricature di esseri umani che hanno sempre vissuto prigionieri di un’esistenza
senza vita, che non riusciranno mai a trovare pace…e normalità, men che
meno insieme»
«Non è vero, noi insieme
possiamo…» provò ad obiettare lui.
«Ma non capisci?! – sbottò a
quel punto la donna, con tutta la durezza di cui fu capace - Stare insieme a te
per me significa ricordare continuamente il Centro e tutto quello che ho dovuto
passare per causa loro…la morte di mia madre…Tommy…io invece voglio
dimenticare…voglio guardare avanti, pensare al futuro»
«Un futuro dove la mia presenza
non è contemplata – commentò lui con profonda amarezza, oramai resosi conto che
lei stava dicendo sul serio - E pensare che credevo ti importasse di me»
«Mi importa di te e molto
anche! – si lasciò sfuggire d’istinto Miss Parker, ferita a morte dallo sguardo
sconfortato e disilluso che lui le rivolse, salvo poi correggersi un po’
goffamente - Ma…ma non in quel senso»
«Che significa non in..?!»
Il rumore di un’auto che si
fermava lungo il vialetto li interruppe, attirando repentino la loro
attenzione.
«Aspetti visite?» chiese
guardingo Jarod.
«Non che io sappia – mormorò
preoccupata lei, afferrando la pistola - In cucina presto…e appena puoi taglia la
corda!» gl’intimò prima di spegnere la luce, per poi appostarsi accanto alla
porta, le orecchie tese, i nervi a fior di pelle, la mente che valutava a ritmo
frenetico tutte le più tragiche eventualità. Accidenti, se lo sentiva che prima
o poi sarebbe successo! Altro che convinti della storia che aveva raccontato,
quelli avevano capito tutto maledizione! E non avevano fatto altro che
aspettare la loro prima mossa azzardata per piombare loro addosso. Certo che
non era proprio nel loro stile arrivare così in sordina, in un caso del genere
di solito si usava intervenire con un imponente e rumoroso spiegamento di
uomini…ma a quel punto poco importava.
Le portiere si chiusero…un
breve scambio di bisbigli, poi i passi presero lentamente ad
avvicinarsi…dovevano essere in due, oramai ad un paio di metri dall’ingresso…un
metro…ora! Con uno scatto fulmineo, Miss Parker aprì violentemente la porta,
cogliendo di sorpresa i visitatori inattesi, e puntò decisa la sua pistola in
fronte a…
«Broots…Sydney - esclamò
stupita, tirando un sospiro di sollievo - Che diavolo ci fate qui a
quest’ora?!» aggiunse riponendo la pistola nella fondina.
«Scu…scusa Miss Parker –
balbettò Broots a corto di fiato e con gli occhi sbarrati, ancora scosso per lo
spavento – Ma dovevamo parlarti subito…cioè io devo parlarti, ma la mia auto
non voleva saperne di mettersi in moto, così ho chiesto a Syd di darmi uno
strappo per…»
«Broots taglia corto e vieni
dentro! – esclamò esacerbata la donna, afferrandolo per il colletto e
trascinandolo in casa sua senza tanti complimenti, per poi lasciar entrare un
compassato Sydney – Allora?!» continuò impaziente, dopo aver acceso per
l’ennesima volta la luce.
«Non crederai alle tue orecchie
quando lo saprai! Il mio amico Rodney, il sordomuto che sta all’Ufficio Protocolli,
dove vengono registrati tutti i nuovi progetti …sai, non ci sente e non parla
ma tiene gli occhi bene aperti, non gli sfugge niente e…»
Miss Parker ebbe un moto di
stizzita impazienza, così Sydney pensò bene di arrivare al dunque.
«Il Centro sta rimettendo in
funzione il SL-27»
«Cosa?! E perché mai?!»
«Rodney ha registrato oggi
stesso il fascicolo nei progetti approvati – spiegò Broots - Vogliono
riprendere il Programma Simulatore»
«Ma non è possibile! Quello era
un progetto di Raines e il maledetto bastardo, con buona pace di noi tutti, ha
tirato le cuoia proprio davanti ai miei occhi!»
«Probabilmente sarà qualcun
altro ad occuparsene» le fece notare Sydney, flemmatico come sempre.
«E chi accidenti..?!»
«Non lo immagini?»
«Ma certo, l’imbalsamatore! -
arguì Miss Parker dopo qualche istante con un sorrisetto sarcastico – L’infido,
compiacentemente sadico Dott. Cox …proprio il degno successore del nostro
Nosferatu!»
«Sì, la richiesta è stata sua»
confermò Sydney.
«Chi ha autorizzato il nuovo
progetto?» chiese ancora lei, temendo però di conoscere fin troppo bene la
risposta.
«Bè…ecco… - tentennò infatti
Broots – La firma è …è di Mr. Parker»
La donna chiuse gli occhi e
sospirò, scuotendo il capo. Lo aveva fatto di nuovo. Eppure glielo aveva
promesso, le aveva giurato che, tolto di mezzo Raines, non ci sarebbero più
stati esperimenti disumani, che lui stesso si sarebbe impegnato per far sì che
il Centro ritornasse ciò che sua madre avrebbe voluto che fosse:
un’organizzazione umanitaria, che poneva le sue conoscenze scientifiche al
servizio degli esseri umani e del loro benessere…il solito mucchio di parole al
vento! Ma quando avrebbe imparato a non fidarsi più di suo padre?!
«Un momento! – esordi
preoccupata Miss Parker, accantonando repentina l’ennesima cocente delusione
ricevuta da papà – Chi sarà la cavia stavolta? Syd, credi che vogliano rapire
un altro bambino, come cercarono di fare con Davy Simpkins?»
«E’ possibile – rispose
meditabondo il dottore - Ma più ci penso e più…no, piuttosto temo che per
evitare problemi questa volta potrebbero essersi procurati il soggetto…alla
fonte»
«Che vuoi dire?»
«Qualcuno che nessuna famiglia
verrà mai a reclamare, perché la sua famiglia si trova al Centro»
«Il piccolo baby Parker..?»
esclamò Broots incredulo.
«Vi va di scherzare?! – sbottò
Miss Parker fissando indignata entrambi gli uomini – Sean è mio fratello, è
figlio del direttore del Centro. Mio padre non…»
«Tuo padre sposò Brigitte solo
per avere quel bambino - le ricordò Sydney con aria grave - E ad essere sincero non sono nemmeno certo
che sia figlio loro, geneticamente parlando»
«In effetti Brigitte aveva
detto di non poter avere bambini…» ricordò perplessa la donna.
«…tant’è che portare a termine
la gravidanza l’ha uccisa – aggiunse il dottore - Non sarebbe mai potuta
rimanere incinta in modo naturale»
«Forse Brigitte e Mr. Parker si
sono rivolti ad una di quelle cliniche della fertilità» ipotizzò Broots.
«La Nugenesis..?» azzardò
turbata Miss Parker.
«Anche questo è possibile – ammise
Sydney - Dobbiamo controllare»
«E lo faremo. Ad ogni modo come
sia nato quel bambino non fa differenza. Non permetterò che gli facciano del
male! – dichiarò la donna categorica – Porterò Sean fuori da lì a costo di..!»
«Non prendere decisioni affrettate
– le consigliò pacato il dottore – Le nostre per il momento sono solo ipotesi,
non possiamo muoverci finché non le avremo verificate».
Miss Parker annuì sospirando
pesantemente. Dio quanto odiava dover aspettare…e sentirsi così impotente!
«Questo significa che ora
possiamo andarcene a letto?» chiese speranzoso Broots.
La donna lo trafisse con
un’occhiataccia, ma riuscì miracolosamente a trattenere la caustica
battuta che aveva oramai sulla punta
della lingua…le vecchie abitudini sono dure a morire!
«Bè, visto che siete qui –
disse invece - Anch’io dovrei parlarvi. Anzi noi dovremmo parlarvi…»
precisò volgendo lo sguardo alla porta della cucina, che lentamente si aprì,
mostrando un’ospite inaspettato.
«Jarod?! – proruppe trasecolato
Broots fissando il simulatore mentre usciva dalla stanza attigua e si sedeva
tranquillo accanto alla padrona di casa - Syd…credo di essermi perso qualcosa»
«Ho idea che ce lo siamo perso
tutti e due Broots» commentò misurato il dottore, limitandosi a studiare
incuriosito la donna ed il suo protetto, il mento appoggiato come al solito
alla mano destra.
«Riguardo la mia missione a
Parigi…bé, non vi ho detto proprio tutto…» confessò Miss Parker scambiando con
Jarod uno sguardo d’intesa.
«…a cominciare dal fatto che il
DSA che abbiamo trovato non era danneggiato – aggiunse questi – Noi sappiamo
qual era il progetto segreto di Catherine Parker» chiarì, prima di raccontare
del messaggio che avevano rinvenuto, della lista, del loro sodalizio contro il
Centro e delle ricerche fino a quel momento infruttuose.
«Che mi prenda un colpo!»
mormorò sconcertato Broots, accasciandosi sulla poltrona.
«Allora è questo ciò che
Catherine aveva scoperto, la vera natura del Centro» mormorò Sydney scuotendo
tristemente il capo, mentre ripensava alla tragica scomparsa dell’amica.
«Ora che sapete la verità siete
potenzialmente in pericolo quanto lo siamo noi» li avvertì Jarod.
«Che significa potenzialmente?»
chiese confuso Broots.
«Che siete ancora in tempo per
tirarvi indietro – chiarì Miss Parker - Per fingere che questa conversazione non sia mai avvenuta e continuare
a vivere tranquilli senza mettere in sicuro pericolo voi stessi e le vostre
famiglie»
«Perché è questo che succederà
se il Triumvirato dovesse scoprire che conoscete il loro segreto e purtroppo
non è una possibilità tanto remota - confermò Jarod – Sapete meglio di me di
cosa è capace il Centro. Nessuno di voi sarebbe più al sicuro, nessuna delle
persone a cui tenete»
«Ci servirebbe davvero il
vostro aiuto – aggiunse ancora la donna - Ma se non intendete rischiare la
vostra vita e quella di chi vi sta accanto noi vi capiremo»
Un pesante silenzio cadde sulla
stanza, mentre tutti i presenti, ognuno immerso nei propri pensieri, evitavano
di guardarsi negli occhi…lunghi, imbarazzanti minuti che sembravano non dover
finire mai.
«Io non mi tiro indietro – si
decise infine a dire Sydney, lo sguardo risoluto, la voce ferma e sicura di
sempre - Non vi lascerò soli proprio adesso che posso rimediare almeno in parte
ai miei errori»
«Non devi sentirti obbligato a
farlo per questo, Sydney» asserì turbato Jarod, rivolto all’uomo che gli aveva
fatto da padre, l’uomo che amava e rispettava come un padre. Sapeva quanto si
sentisse colpevole per le sofferenze che il Centro gli aveva inflitto, ma per
quanto lui stesso lo ritenesse in parte responsabile, lo aveva perdonato da
tempo e mai e poi mai gli avrebbe permesso di rischiare la vita per riparare a
torti altrui.
«Io voglio farlo Jarod –
replicò pacato il dottore, intuendo cosa passasse per la testa del suo protetto
– Lo devo a te, ma soprattutto a me stesso»
Jarod annuì, quindi, imitando i
presenti, rivolse la sua attenzione a Broots, che ancora non aveva aperto
bocca.
«Bè, contate pure anche su di
me – esordì timidamente questi, dopo qualche istante – Sto sudando freddo dalla
paura, ma non posso permettermi di fare il codardo proprio al momento
decisivo!»
«Grazie» gli sussurrò Miss
Parker, lo sguardo carico di riconoscenza.
«Ma il problema dei vostri cari
rimane – insistette Jarod - L’ultima cosa al mondo che vorrei è che succedesse
a loro ciò che è successo alla mia famiglia»
«Dirò a Michelle e Nicholas di
partire – propose Sydney – Ho un buon amico che vive nei pressi di Bruxelles e
che li aiuterà a nascondersi finché sarà necessario. Debbie potrebbe andare con
loro, che ne dici Broots?»
«Non saprei – replicò questi
visibilmente preoccupato per l’incolumità della figlioletta – Voi credete che
il Belgio sarà abbastanza lontano per..?»
«…per impedire al Centro di trovarli?
– disse Jarod, terminando la frase che l’altro non aveva il coraggio di
concludere – Nessun posto al mondo lo sarebbe, però…»
«…però in Europa saranno al
sicuro, almeno per qualche tempo – aggiunse fiduciosa Miss Parler – E con un
po’ di fortuna forse troveremo la lista prima che il Centro si metta sulle loro
tracce. In fin dei conti ancora non sanno che noi sappiamo»
«Miss Parker ha ragione Broots»
intervenne Sydney con fare rassicurante.
«D’accordo» assentì infine
l’altro.
«Bene. Organizzerò io la fuga –
propose a quel punto Jarod - Documenti e prenotazioni con nomi falsi e false
prenotazioni a loro nome per depistare le eventuali ricerche del Centro. Mi
serviranno solo un paio d’ore. Nel frattempo voi penserete ad avvisare Michelle
Nicholas e Debbie di fare le valige – continuò afferrando la sua giacca e
dirigendosi risoluto verso la porta – All…ehm...Parker… - aggiunse poi
fermandosi davanti a lei – Più tardi vorrei riprendere il discorso che abbiamo
interrotto»
«Io penso sia meglio di no»
mormorò Miss Parker, cercando di mostrarsi convinta.
Esasperato, lui si lasciò
sfuggire un sospiro: «Mi faccio vivo io, okay?»
Lei annuì, lasciando indugiare
il suo sguardo in quello accorato di Jarod un po’ troppo a lungo.
Senza staccare gli occhi da
quelli della donna, lui fece per muovere la mano, forse nell’intento di
prendere la sua, ma si sforzò di reprimere il gesto, quindi, senza aggiungere
altro, le voltò le spalle e se ne andò.
Sydney, che aveva osservato la
scena sempre più incuriosito, non mancò certo di cogliere quel significativo
scambio di occhiate e cominciò a chiedersi se Miss Parker non avesse taciuto
altri interessanti particolari circa la sua missione a Parigi, ma si astenne
prudentemente dal farle domande.
Ashland High School – Ashland, Wisconsin – ore 12:00 a.m.
Il sole era alto sul parco
della scuola, affollato per la pausa del pranzo. L’aria era limpida quanto
pungente e grazie alla fredda brezza proveniente dal lago, sapeva di buono.
Jay stava seduto in disparte,
come al solito, ad osservare le vite normali dei suoi coetanei:
scherzare con gli amici, fare due tiri a football, rimorchiare ragazze…tutte
cose che a lui sembravano essere negate. Per la sua incolumità, gli era vietato
divertirsi, stringere amicizie, mostrare le sue straordinarie capacità: troppo
pericoloso. Lui doveva cercare di non dare nell’occhio, guardarsi sempre le
spalle, evitare ogni contatto con chi gli stava intorno, a meno che non fosse
strettamente necessario. Gli era stato detto che, nonostante fossero passati quasi
due anni dalla sua fuga, il Centro era ancora sulle sue tracce, quindi doveva
restare nascosto, limitandosi a guardare gli altri vivere…e lui lo detestava.
Detestava sentirsi come un fantasma che attraversava non visto luoghi ed
esistenze altrui, un intruso che non avrebbe mai avuto nulla in comune con
tutti gli altri.
Ma d’altra parte, Jay non era
come gli altri. Non era un normale adolescente con un padre ed una madre,
cresciuto con l’affetto di una famiglia e degli amici, libero di giocare in un
parco, di leggere fumetti, di mangiare cioccolata e fare indigestione di
gelato…lui non sapeva nemmeno che esistesse il gelato, finché Jarod non l’aveva
praticamente costretto ad assaggiarlo. E sebbene ormai da tempo vivesse con la sua
famiglia, sentiva di non farne parte. In realtà, per il maggiore e per Emily,
lui era soltanto il clone di Jarod, vale a dire un impiccio in più di cui
occuparsi, una scocciatura di cui avrebbero volentieri fatto a meno.
Quella situazione lo faceva
impazzire. Sentimenti contrastanti tormentavano costantemente il suo animo:
amore e odio per una vita che gli era concesso di vivere solo a metà; bisogno
di essere amato e diffidenza verso quella famiglia che non lo aveva cercato e
che sicuramente lo aveva accolto solo perché si era sentita in dovere di farlo;
speranza e paura per ciò che gli riservava il futuro; senso di superiorità ed
invidia nei confronti dei suoi coetanei, di certo meno dotati di lui ma tanto
più fortunati. Tuttavia la più forte fra tutte quelle sensazioni era senz’altro
la rabbia…rabbia per essere soltanto il frutto di un esperimento genetico,
concepito dalla mente diabolica e disumana del Dr. Raines, che non aveva
nemmeno mai voluto dargli un nome, se non Progetto Gemini…rabbia, per
essere stato catapultato contro la sua volontà in un mondo di cui, pur
desiderandolo, non avrebbe mai fatto parte e nel quale nessuno sembrava potesse
capire ciò che provava. Ma perché era dovuto succedere proprio a lui?!
In un moto di stizza, dettato
da un’incontrollabile frustrazione, Jay si alzò di colpo, senza fare troppo
caso a chi gli stava intorno…l’urto fu inevitabile.
«Ah!» gridò la ragazza,
sottraendolo di colpo ai suoi tristi pensieri, prima di cadere a terra.
«Scu…scusami…non volevo -
balbettò Jay sbalordito e mortificato, chinandosi per soccorrerla – Ti sei
fatta male?»
«No, va tutto bene – lo
tranquillizzò una voce garbata – Toglimi una curiosità: sei sempre così
travolgente quando decidi di alzarti?!» lo schernì poi la sua vittima,
osservando divertita il suo forte imbarazzo.
«Ecco io…»
Jay era incapace di staccare
gli occhi dalla bella biondina: capelli lunghi, inanellati in morbidi riccioli,
viso ovale, occhi limpidi, azzurri come il mare, sorriso delizioso. Non gli era
mai accaduto di sentirsi così in tutta la sua breve vita. Mai fino a quel
momento almeno. La bocca impastata, il cuore che gli martellava impazzito nel
petto, la mente in preda alla più totale confusione, incapacità di articolare
anche la più semplice delle frasi. Anche se i sintomi erano simili, quel che provava
non era esattamente panico. Ma che gli stava succedendo?!
«Guarda che non tocca a te
essere sconvolto…è stato il mio fondoschiena a finire per terra!» lo rimbeccò
ancora la ragazza con un sorrisetto ironico, facendolo arrossire come un
peperone.
«Hai ragione…scusami» balbettò
Jay offrendole impacciato la mano per poi aiutarla ad alzarsi.
«Ora puoi smetterla di
scusarti. Come vedi non ho niente fuori posto»
“Questo è poco ma sicuro!” si
disse il ragazzo, osservandola ammirato da capo a piedi. Era più bassa di lui
di una spanna abbondante, di costituzione minuta ma con tutte le curve
decisamente al posto giusto, messe in risalto dai jeans e dalla maglietta
attillata.
«Qualcosa non va?» chiese lei
un tantino irritata dal suo modo di divorarla con gli occhi.
«Cosa..? No…ehm..ti è caduto
questo – farfugliò lui distogliendo imbarazzato lo sguardo – Gli Elementi di
Euclide – lesse poi raccogliendo il massiccio volume rimasto a terra – Un
po’ impegnativa come lettura di svago»
«Forse. Comunque questo è
uno svago per me – replicò lei con aria di sufficienza, riprendendosi il libro
– Vedi, non tutti traggono soddisfazione dal leggere pettegolezzi e notizie
sportive. Ma non pretendo che tu possa capire» aggiunse spocchiosa, accennando
ad andarsene.
“Hei con chi credi avere a che
fare?! – sbottò lui risentito, tra sé e sé, punto sul vivo - Io conosco quasi a memoria i tredici i libri degli Elementi, per non
parlare di molte altre cose che tu nemmeno riusciresti ad immaginare!”
«Al contrario, capisco benissimo
– esordì poi con sottile sarcasmo, prima che lei si allontanasse - Se vuoi
possiamo parlare della teoria delle proporzioni, dei postulati sulle rette
parallele o della dimostrazione dell’infinità dei numeri primi, ma francamente
preferisco fare altro per…svagarmi»
Lei lo osservò un attimo
piacevolmente stupita, prima di commentare in tono pungente: «Per esempio
tramortire le ragazze per poi cercare di abbordarle?»
«No guarda che ti sbagli…io… –
si affrettò a giustificarsi Jay, poi notò che la ragazza lo stava fissando con
un piglio beffardo dipinto sul bel viso. Lo stava di nuovo prendendo in giro,
ma non c’era più traccia di scherno nel sorriso che gli stava rivolgendo - Ehm…frequenti il corso del prof. Harris per
caso?» le chiese quindi disorientato, accennando a sua volta un flebile
sorriso.
«Sì - confermò lei sedendosi ed
invitandolo inaspettatamente ad imitarla - Anche tu, immagino»
«Già. Strano però, non ti ho
mai vista in classe»
A dire la verità lui non notava
mai nessuno, visto che si sistemava sempre nel cantuccio più isolato della
stanza, mimetizzandosi quasi contro la parete e che entrava ed usciva dall’aula
tenendo gli occhi bassi, nella speranza che nessuno si accorgesse di lui.
«Forse perché non ci tengo a
farmi notare - replicò evasiva la ragazza - Ad ogni modo nemmeno io ti ho mai
visto a lezione»
«Bè, diciamo che anch’io cerco
di non farmi notare» ammise lui con una buffa espressione di ostentata
ingenuità, che provocò la spontanea, cristallina risata della ragazza.
«Io sono Kimberly Law… - fece
per presentarsi lei, salvo poi interrompersi di colpo a disagio, quasi si fosse
improvvisamente ricordata di qualcosa che, suo malgrado, non doveva fare -
Cioè… soltanto Kimberly»
«Jay – rispose lui sorridendo -
…soltanto Jay»
Lei ricambiò il sorriso con
aria complice, fissando intensamente i profondi occhi scuri che guardavano
timidi e curiosi i suoi…fu in quel momento che si creò tra loro una sorta
d’intesa, un’incredibile sintonia, un’inspiegabile eppure autentica sensazione
di essere sulla stessa lunghezza d’onda.
«Come mai ti interessa tanto
Euclide?» chiese Jay distogliendo turbato lo sguardo. Tutte quelle nuove
sensazioni erano e a dir poco incomprensibili per lui e non facevano che
confonderlo sempre di più.
«Non so, forse perché lui ha
reso tutto più chiaro, più semplice – provò a spiegarsi Kimberly - Ha fissato
dei principi, termini oltre i quali non si può andare, entro i quali ciò che
accade è sempre prevedibile e comprensibile. A volte vorrei che anche la realtà
fosse così, senza incognite, senza misteri. Sarebbe rassicurante, magari un po’
noiosa, ma rassicurante…non so se riesci a capirmi»
«Sì, credo di sì – assentì lui,
lo sguardo fisso su di un punto imprecisato del piccolo parco. Altroché se
capiva! - A volte, quando meno te l’aspetti, ti succedono le cose più
impensabili e ti rendi conto che ciò che davi per scontato non lo è affatto e
che ti piaccia o no, lo devi accettare, anche se ti senti confuso e impotente e
arrabbiato…»
«…e daresti qualsiasi cosa
perché nella tua vita tutto fosse di nuovo semplice» terminò tristemente lei.
Pareva impossibile, eppure
quella ragazza sapeva esattamente ciò che lui sentiva e ancora più incredibile,
sembrava provare le sue stesse sensazioni.
«La tua vita è davvero così
complicata?»
«Non sai quanto! – si lasciò
sfuggire lei – Cioè…voglio dire…non più della tua, credo»
“Tu non hai la più pallida idea
di quanto sia incasinata la mia vita!” stava per commentare Jay, ma
fortunatamente riuscì a pronunciare solo un neutro : «Già»
«Mi piace parlare con te Jay –
gli confessò, rivolgendogli uno sguardo schietto - Vorrei che fosse così facile
anche con gli altri»
«Chi sarebbero gli altri?»
«Gli adulti – esordì Kimberly
con aria scocciata – Coi miei genitori ad esempio non c’è dialogo. Non ci
riesco proprio a parlare con loro, anche perché loro non considerano mai il mio
punto di vista! Decidono della mia vita senza nemmeno chiedere il mio parere,
sostengono di agire per il mio bene e che quando sarò più matura capirò…
figurati! Non si sforzano minimamente di capirmi. Avere una famiglia a volte è
proprio insopportabile!»
«Non dirlo a me!»
«Anche tu hai qualche
difficoltà in casa eh?»
«Sì, qualcuna»
«Vivi qui ad Ashland da molto
tempo?»
«Bè…ecco…»
«JAY!»
La voce perentoria della graziosa
brunetta, che lo chiamava dal finestrino abbassato della sua utilitaria, tolse
il ragazzo dall’impiccio di dover inventare le solite, plausibili frottole per
nascondere il proprio passato.
«A proposito di famiglia –
esordì - E’ mia sorella. Devo andare»
«Allora ci si vede in giro…soltanto
Jay»
«Certo…soltanto Kimberly»
mormorò lui con un timido sorriso prima di allontanarsi.
La domanda arrivò, come
previsto, non appena ebbe chiuso la portiera.
«Chi era quella ragazza?»
«Kimberly – rispose laconico -
Siamo nella stessa classe di matematica»
«Jay, lo sai che devi stare
molto attento alle persone che frequenti» replicò secca Emily, lo sguardo fisso
sulla strada mentre si destreggiava nella guida.
Non lo stava fissando, ma Jay
sapeva bene che, se lo avesse fatto, nei suoi espressivi occhi verdi avrebbe
trovato solo disapprovazione…come al solito del resto!
«Sicuro che lo so – replicò
infastidito, lasciando vagare uno sguardo indifferente fuori dal finestrino –
Rilassati. Abbiamo solo parlato del più e del meno. Non le ho raccontato la mia
tragica storia e se anche lo avessi fatto, lei non ci avrebbe di certo
creduto!»
“Indisponente come sempre!”
pensò irritata Emily, sforzandosi tuttavia di mantenere pacati i suoi modi ed
il suo tono di voce.
«Lo so che questa situazione è
opprimente per te – esordì dopo qualche istante di pesante silenzio - Ma come
ti ho già detto tante volte, non sei l’unico a dover fare dei sacrifici. Pensa
a…»
«Già, pensa a Jarod!» sbottò
Jay con aspro sarcasmo, oltremodo stanco di sentir tessere le lodi del suo originale.
Emily sospirò pesantemente,
faticando non poco a conservare il proprio autocontrollo…ma perché quel
ragazzino aveva il potere di farla uscire dai gangheri?!
«Sì, dovresti proprio»
«Ma sì! Pensa al tuo povero
sfortunato fratello, rimasto per trent’anni nella spietata morsa del Centro ed
ora braccato come un animale! – continuò imperterrito il ragazzo, sfogando
improvvisamente tutta la sua rabbia repressa - Bé né io né te stiamo certo
meglio mi pare. E tutto questo sta succedendo a causa sua!»
«Non dire sciocchezze! –
proruppe Emily, a sua volta oramai in collera con l’impudente fratellino. Ma
come si permetteva quell’ingrato?! - Jarod sta cercando di tirarci tutti fuori
dai guai ma…»
«E come mai ancora non c’è
riuscito, visto che è un genio?!»
«Ora falla finita! – lo
rimbrottò severamente lei, zittendolo di colpo, mentre fermava l’auto davanti
alla graziosa casetta che avevano preso in affitto col Maggiore - Dovresti
essergli riconoscente. Se non fosse stato per lui adesso non saresti che un
esperimento, saresti ancora nelle grinfie del Centro a farti torturare dal Dr.
Raines! – quelle dure parole, dettate dall’ira e dalla frustrazione, le
uscirono di bocca prima che potesse rendersene conto e ad Emily non restò che
pentirsene – Perdonami Jay. Non volevo dire quello che ho detto, io…» provò a
giustificarsi davvero dispiaciuta. Ma il ragazzo, profondamente ferito, stava
già scendendo dall’auto, sbattendo con rabbia la portiera.
“Maledizione, ma perché sbaglio
sempre tutto con lui?!” si chiese accasciandosi amareggiata sul sedile.
Forse perché all’università le
avevano insegnato come poter aspirare al premio Pulitzer, ma non come si fa da
sorella maggiore ad un ragazzo difficile…né tanto meno da madre.
Il suo pensiero corse inevitabilmente
a lei: “Dio quanto mi manchi mamma, soprattutto in questi momenti. Tu sapresti
di sicuro cosa fare, mentre io…”
Si sentiva così sola. Erano
anni che non vedeva sua madre, infatti dopo quanto era successo a Boston,
Margaret aveva preferito, seppur a malincuore, separarsi da lei, per far sì che
almeno la figlia fosse al sicuro ed Emily aveva creduto di esserlo, finché Lyle
non l’aveva trovata e l’aveva quasi uccisa, costringendola a rinunciare alla
sua promettente carriera al giornale, ad abbandonare la sua dinamica
Philadelphia per lavorare sotto falso nome in piccole e monotone redazioni di
provincia.
Non poteva contare nemmeno su
suo padre, che aveva ritrovato circa un anno prima, ma che quasi sempre era
lontano, alla ricerca di Margaret, lasciando lei sola ad occuparsi di Jay.
Compito assai arduo che, pressoché subito aveva capito di non essere in grado
di svolgere. Dapprima si era mostrata fin troppo comprensiva con lui, senza
riuscire a placare la rabbia che questi sembrava provare verso tutto e tutti.
Allora era passata alla linea dura, ma i risultati non erano certo stati
migliori, non era mai riuscita ad aprirsi, ad instaurare un dialogo col
fratello e la situazione oramai le
stava sfuggendo di mano. Tutto era troppo complicato e decisamente al di sopra
delle sue possibilità.
Eppure voleva bene a quel
ragazzo, dannazione! Avrebbe dato la vita pur di proteggerlo. Ma allora perché
non riusciva a fargli capire quanto lo amasse, visto che lui ne aveva
sicuramente bisogno? Forse la paura, l’inquietudine di doversi sempre guardare
le spalle, le impedivano di lasciarsi andare e di mostrare apertamente i propri
sentimenti. Probabilmente poco prima si era arrabbiata tanto per le parole di
Jay perché lei stessa a volte, suo malgrado, aveva pensato che Jarod fosse la
causa di tutti i suoi guai. Momenti di debolezza, che non poteva e non voleva
concedersi di nuovo.
“Pazienza Emily. Devi farti
forza ed avere pazienza” si disse ripensando alla sua ultima conversazione
telefonica con Jarod, quella in cui lui le aveva promesso che un giorno non
lontano tutto questo sarebbe finito, che tutti loro sarebbero tornati alle loro
vite e che sarebbero finalmente stati una famiglia…una tranquilla famiglia
felice.
Forse si stava solo illudendo,
ma in quel momento come non mai aveva bisogno di credere alle parole di suo
fratello, aveva bisogno di aggrapparsi a quella flebile speranza, altrimenti
avrebbe rischiato d’impazzire.
Istituto Psichiatrico di
Pleasant Wood – Tosen, Maryland - ore
07:00 a.m.
Le prime ore del mattino erano
quelle che preferiva per camminare lungo i sentieri deserti del parco, ormai
vestito dei caldi colori autunnali. Pennellate d’ocra, castano e amaranto, che
parevano delineate dalla mano di un abile maestro. L’aria leggera e pungente
arrivava fresca sulle sue gote e gli stuzzicava piacevolmente le narici,
portando con sé il profumo tenue del muschio e delle foglie ingiallite, cariche
di rugiada, che scintillavano come preziosi gioielli alla luce dei primi,
tiepidi raggi del sole. Tranquillità e silenzio, interrotti talora da flebili
cinguettii, erano l’unico sottofondo alle sue solitarie passeggiate mattutine
ed infondevano nel suo animo un profondo senso di pace.
Poco meno di un anno prima,
Ethan credeva che non sarebbe mai stato possibile per lui raggiungere una tale
quiete. Allora desiderava soltanto porre fine in qualche modo alle sue
sofferenze, all’aspro conflitto che si combatteva nella sua testa da quando era
venuto al mondo. Le voci sommesse, delle quali ignorava la provenienza e che lo
terrorizzavano, contro le parole arcigne di quell’uomo malvagio, l’unico di cui
purtroppo si era sempre fidato, che gli imponevano di non ascoltare. Ethan
aveva capito che, per quanto si fosse sforzato, non sarebbe mai riuscito a far
cessare quelle voci, eppure doveva fermare l’acuto contrasto che dilaniava la
sua mente tormentata fino a farlo impazzire, perciò non aveva trovato che una
soluzione: desiderava soltanto morire, pur di non dover più sopportare quello
strazio.
Ma Jarod e Miss Parker lo
avevano impedito, avevano salvato appena in tempo la sua vita e quella di
migliaia di innocenti che il Dr. Raines gli aveva ordinato di uccidere,
piazzando quella bomba nella metropolitana di Washington. Ancora non riusciva a
spiegarsi come Jarod fosse stato capace di farli uscire incolumi da quella
tremenda esplosione, però gliene era profondamente grato. E gli era
riconoscente anche di averlo portato lì, a Pleasant Wood, un posto sicuro dove
gli spazzini del Centro non lo avrebbero mai cercato, perché già erano stati lì
anni prima seguendo le tracce dello stesso Jarod.
Non era stato facile, né
indolore, ma grazie all’aiuto della dottoressa Goetz, Ethan aveva finalmente
imparato a convivere con il suo senso interiore, a non aver paura di quelle
voci, ad ascoltarle e a credere in ciò che gli dicevano…soprattutto la voce di
lei, soave, rassicurante, carica di infinita tenerezza: la voce di sua madre.
Sapeva che a malincuore avrebbe
lasciato quell’oasi di pace e tranquillità, il luogo che aveva segnato la sua
rinascita fisica e spirituale, l’unico posto dove si era sentito veramente al
sicuro. Ma per lui era quasi giunto il momento di andarsene, di tornare ad
affrontare il mondo esterno.
Le voci erano state chiare in
proposito: una terribile minaccia incombeva sulle persone che più gli erano
care, un’entità estremamente malvagia si stava muovendo subdola nell’ombra, in
attesa del momento più propizio per colpire. Ancora non aveva capito chi o cosa
fosse, ma poteva percepirne la crudele determinazione. Nonostante l’idea di
lasciare quella sorta di guscio in cui aveva trovato pace e serenità lo
spaventasse più di quanto volesse ammettere, non poteva tirarsi indietro. Sua
sorella avrebbe presto avuto bisogno di lui.
Aeroporto di Dover,
Delaware - ore 04:00 a.m.
Faceva ancora buio quando Jarod
uscì esausto dal terminal delle partenze internazionali, per poi dirigersi a
passi lunghi e frettolosi verso il parcheggio, guardandosi sempre attorno con
circospezione. Probabilmente non ce n’era bisogno, lì e a quell’ora, ma oramai,
dopo anni di clandestinità, era talmente abituato a muoversi in quel modo che
forse non sarebbe più stato capace di farne a meno per il resto della sua vita,
anche se (magari…) non fosse più stato necessario, o si fosse sforzato di evitarlo.
Era stata una lunga notte
quella appena trascorsa, una notte che aveva fatto seguito a due giorni
altrettanto intensi, fatti di febbrili preparativi, di spiegazioni solo
accennate, che avevano reso tuttavia fin troppo chiara la gravità del pericolo
incombente. Era stata una notte di frettolosi ma per questo non certo meno
penosi commiati, di frenetiche corse in auto, di sensi sempre all’erta. Una
notte estenuante, ma ne era valsa la pena. Michelle, Nicholas e Debbie erano
ufficialmente spariti nel nulla e viaggiavano in incognito sull’aereo che li
stava portando in Europa, dove sarebbero stati al sicuro, dove per il Centro
sarebbe stato molto più difficile trovarli, anche se non impossibile.
Seduto al volante della sua
auto, mentre viaggiava alla volta del tranquillo sobborgo di Dover in cui aveva
affittato un monolocale, Jarod iniziò finalmente a rilassarsi. La tensione si
allentava poco a poco sui suoi nervi e sui muscoli spossati, cedendo il passo
alla stanchezza, così, nell’intento di combattere il sonno, che già incombeva
minaccioso sulle sue palpebre ormai troppo pesanti, Jarod accese la radio. Un
romantico motivo si diffuse nell’abitacolo.
Ancora una volta chi ne aveva
scritto le liriche, pareva aver misteriosamente intuito quali fossero i suoi
tormentosi pensieri…
How can you just walk
away from me,
when all I can do is
watch you leave
Cos we’ve shared the
laughter and the pain
and even shared the
tears
You’re the only one who
really knew me at all…
L’incalzante susseguirsi degli
avvenimenti lo aveva aiutato a non pensarci troppo nelle ultime ore, ma a quel
punto le dure parole di Miss Parker tornarono a risuonare nella sua mente col
loro crudele significato e una dolorosa fitta trafisse ancora il suo povero
cuore, già colpito a morte.
“Perché Allison…perché?!”
riprese a domandarsi esasperato, ricacciando indietro con rabbia le lacrime che
già bruciavano nei suoi occhi.
La maledizione che da sempre lo
condannava alla solitudine si era di nuovo abbattuta inesorabile sulla sua
vita, proprio nel momento in cui aveva ripreso a credere in un lieto fine, a
lottare con maggiore tenacia per cambiare la sua sorte avversa. Proprio quando
si era persuaso che non sarebbe mai più stato solo, la donna che amava aveva
distrutto in pochi istanti tutte le sue speranze.
Un doloroso groppo tornò a
serrargli la gola al solo pensiero di quelle spietate affermazioni e una parte
di lui, quella più irrazionale ed emotiva, quella che si sentiva amareggiata e
confusa, che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non dover mai ascoltare simili
parole, si struggeva per le sue pene d’amore, tuttavia…
Tuttavia un campanello aveva
preso a suonare flebile nel sua mente geniale: qualcosa non gli tornava.
Innanzitutto Miss Parker non era
tipo da giocare coi sentimenti, specialmente con quelli di Jarod, se non altro
per la profonda amicizia che li aveva uniti tempo addietro. Era diretta e
schietta, sapeva esserlo fino alla brutalità, quindi non gli avrebbe mai detto
di amarlo se non ne fosse stata più che sicura e questo lo portava a chiedersi
cosa l’avesse mai spinta ad affermare il contrario un paio di giorni prima.
E poi c’erano i suoi occhi. A
volte limpidi laghi di montagna che palesavano tacitamente segrete emozioni,
oppure trasparenti, impetuose cascate cariche di passione o ancora cupi mari in
tempesta, in cui trasparivano rancore e sete di giustizia. Ma quella sciagurata
sera di due giorni prima, gli occhi di Miss Parker, sempre così espressivi, lo
sfuggivano inafferrabili ed enigmatici, quasi volessero tenere celati i veri
sentimenti della donna, come se…
Lo sguardo sempre fisso sulla
strada, Jarod aggrottò di colpo le sopracciglia: un’intuizione aveva messo in
moto gli ingranaggi del suo brillante cervello. Sì, più ci pensava e più si
faceva strada nella sua mente l’idea che lei gli stesse nascondendo qualcosa.
Ma che poteva mai essere?! Una notizia così sconvolgente da indurre Allison a
tenerla per sé..? Uhm…poco probabile…oppure un pericolo così grave che…e se lei
avesse voluto tenerlo all’oscuro per proteggerlo? Ma da cosa?! Ah stava
farneticando!
Erano le quattro del mattino e
non dormiva da quasi ventiquattr’ore: aveva troppo sonno per poter ragionare
lucidamente. Forse, anzi di sicuro si stava solo illudendo. Miss Parker si era
davvero resa conto di aver commesso un errore ed in tutta franchezza si era
sentita in dovere di dirglielo, tutto lì. Anche se il solo pensiero lo faceva
impazzire, doveva riuscire a farsene una ragione: con lei era tutto finito.
Il Centro, Blue Cove – Ala Rinnovamento – ore 07:00 p.m.
Quando le porte dell’ascensore
si aprirono, un insopportabile senso di nausea
gli attanagliò lo stomaco e Sydney sapeva che non era dovuto al forte
odore di disinfettante misto a formaldeide che impregnava quel luogo asettico.
Si era augurato di non dover
mai più mettere piede in quel posto, quella sorta di anticamera dell’inferno,
ma Cox aveva trasferito proprio lì il suo laboratorio. L’Ala Rinnovamento non
conservava certo buoni ricordi per lui, dopo che vi era stato segregato, quando
aveva temporaneamente perso la vista in seguito all’esplosione della bomba che
lui stesso aveva piazzato nel SL-27.
Già, il famigerato Sottolivello
27: mettendo in atto il suo gesto disperato, aveva creduto che almeno quella
spregevole parte del Centro sarebbe morta per sempre col suo ignobile
significato e le sue orribili memorie, cose che non avrebbe mai voluto vedere,
che gli avevano ricordato gli anni terribili passati con Jacob a Dachau e gli
esperimenti disumani del Dr. Krieg.
Quel posto sarebbe dovuto
sparire, inghiottito dalla deflagrazione e dalle fiamme, invece Cox voleva
riportarlo in vita, riprendere gli esperimenti di Raines sui simulatori,
sacrificare altre vittime innocenti, come lo erano stati Jarod, Kyle, Angelo e
lui era lì per impedirglielo a qualunque costo. Non poteva più restarne fuori,
imporsi di non vedere ciò che stava accadendo per mettere a tacere la sua
coscienza.
In passato non aveva voluto
ascoltare né Jacob né Catherine, non aveva voluto aiutarli e loro invece
avevano sacrificato la vita nel tentativo di fermare il Centro. Sapeva che, per
quanto avesse cercato di porvi rimedio, non si sarebbe mai perdonato quel
terribile errore, avrebbe dovuto convivere per sempre con il rimorso di aver
abbandonato il suo stesso fratello e la sua più cara amica quando maggiormente
avevano avuto bisogno di lui…così come non si sarebbe mai perdonato di non aver
fatto di più per proteggere Jarod.
Ma finalmente gli si presentava
l’occasione per riscattarsi, per porre fine alle malefatte del Centro e Sydney
era più che mai deciso a coglierla e ad andare fino in fondo. Al momento la sua
priorità era proteggere il piccolo Baby Parker e ciò implicava scoprire quali
fossero le intenzioni di Cox nei suoi confronti. Purtroppo, fino a quel
momento, i suoi sospetti si erano rivelati fondati: dalle analisi del DNA era
risultato che Sean non poteva assolutamente essere figlio di Brigitte e Mr.
Parker. Non solo il bambino era stato concepito artificialmente, ma il suo
patrimonio genetico presentava inspiegabili anomalie, che Sydney, anche se lo
aveva taciuto a Miss Parker, sospettava non fossero opera della natura. Non ne
aveva la certezza, ma temeva che Cox, come il suo predecessore, stesse giocando
a fare Dio, utilizzando ignare vittime innocenti alla stregua di cavie, proprio
come i crudeli aguzzini di Dachau…il solo pensiero gli faceva orrore ed
attizzava la sua rabbia troppo a lungo repressa. Doveva scoprire la verità e la
sola persona che potesse rispondere alle sue domande si trovava oltre la porta
che si ergeva chiusa di fronte a lui.
Senza indugiare, Sydney bussò e
si fece strada all’interno del laboratorio verso l’unico astante.
«Sydney» l’apostrofò questi,
senza scomporsi troppo per la sua improvvisa intrusione, alzando incuriosito lo
sguardo dal tabulato che stava esaminando.
«Dr. Cox»
«Cosa la porta nel mio
laboratorio?»
«Circolano strane voci –
replicò Sydney avvicinandosi a lui – e mi chiedevo se lei potesse confermarle»
«Ah sì? E cosa si dice in
giro?»
«Che il SL-27 sarà rimesso in
funzione per riprendere il programma simulatore» asserì flemmatico l’altro
senza tanti preamboli, fissandolo dritto nei suoi occhi scuri, liquidi e
sfuggenti.
«Interessante. Ma perché io
dovrei esserne a conoscenza?» chiese ancora Cox, con finto candore.
«Perché in giro si dice anche
che sarà lei ad occuparsene»
«Se anche fosse – ribatté
l’altro con un viscido sorrisetto – Non capisco che cos’ha che fare con lei
tutto questo»
«Forse dimentica che fui io ad
avviare il programma simulatore insieme al Dr. Raines più di trent’anni fa –
obiettò Sydney con pacata fermezza – Quindi sono venuto a proporle la mia piena
collaborazione per renderlo di nuovo operativo»
«Ma che offerta generosa –
commentò Cox con palese sarcasmo – Immagino che l’idea di mandarla quaggiù a
fare la talpa sia stata di Miss Parker, anche se questo non è proprio il suo
stile – aggiunse sedendosi con eccessiva lentezza alla propria scrivania, senza
smettere di studiare con aria inquisitoria ogni reazione dello psicologo – In
effetti Miss Parker, come la sua povera mamma, preferisce affrontare le
situazioni a viso aperto…abitudine assai rischiosa da queste parti, non trova
anche lei Sydney?»
«Lasci Miss Parker fuori da
questa storia – replicò l’altro affatto turbato, almeno in apparenza, per la
minaccia non troppo velata di quelle ultime parole – Lei non sa che sono qui,
non potrebbe mai capire»
«Cosa non capirebbe? Il perché
una delle poche persone di cui si fida mi stia chiedendo di partecipare ad un
progetto che lei stessa ha sempre disapprovato?»
«Miss Parker è un’idealista –
spiegò Sydney seguitando a sostenere impassibile lo sguardo di Cox – vede tutto
bianco o nero. Non si rende conto che ci sono cose per cui vale la pena di
scendere a compromessi. Ma lei è uno scienziato, come me e capirà che…»
«Sono colpito dalla sua
dedizione verso il progresso della scienza, Sydney, tuttavia…»
«Maledizione Cox!!! – esclamò a
quel punto Sydney con tutta l’enfasi di cui fu capace, nel tentativo di vincere
l’evidente scetticismo del suo interlocutore - Ho dedicato tutta la mia vita a
questo progetto e non voglio esserne tagliato fuori proprio ora che sta per
riprendere!!!»
Silenzio…sguardi di sfida
incrociati che si studiavano sospettosi l’un l’altro.
«Io non mi fido di lei, Sydney
– esordì Cox mellifluo, ma senza mezzi termini, dopo un lungo silenzio - Ciò
nonostante, devo ammettere che la sua decennale esperienza maturata su Jarod
potrebbe essermi molto utile con il mio soggetto…»
«Di chi si tratta?» chiese lo
psicologo, forse un po’ troppo interessatamente.
«…anche perché, vista l’età,
potrei incontrare gravi problemi a livello psichico»
«Vista l’età? Non starà mica
parlando di un neonato? – si lasciò sfuggire Sydney allarmato - Non si può
certo…»
«No, stia tranquillo. Non sto
parlando del piccolo Baby Parker»
«Io non…»
«Non faccia l’ingenuo con me,
Sydney – lo interruppe Cox con falsa cortesia, la sua voce quasi un sibilo - So
benissimo che ha effettuato delle analisi sul DNA del piccolo. Immagino che
abbia trovato i risultati quantomeno …interessanti»
“Raccapriccianti è la
parola giusta maledetto bastardo!!!” pensò Sydney tra sé e sé.
«Oh, a dir poco – si limitò poi
a replicare pacato – Suppongo che l’anomalia genetica sia opera sua»
«Esattamente – confermò
soddisfatto Cox - Quella piccola
modifica lo porterà a sviluppare doti simili a quelle di Jarod ma in una forma
assai superiore»
«Quindi Baby Parker è stato
inserito nel programma» osservò Sydney, dissimulando tutto l’orrore che provava
in quel momento.
«Certo, fin dalla sua nascita –
affermò Cox – Ma non è lui il soggetto di cui parlavo prima. Non lo si può
certo utilizzare…per il momento – Sydney non poté impedirsi di rabbrividire di
collera e disprezzo per le parole di quell’essere inumano - No, io mi riferivo
ad un nuovo acquisto del Centro, che sarà qui tra poco»
«Il Centro rapirà un altro
bambino?»
«Sì, possiamo dire di sì –
asserì tranquillo Cox, con perverso compiacimento - Spero che la cosa non sia
un problema per lei Sydney, visto che dovremo…collaborare»
Il Centro, Blue Cove -
Ufficio di Broots - ore 07:00 p.m.
Miss Parker passeggiava
nervosamente avanti e indietro di fronte alla scrivania, in attesa che il
computer terminasse la scansione dell’ennesimo gruppo di files, alla ricerca di
qualcosa legato alla lista.
«Sei assolutamente certo che
questa stanza sia sicura Broots?» esordì ad un tratto.
Sapeva benissimo che la domanda
era superflua, che naturalmente il tecnico aveva sistemato tutto, ma doveva in
qualche modo scaricare la tensione accumulata nelle sue lunghe notti insonni,
durante le quali non faceva che rivedere la profonda amarezza negli occhi di
Jarod, mentre il suo incubo ricorrente seguitava a tormentarla con oscuri
presagi.
«Sì Miss Parker, non
preoccuparti – rispose infatti Broots - Non ci sono né microfoni né telecamere
qui dentro. Possiamo parlare liberamente»
Di nuovo silenzio, spezzato
soltanto dall’inquieto picchiettio dei tacchi a spillo sul pavimento.
«Ancora niente?» chiese di
nuovo lei dopo qualche minuto, indicando il computer.
«Non…ah, ecco. La ricerca è
finita ora. Nessun risultato purtroppo»
«Maledizione! Deve pur essere
da qualche parte!» sbottò esasperata la
donna.
«Non credo che rimangano molti
altri archivi da controllare» osservò scettico il tecnico.
«Forse stiamo sbagliando tutto
- gli fece eco sfiduciata Miss Parker – Forse non è propriamente una lista ciò
che dobbiamo cercare»
«Credo che tu abbia ragione –
confermò perplesso Broots – Vista l’importanza dei dati, è probabile che quei nomi
siano conservati sotto una qualsiasi forma…numerica ad esempio»
«Un codice vuoi dire?»
«Sì, più o meno. In questo modo
potrebbero essere archiviati dovunque, persino sotto il nostro naso, ma
sarebbero comunque al sicuro, perché a noi sembrerebbero…che so? Un elenco di
fatture, ad esempio»
«Allora ricominceremo a
spulciare tutti gli archivi e cercheremo meglio»
«Sarebbe tempo sprecato –
commentò dissuasivo lui - Dovremmo avere almeno un indizio per sapere cosa
cercare, o meglio la soluzione per decifrare il codice…tipo “Il codice
Rebecca”! – esclamò di colpo pimpante - Lo hai letto Miss Parker? Parla di una
spia nazista del Cairo che durante la seconda guerra mondiale sottrae segreti
militari agli inglesi per poi passarli cifrati a Rommel e…»
«BROOTS!!!» l’interruppe
esacerbata la donna, scoccandogli un’occhiataccia raggelante, ma astenendosi
dall’apostrofarlo, come suo solito, con ulteriori epiteti ingiuriosi.
«Scu…scusa Miss Parker»
bofonchiò intimidito il tecnico. Si lasciava sempre prendere la mano al momento
meno opportuno accidenti!
«Accantoniamo la lista per un
attimo – continuò lei in tono più composto, dopo un lungo sospiro - Come
procede la ricerca nella banca dati della Nugenesis? Scoperto qualcosa su
Sean?»
«Per ora no, ma ci sto
lavorando. Ho trovato una serie di strani archivi criptati, relativamente
recenti. Se davvero Sean è stato concepito in quella clinica, le informazioni
che cerchi potrebbero essere lì dentro, ma mi serve ancora un po’ di tempo per
decriptare i dati»
«Vedi di sbrigarti - ammonì lei - Se i sospetti di Syd sono
fondati, il tempo è l’unica cosa di cui non disponiamo… a proposito, dov’è
Syd?»
«Uhm…credo che sia da Cox, per
scoprire se le sue intenzioni su Sean…insomma…»
«Capisco. Tu comunque cerca di
accelerare i tempi»
L’uomo stava per assicurarle
che lo avrebbe fatto, ma proprio in quel momento il sonoro beep del
computer annunciò l’arrivo di un video-messaggio.
«Jarod!» esclamò Broots quando
il sorriso sornione del simulatore apparve sullo schermo.
«Ma sei matto a chiamare qui?!»
proruppe al donna, la voce carica di rimprovero ed apprensione.
«Non preoccuparti Parker, la
linea è protetta – la tranquillizzò pacato Jarod - Volevo informarvi che i
viaggiatori sono arrivati a destinazione senza intoppi – annunciò poi,
riferendosi naturalmente a Michelle, Nicholas e Debbie - Sanno già che per la loro sicurezza non
devono mettersi in contatto con voi. Tu e Sydney farete altrettanto, intesi
Broots?»
«Certo» confermò l’altro
sospirando, mentre un’ombra di rammarico gli incupiva lo sguardo.
«So che è difficile stare
lontano da chi ami…nessuno lo sa meglio di me, credimi» cercò di consolarlo
Jarod.
A quelle parole, il cuore di
Miss Parker sembrò chiudersi in una morsa, mentre senso di colpa e frustrazione
le procuravano un’irrefrenabile voglia di piangere, ma nulla di tutto ciò
trasparì sul suo bel volto.
«Devi farti forza Broots e
avere pazienza» riuscì persino a dire in tono rassicurante.
«Useremo la mailbox Rifugio
per comunicare – aggiunse Jarod - Ma solo in caso di emergenza»
«D’accordo» assentì Broots.
«Ci sono novità sulla lista?»
chiese quindi l’altro.
«Purtroppo no» replicò il
tecnico, per poi condividere con lui le conclusioni a cui era giunto poco prima
insieme a Miss Parker.
«Bè, a questo punto, visti i
risultati delle nostre ricerche, l’ipotesi di un archivio cifrato è l’unica
possibile – convenne Jarod – L’idea mi aveva già sfiorato, ma speravo di
sbagliarmi…accidenti! – imprecò – Senza una traccia potremmo tirare ad
indovinare per i prossimi vent’anni prima di trovare qualcosa e noi non abbiamo
tutto questo tempo!»
«Forse tuo padre potrebbe
sapere qualcosa, non credi Miss Parker?» azzardò Broots.
«Mia madre non era sicura che
lui fosse al corrente dei veri progetti del Centro – replicò lei ricordando le
parole di Catherine registrate sul DSA - Dubito che sappia qualcosa della
lista»
«Ho passato al setaccio il suo
PC qualche mese fa e non ricordo di aver visto nulla al riguardo» confermò
Jarod.
«Allora che altro possiamo
fare?» domandò scoraggiato il tecnico, forse più a se stesso che agli altri
due.
Un silenzio opprimente, carico
d’inquietudine avvolse la stanza.
«E’ inutile girarci intorno –
esordì infine Jarod – Se vogliamo scoprire qualcosa, dobbiamo concentrarci su chi
ha ideato il complotto, vale a dire sul Triumvirato»
«Ma il Triumvirato risiede in
Africa, non si sa nemmeno dove di preciso – obiettò Miss Parker – Come pensi di
arrivare alla loro banca dati, ammesso e non concesso che ne esista una?»
«Innanzitutto potremmo
concentrarci sull’unico membro del Triumvirato che soggiorna regolarmente al
Centro» replicò lui.
«Uhm…a pensarci bene, l’unico
archivio che non abbiamo ancora controllato, quindi la nostra ultima speranza –
ammise la donna - è il PC personale di Matumbo, che si trova nel suo ufficio,
all’ultimo piano della Torre»
«Cosa?! Volete entrare nel
computer di Matumbo?! – sussurrò sgomento Broots, rabbrividendo da capo a piedi
– Ma è impossibile! A quel PC non si può accedere dagli altri terminali del
Centro, perché non è in rete, proprio come quello di Mr. Parker – spiegò,
sempre più spaventato dall’idea che presumeva si fosse malauguratamente fatta
strada nella mente dei suoi interlocutori – L’unico modo per arrivarci
é…sarebbe…intrufolarsi in quell’ufficio e…»
«…ed è esattamente quello che
farò» dichiarò Jarod.
«Questo è fuori discussione!»
sbottò categorica Miss Parker, con una foga tale da attirare su di sé gli
sguardi stupiti di entrambi gli uomini.
Maledizione! Stava facendo
l’impossibile pur di tenerlo lontano da lì, aveva persino deciso di rinunciare
a lui per questo ed ora lui voleva…ah no! Non glielo avrebbe certo permesso!
«A dire la verità, i sistemi di
sicurezza qui al Centro sono quasi triplicati negli ultimi mesi, proprio a
causa della tua visita nell’ufficio di Mr. Parker…telecamere, microfoni, agenti
di guardia…» gli fece osservare Broots.
«Troverò il modo di eluderli,
non temere» asserì sicuro l’altro.
«Non puoi farlo Jarod. E’
troppo rischioso » ribadì la donna con immutata veemenza.
«All…ehm…Parker, ne abbiamo già
parlato – replicò per nulla dissuaso il simulatore - Non possiamo evitare di
correre rischi se vogliamo portare a termine il progetto di tua madre. E poi lo
hai detto tu stessa: il computer di Matumbo è la nostra ultima speranza»
«E’ vero, qualcuno deve entrale
là dentro – ammise lei – quindi lo farò io» aggiunse in tono perentorio.
«Cosa?!» esclamò sbigottito
Broots, fissandola con gli occhi strabuzzati.
«Parker ragiona – ribatté
Jarod, ancora esterrefatto per le sue parole - Quel computer sarà di certo
superprotetto. Eludere il sistema non è roba da dilettanti...insomma, non puoi
farlo tu!»
«E tu non puoi entrare di nuovo
qui dentro! – rimarcò imperiosamente lei. Qualsiasi scusa potesse addurre, non
gliel’avrebbe data vinta…mai! – Broots mi aiuterà. Sono sicura che possiamo
farcela»
«Co…COSA?!» ripeté questi, a
quel punto spaventato a morte. Miss Parker gli aveva spesso imposto compiti
rischiosi, ma addirittura l’ufficio di Matumbo…oh santo cielo!!!
«Andiamo! Voi due non avete mai
fatto cose del genere!» osservò scettico il simulatore.
«Questo non è del tutto esatto,
non è vero Broots?»
Il tecnico fece per ribattere,
ma Jarod fu più veloce di lui.
«E come la mettiamo con la
sorveglianza? Come farete ad eludere i nuovi sistemi di sicurezza? O credi che
non sia rischioso per voi due essere scoperti?!»
«Non quanto lo sarebbe per te»
«Dannazione Parker! – proruppe
a quel punto esasperato Jarod - Tutto questo è al di sopra delle tue
possibilità, vuoi rendertene conto?!»
«Non esserne tanto sicuro –
replicò secca lei - Non sarebbe la prima volta che mi sottovaluti, ragazzo
prodigio!»
«Risparmia le tue frecciatine.
Non è proprio il momento di giocare a fare la dura!»
«Se pensi che stia giocando
significa che non mi conosci poi così bene, genio!»
«Non posso lasciartelo fare.
Dal buon esito di questa operazione potrebbe dipendere tutto ciò per cui
abbiamo lottato finora, lo capisci?»
«Perfettamente. Solo non
capisco cosa ti fa pensare di poterla portare a termine meglio di me»
«Ora basta Parker! – tagliò
corto aggressivo, con piglio deciso, in un tono che non ammetteva repliche - Se
vuoi entrare là dentro dovrai passare sul mio cadavere!!!»
«Non mi tentare…potrei anche
prenderti in parola!!!» sibilò minacciosa Miss Parker, più che mai determinata
a non cedere, lo sguardo gelido rivolto verso il monitor. Lui non doveva
nemmeno più avvicinarsi al Centro, per nessun motivo!
A quelle parole, Jarod
ammutolì, fissando confuso l’espressione oltremodo ostile dipinta sul volto
della donna. Ma che le stava succedendo?! Non gli aveva più parlato così dopo
Parigi, non lo aveva mai guardato in modo tanto torvo, nemmeno quando erano
ancora nemici, quando stava sulla difensiva e non si fidava di lui. Ma
perché si comportava così? Non aveva senso. Prima lo aveva allontanato da lei
di punto in bianco, ponendo fine alla loro storia ed ora voleva persino
impedirgli di entrare al Centro…no, non si era affatto sbagliato, non si stava
illudendo. Miss Parker gli nascondeva qualcosa e Jarod era più che mai deciso a
scoprire cosa, ma purtroppo avrebbe dovuto farlo in un’altra occasione, non
poteva certo affrontare l’argomento in presenza di Broots.
«Hem…ragazzi…voi due state
ancora dalla stessa parte…vero?» chiese intanto questi titubante, spezzando il
silenzio carico di tensione.
Nessuno dei due rispose,
entrambi impegnati a fronteggiarsi con lo sguardo.
Poi Miss Parker girò le spalle
ai suoi interlocutori e sospirò, gli occhi chiusi, la mano destra che
massaggiava nervosamente la sua fronte. Anche se lo aveva fatto a fin di bene,
non avrebbe dovuto aggredirlo a quel modo. Aveva decisamente esagerato, senza
contare il fatto che la sua reazione eccessiva aveva di sicuro insospettito
Jarod. Doveva subito scusarsi con lui e rimediare al guaio che aveva combinato.
«Perdonami Jarod, non
volevo…io…» iniziò a spiegare, ma lui l’interruppe prima che potesse aggiungere
altro.
«D’accordo Parker, come vuoi.
Sarai tu ad entrare in quell’ufficio – si arrese infatti questi, studiando
pensieroso la reazione della donna attraverso il video, nel vano intento di
capire cosa avesse in mente - Ma lo
farai a modo mio – quindi si rivolse al tecnico - Avrò bisogno anche di te
Broots, perciò preparatevi tutti e due. Domani notte si entra in azione».
Casa di Sydney, Blue Cove -
ore 10:00 p.m.
L’inaspettato trillo del
telefono lo colse di sorpresa e lo fece sobbalzare, mentre sedeva alla
scrivania del suo studio, immerso nell’attenta analisi dei pochi dati che Cox
gli aveva fornito sul nuovo Programma Simulatore.
«Sì, sono Sydney» rispose
laconico.
«Secondo te perché non
riusciamo a fare a meno di amare?» chiese come sempre senza preamboli la voce
di Jarod.
L’espressione dello psicologo
si fece di colpo interessata, mentre abbandonava le sue carte e, togliendosi
gli occhiali, si appoggiava lentamente allo schienale della sua poltrona.
«Perché l’amore è in assoluto
il più intenso dei sentimenti umani – rispose quindi pacato - Più forte della
nostra stessa volontà, dei pregiudizi, delle tragedie che ci colpiscono…e
checché se ne dica, persino più forte dell’odio»
«Allora è per questo che non
possiamo imporci di non amare, anche quando non siamo corrisposti? Perché
l’amore è più forte della nostra volontà?»
«Purtroppo è così. Non si può
semplicemente premere un interruttore e…»
«Alcune persone sembrano
riuscirci però» commentò ironico Jarod con una punta di tristezza nella voce.
«Ti riferisci a qualcuno in
particolare?» domandò con falsa noncuranza il dottore.
«Può darsi» fu la sfuggente
replica.
«Comunque hai detto bene –
continuò Sydney, cercando di tenere a freno la propria curiosità - sembrano
riuscirci»
«Che vuoi dire?»
«Che non sempre le cose sono
come appaiono, soprattutto riguardo ai sentimenti – chiarì lo psicologo,
assumendo un tono quasi accademico – Oramai dovresti averlo capito, dopo cinque
anni trascorsi a studiare il genere umano»
«Sì dovrei – ammise Jarod, le
labbra increspate in un sorriso appena accennato – Il fatto è che il mio ruolo
è sempre stato quello di spettatore e…insomma è molto più facile capire le cose
in cui non si è coinvolti»
«Dunque stavolta sei tu ad
essere coinvolto? – nessuna risposta – Ad ogni modo l’amore non si può spegnere
così come si smorza una candela, te l’assicuro. Possono subentrare problemi e
difficoltà più o meno gravi in una relazione, ma se l’amore è sincero
sopravvive a tutto»
«Quindi secondo te il vero
amore può superare qualunque ostacolo»
«Ne sono convinto – ribadì
Sydney - Ma come mai tutte queste domande? C’è forse qualcosa che dovrei
sapere?»
«Per il momento è meglio di no»
rispose evasivo Jarod.
«Toglimi una curiosità – non
poté fare a meno di insistere a quel punto l’altro – Che cosa è successo tra te
e Miss Parker a Parigi?»
«Credo sia meglio che tu lo
chieda a lei»
«Senti Jarod, non pensi che sia
giunto il momento di chiarirvi e capire finalmente cosa provate l’uno per
l’altra?»
«Ma io so benissimo che cosa
provo per lei, Sydney. E’ Miss Parker a non avere ben chiaro quel che sente per
me» spiegò mestamente il simulatore, prima di interrompere la comunicazione.
Lo psicologo sospirò
meditabondo. “Lo sospettavo” si disse poi, rimettendosi al lavoro.
Cimitero di Blue Cove - ore
08:30 a.m.
I tiepidi raggi del sole
autunnale filtravano debolmente attraverso l’esile coltre di nuvole e la leggera
bruma, avviluppata attorno agli alberi e ai sepolcri insieme al silenzio. Le
gocce di rugiada brillavano appena di una luce diafana sulla soffice erbetta e
sulle aiuole ben curate. Il cimitero era deserto, fatta eccezione per due
figure, avvolte nei loro pesanti cappotti, ferme e taciturne di fronte alla
tomba di Catherine Parker.
«Allora è vero – sussurrò
ancora sconvolta Miss Parker, distogliendo finalmente lo sguardo dalla lapide,
per rivolgerlo verso l’uomo accanto a lei – Quel miserabile necroforo ha usato
mio fratello per i suoi subdoli giochetti genetici…ma stavolta non la passerà
liscia perché io..!»
«Calmati Miss Parker» Sydney
interruppe pacato il collerico sfogo.
«Calmarmi?! Syd, io ho fatto
nascere quel bambino e quant’è vero Dio non lascerò che..!»
«Sean ancora non corre rischi
per il momento. Non possiamo permetterci di eliminare Cox…non ancora»
«Non possiamo?!»
«Ti ricordo che il Centro sta
per rapire un altro bambino e noi dobbiamo assolutamente impedirlo. Purtroppo
Cox è l’unico che possa darci le informazioni necessarie, anche se non sarà
facile ottenerle. Ha accettato la mia offerta di collaborare, ma non si fida di
me, questo è certo»
La donna serrò i pugni,
cercando di controllare l’ira ed il ribrezzo che crescevano a dismisura dentro
di lei.
«Ne parlerò a mio padre –
dichiarò ad un tratto turbata, una flebile nota di speranza nella voce – Forse
lui non sa esattamente…lui non permetterebbe mai che…»
«Io non lo farei»
Quelle semplici, franche parole
ebbero l’effetto di una poderosa scrollata sul suo castello di illusioni oramai
pericolante.
«Syd, tu credi che lui sia..?»
mormorò senza concludere la domanda, forse perché non ne aveva il coraggio, o
magari perché già conosceva la risposta.
«Non lo so, Miss Parker –
confessò lo psicologo con aria grave. Odiava farla soffrire, ma lei doveva pur
aprire gli occhi, rendersi finalmente conto che la lealtà incondizionata che
nutriva per suo padre era mal riposta. Non poteva permettere che la storia si
ripetesse - So soltanto che Catherine ha voluto affidare a te il suo segreto,
non a lui. Questo dovrebbe dirti qualcosa»
Lei lo squadrò confusa per un
lungo istante, poi sospirò amareggiata. Sua madre aveva inscenato la propria
morte ed era arrivata a chiedere aiuto a Raines. C’era un’unica spiegazione per
tutto questo.
«La mamma non si fidava di lui»
dovette ammettere.
Sydney annuì con rammarico:
«Promettimi che nemmeno tu lo farai» le chiese con aria grave.
Miss Parker assentì a sua
volta. Lui aveva ragione, come poteva dargli torto? Suo padre le aveva mentito
così tante volte da perderne il conto, nascondendosi sempre dietro la scusa di
aver agito solo per proteggerla. Ma in verità non aveva mai alzato un dito per
impedire al Triumvirato di usare il Centro per
i propri abbietti scopi. Non aveva fatto una sola mossa per salvare sua
madre e non avrebbe fatto nulla per difendere lei. Il motivo, la finalità di
questo suo comportamento ambiguo non le erano del tutto chiari, ma sospettava
che non fossero affatto nobili. Questa era la realtà e, sebbene a malincuore,
doveva accettarla.
«Dobbiamo scoprire l’identità
del bambino prima che il Centro riesca a mettergli le mani addosso – esordì di
nuovo risoluta - Cosa sappiamo di lui?»
«Molto poco, purtroppo. Ho
scoperto soltanto che verrà utilizzato per un progetto collegato al programma
simulatore ideato da Raines e…che non si tratta di un bambino, ma di
un’adolescente»
«Cosa?!»
«Da quanto ho potuto capire,
Raines aveva seguito passo a passo lo sviluppo del bambino in seno alla sua
famiglia con l’intento di… prelevarlo quando lo avesse ritenuto
opportuno»
«Ma è mostruoso!»
«Lo so. E il fatto di dover
stare a qui guardare mi fa impazzire!»
«Noi non staremo a guardare –
dichiarò categorica Miss Parker – Sono certa che scopriremo chi è quel bambino,
passando al setaccio gli archivi dell’unico posto in cui può essere stato
concepito»
«La Nugenesis…sì, è molto
probabile» convenne Sydney.
«Dirò subito a Broots di
mettersi al lavoro. Tu intanto continua a tener d’occhio Cox e informaci subito
se ci sono novità».
Il Centro, Blue Cove -
Ufficio di Mr. Parker - ore 10:00 a.m.
Miss Parker posò le mani sulle
possenti maniglie d’acciaio e fece per aprire la porta a vetri dell’ufficio di
suo padre, ma improvvisamente esitò, chiedendosi ancora una volta se ciò che
stava per fare fosse davvero necessario. Aveva promesso a Sydney che non si
sarebbe più fidata di quell’uomo, lo stesso che forse aveva tradito sua madre,
che sicuramente aveva sempre ingannato lei, che non aveva mai ricambiato il suo
affetto e la sua devozione. Lo aveva promesso e non aveva intenzione di venir
meno ai suoi propositi, ma quell’uomo era pur sempre suo padre e lei non poteva
non concedergli il beneficio del dubbio.
Si rendeva conto che era
un’imprudenza, che così facendo rischiava di scoprire le sue vere intenzioni,
mettendo in pericolo la sua incolumità, ma doveva assolutamente capire perché
suo padre si fosse fatto coinvolgere nell’ignobile progetto di Cox. Voleva la
verità, anche se sapeva che avrebbe dovuto cercarla attentamente tra le righe
delle sue risposte ambigue.
La donna trasse un profondo
respiro e con la solita espressione altera dipinta sul bel volto entrò infine
nell’ufficio del direttore del Centro.
«Angelo!» l’apostrofò questi
col suo solito tono mellifluo, salutandola con un freddo bacio sulla fronte.
«Buongiorno papà»
«Che posso fare per te tesoro?»
tagliò corto l’uomo, evidentemente ansioso di liberarsi quanto prima di lei.
«Potresti dirmi che cos’hai in
mente, per esempio» replicò lei senza mezzi termini, studiando la reazione di
suo padre.
«Non capisco cosa intendi»
replicò questi visibilmente a disagio, sfuggendo lo sguardo inquisitorio della
figlia. Aveva forse saputo di lui?!
«Sono molto preoccupata per
Sean papà. E’ soltanto un bambino e non dovrebbe passare le sue giornate
rinchiuso nell’Ala Rinnovamento. Quel posto mette i brividi»
«Bè…ecco… - Mr. Parker assunse
di colpo un’espressione più rilassata, quasi fosse appena scampato ad una grave
insidia – Sì, forse quello non è propriamente il luogo adatto per far crescere
un bambino, ma non dimenticare che il piccolo Parker ha avuto gravi problemi di
salute. Ha rischiato più volte la crisi respiratoria e…»
«Ma oramai è guarito – obiettò
Miss Parker – Raines stesso lo aveva già dichiarato fuori pericolo»
«Lo so, lo so. Ma vedi Angelo,
Baby Parker non è un bambino normale»
«Ah no? Non è forse figlio tuo
e di Brigitte?» domandò a bruciapelo.
«Ma…ma certo tesoro…cosa..?»
balbettò Mr. Parker di nuovo in agitazione. Forse il pericolo non era affatto
scampato, dopotutto.
«Papà, conosco i risultati
delle analisi sul suo DNA – Miss Parker fissava severa il volto dell’uomo,
ridotto ormai ad una maschera di ghiaccio priva di emozioni. Lui sapeva di
essere stato colto in fallo e non aveva nessuna scusa – So che Sean è stato
concepito in vitro e che biologicamente non è figlio tuo, né di Brigitte.
Quello che voglio sapere è…papà, per favore, dimmi che non l’hai fatto solo per
ottenere una cavia da laboratorio»
«Ma che cosa dici tesoro?! –
replicò a quel punto lui sdegnato - Io e Brigitte lo abbiamo salvato!»
«Salvato da chi?»
«Quel piccolo embrione
congelato era destinato ad essere soppresso»
«Cosa?»
«E’ la verità – proseguì Mr.
Parker atteggiando il proprio volto ad un’espressione addolorata e
compassionevole che davvero non gli si addiceva – Io e Brigitte desideravamo
tanto un figlio, ma non siamo mai riusciti a concepirlo, così ci rivolgemmo
alla Nugenesis»
«Questo già lo sapevo» commentò
scettica la donna.
«Lì apprendemmo che i genitori biologici
di Sean erano morti in un incidente stradale proprio mentre si recavano alla
clinica per sottoporre la madre all’innesto e che in assenza di altri
famigliari che potessero reclamare l’embrione questo sarebbe stato eliminato,
così…»
«…così, mossi da umana
compassione, decideste di adottarlo, in senso molto allargato, anche se
la cosa era a dir poco illegale – proruppe Miss Parker scrutando suo padre con
evidente ostilità – E naturalmente non ti passò nemmeno per l’anticamera del
cervello di informare tua figlia dell’accaduto»
«So che avrei dovuto essere io
a dirtelo – ammise lui con aria colpevole, per poi aggiungere in tono
palesemente adulatorio – Anche perché era inevitabile che lo scoprissi da sola
prima o poi, vista la tua…»
«Non cercare di addolcirmi con
le lusinghe!» lo interruppe lei stizzita.
«Tesoro io non…»
«Piuttosto, c’è per caso
qualcos’altro che dovrei sapere?» domandò decisa, guardandolo dritta in quei
suoi occhi sfuggenti.
«Altro? Perché questo non ti
sembra forse abbastanza?» replicò l’uomo con ostentata disinvoltura.
«Oh a me sembrerebbe anche
troppo, ma non saprei dire se tu e il caro Dr. Cox sareste d’accordo» ribadì
Miss Parker continuando a sostenere risoluta lo sguardo di suo padre.
«Che c’entra Cox adesso?»
chiese questi con aria innocente.
“Perché non me lo dici tu?
Dimmi per quale motivo hai approvato ciò che sta facendo Cox nell’Ala
Rinnovamento e come hai potuto coinvolgere mio fratello in tutto questo?! Come
puoi permettere che un altro ragazzino innocente venga strappato alla sua
famiglia?! Perché lo stai facendo, perché non mi dici tutta la verità una buona
volta?!” stava per gridargli esasperata, ma qualcosa la fermò. Forse il
suo senso interiore o forse la mano benevola di sua madre, che si posava lieve
sulla sua spalla per dirle di non correre inutilmente altri rischi. Non ne era
certa.
Sapeva soltanto che, nonostante
il forte senso di frustrazione, a dispetto della rabbia e della delusione che
provava in quel momento a causa di suo padre, si limitò ad esibire un sorrisetto
enigmatico, a distogliere lo sguardo con aria nauseata e a girare sui tacchi
senza aggiungere altro.
Sapeva soltanto…anzi, a quel
punto ne aveva l’assoluta certezza, che non poteva fidarsi di quell’uomo.
Blue Cove – In un furgone
anonimo a pochi passi dal Centro – ore 00:30 a.m.
«Tutto a posto lì dentro
Broots?»
«Sì qui è tutto normale -
rispose il tecnico dal suo ufficio, attraverso il monitor – Potete procedere»
Jarod si volse allora verso
Miss Parker, che aveva appena completato la sua preparazione: pantaloni spessi
e morbidi, maglioncino dolcevita caldo e leggero, scarpe da palestra comode e
silenziose, il tutto rigorosamente nero…ah e una fondina, con l’immancabile
Smith & Wesson.
«Allora? Che te ne pare?» gli
chiese compiaciuta, facendo un giro su sé stessa.
«Niente male per una
principiante..! – commentò beffardo lui, ricevendo in cambio una torva
occhiataccia – Ma dovrai indossare anche i guanti per non lasciare impronte e
questo passamontagna – le disse porgendole gli indumenti - in modo che se
qualcosa andasse storto e le telecamere dovessero entrare in funzione al
momento sbagliato nessuno ti riconoscerà…per lo meno non con assoluta certezza»
Mentre lei indossava guanti e
berretto, Jarod le sistemò l’auricolare ed il sensore di movimento, quindi le
mise sulle spalle lo zainetto contenete l’attrezzatura di cui avrebbe avuto
bisogno e le consegnò la piccola torcia.
«Parker - c’erano una quantità
di cose che avrebbe voluto dirle, chiederle…non voglio che tu vada…cos’è che
mi stai nascondendo..? mi manchi da morire…tuttavia non era certo quello il
momento adatto, perciò si limitò a guardarla dritto negli occhi con aria
inquieta e a raccomandarle - Sta attenta»
Miss Parker lo fissò a sua
volta. Per una frazione di secondo fu tentata di buttargli le braccia al collo,
confessargli che aveva mentito, che niente era cambiato nel suo cuore, cha
aveva tanta paura e che aveva tremendamente bisogno di lui…ma dovette
resistere.
«Tranquillo – replicò infatti
con ostentata sicurezza - Non farò niente che tu non faresti»
«E’ questo che mi preoccupa»
mormorò impensierito lui guardandola allontanarsi, finché l’oscurità della
notte, fredda e senza stelle, non l’ebbe inghiottita.
Jarod si sedette di nuovo alla
consolle che aveva allestito nel furgone ed accese il secondo monitor, così,
accanto al volto teso di Broots, comparve la mappa dell’impianto di aerazione
fornitagli proprio dal tecnico, sulla quale avrebbe seguito e guidato le mosse
di Miss Parker, grazie al sensore.
Dopo qualche minuto,
un’osservazione dal tono disgustato, gl’indicò che la donna era giunta alla sua
personale via segreta d’accesso al Centro: lo scarico della fognatura.
«Dio che schifo!»
«Non lagnarti tanto Parker! Sei
stata tu ad insistere per farlo, no?» commentò la voce ironica di Jarod nell’auricolare.
«Sì…sì - borbottò lei avanzando nella melma che le
arrivava alle caviglie, in quella sorta di tunnel alto poco più di un uomo,
impregnato di umidità e di vapori nauseabondi – Francamente non riesco a spiegarmi
come in tutti questi anni nessuno sia mai riuscito a capire come entri ed esci
dal Centro. Una volta passato di qui ti si riconosce dall’odore!»
«Che vuoi che ti dica, Parker?
Forse i segugi del Centro non hanno abbastanza…fiuto!»
«Molto divertente!»
«Ci sei quasi. Oramai dovresti
vedere la botola»
Miss Parker alzò il fascio di
luce della torcia verso il soffitto del tunnel e vide la chiusura stagna del
portello di cui Jarod le aveva parlato.
«Sì, eccola»
Tenendo la torcia tra i denti,
la donna fece girare il volantino, dapprima a fatica, poi più agevolmente
finché non riuscì ad aprire il tombino spingendo il portello verso l’alto.
Quindi, con un leggero balzo, si appese per le mani al bordo e si issò
agilmente attraverso l’apertura, ritrovandosi sul pavimento di un’angusta
stanzetta buia, odorante di muffa e d’immondizia.
«Sono nel vano di servizio»
disse mentre si guardava attorno spostando lentamente la luce della torcia.
Era incredibile che il Centro
ignorasse l’esistenza di quel vecchio stanzino, utilizzato per la manutenzione
durante i primi anni di vita dell’edificio e poi andato in disuso, che
collegava ancora l’impianto fognario con quello di ventilazione. Come al
solito, Jarod era sempre un passo avanti a loro.
«Hai visto la presa dell’impianto
di aerazione?»
«Sì» confermò lei, notandola
accanto alla porta arrugginita, che probabilmente un tempo dava accesso al
SL-1.
«Okay. Ora togli la grata ed
entra nel condotto, poi procedi verso sinistra»
Miss Parker obbedì ed iniziò ad
avviarsi carponi in quel dedalo di cunicoli bui, impolverati ed infestati da
enormi ragnatele, nella direzione che di volta in volta Jarod le indicava…destra,
sinistra, ora sali…fino a raggiungere finalmente la meta, cioè ad
intravedere oltre la grata l’ufficio di Matumbo, deserto ed immerso
nell’oscurità.
«Sono in posizione – avvisò –
Broots?»
«Eccomi – rispose pronto questi
– Meno tre…due…uno…okay Miss Parker, il filmato è partito. Hai dieci minuti»
«Bene - assentì lei, quindi
tolse la grata e l’appoggiò con cautela alla parete del condotto, calò a terra
la fune che le sarebbe poi servita per andarsene, dopodiché si sistemò il
passamontagna sul viso e raggiunse con un salto il pavimento, senza fare il
minimo rumore – Sono entrata» sussurrò poi a Jarod.
La luce dei fari, disposti
lungo il perimetro esterno dell’edificio filtrava attraverso la grande vetrata,
che costituiva la parete destra della stanza, da cui si dominavano il parco ed
il lago, ma non era abbastanza intensa da permetterle di fare a meno della
torcia.
«Per prima cosa metti fuori uso
l’audio» le ricordò Jarod.
Miss Parker estrasse la
bomboletta spray dallo zainetto e ne spruzzò il contenuto sul piccolo microfono
installato alla base della telecamera: l’acido avrebbe prodotto lo stesso
effetto di un corto circuito.
«Fatto»
«Ora accendi il PC e collega il
decodificatore all’uscita per il modem…sai qual è, vero?» la punzecchiò Jarod.
«Spiritoso!» replicò ironica la
donna mentre inseriva il jack del piccolo dispositivo, per poi metterlo in
funzione.
Dopo una manciata di secondi,
il led rosso iniziò a lampeggiare e uno ad uno, lentamente, gli asterischi che
componevano la password comparvero sul monitor: “power” indicava il
display dello strumento.
“Ma che fantasia!” commentò
sarcastica Miss Parker tra sé e sé, prima di confermare: «Accesso consentito»
«Bene. Ora stacca il
decodificatore e collega il modem che hai con te al PC e al tuo cellulare, poi
configuralo…lo sai come si fa?»
«Fingerò di non aver sentito! –
replicò stizzita lei - Okay, fatto» aggiunse poco dopo.
«Adesso inserisci il floppy nel
drive “A” e lancia il programma, che farà una copia di tutti i files del PC e
li trasferirà automaticamente via modem al portatile di Broots»
«Okay, l’operazione è
cominciata – confermò la donna passato
qualche istante - Ricevi qualcosa Broots?»
«Sì, i dati stanno arrivando
regolarmente – assicurò il tecnico - Miss Parker, hai ancora cinque minuti
prima che la telecamera rientri in funzione e prima che la guardia arrivi per
il giro di…oh no!» esclamò di colpo contrariato.
«Che c’è?» chiesero all’unisono
gli altri due.
«Il sorvegliante è già
all’ultimo piano, ma non dovrebbe ancora esserci…insomma è in anticipo e questo
significa che abbiamo solo quattro minuti maledizione!» farfugliò Broots tutto
d’un fiato.
«Non ti agitare – lo ammonì la
donna – Ci vorranno ancora tre minuti scarsi per completare il trasferimento.
Sarò fuori di qui prima che arrivi il nostro amico»
Nell’attesa che l’invio dei
dati fosse completato, Miss Parker si dette un’occhiata intorno: l’ufficio di
Matumbo era arredato in modo decisamente minimalista…per non dire impersonale.
Niente schedari per conservare documenti, né mobili o suppellettili che
rivelassero un gusto soggettivo. Soltanto la grande scrivania in mogano, i cui
cassetti erano vuoti, con la poltrona
in pelle nera sulla quale si era seduta e un divano dall’aria assai scomoda sul
lato opposto della stanza. Bè, dopotutto Matumbo passava in quel posto solo
pochi mesi all’anno, non c’era da stupirsi che l’unica nota di colore in quella
stanza fossero le grandi fotografie raffiguranti paesaggi africani appese alle
pareti…anzi no, c’era persino un quadro. Incuriosita, la donna lo illuminò
meglio con la torcia e un profondo stupore si dipinse all’istante sul suo
volto: “ Non è possibile…”
Si trattava di un dipinto
astratto e rappresentava tre figure umane, incolori, le cui forme stilizzate
erano delineate da un gioco di luci ed ombre. I tre soggetti si stagliavano
contro uno sfondo piatto e monocromatico rosso vermiglio ed incombevano
minacciosi su quello che probabilmente era un paesaggio…o meglio ciò che ne
rimaneva, vale a dire un cumulo di rovine. La figura centrale, la più alta
delle tre, reggeva tra le mani un bizzarro oggetto, grossomodo a forma di
rombo, anche se assai irregolare. Sembrava quasi un pesce stilizzato…anzi no,
piuttosto uno strano utensile…e il nome dell’autore? Miss Parker spostò il
fascio di luce in basso a destra e come in un’inquietante déjà-vu, lesse quel
nome scritto sulla tela…Doom.
“Ma come può essere..?!”
Il leggero beep proveniente
dal computer attirò l’attenzione della donna e la riportò repentina alla
realtà.
Non aveva tempo per i suoi
misteri paranormali in quel momento. Aveva una missione da compiere.
«Operazione terminata –
annunciò – Ora scollego il modem e spengo tutto»
«Hai quarantacinque secondi»
l’avvertì Broots palesemente in ansia.
«Sbrigati» l’incalzò anche
Jarod.
In pochi istanti Miss Parker
ripose l’attrezzatura nello zainetto e fece per andarsene, ma alzandosi notò
l’angolo di un foglio che spuntava sotto la cassettiera della scrivania.
“E questo cos’è? - si chiese
raccogliendo quello che sembrava un memorandum destinato al cestino – Oh mio
Dio!” si disse iniziando a leggere .
«Miss Parker, hai trentacinque
secondi!»
«Un momento» mormorò lei mentre
cercava di memorizzare quanto più possibile di ciò che aveva scoperto.
«Ma che stai facendo?!» chiese
impaziente Jarod.
«Ho trovato qualcosa che…»
provò a spiegare senza staccare gli occhi sbarrati dal foglio.
«Venti secondi…la guardia è già
nel corridoio!» insistette Broots sempre più agitato.
«Dannazione Parker esci subito
di lì!!!» sbottò allarmato Jarod nell’auricolare.
Miss Parker rimise il foglio
dove lo aveva trovato, afferrò lo zainetto e raggiunse svelta il condotto di
aerazione.
«Dieci secondi…se continuo così
mi verrà un infarto!»
Facendo attenzione a non
lasciare segni sulla parete, la donna si arrampicò agilmente fino alla presa e
s’infilò nell’apertura, poi raccolse rapidamente la fune.
«Santo cielo…cinque secondi…»
continuò Broots stropicciandosi nervosamente le mani.
«Parker?!» esclamò preoccupato
Jarod, alzandosi di scatto intenzionato a raggiungerla.
«Tranquilli, sono già nel
condotto» sussurrò la donna, accingendosi a richiudere la presa
d’aria…purtroppo non aveva notato quella bava così appuntita quando aveva tolto
la grata per entrare.
L’aculeo trapassò la sottile
protezione del guanto e si conficcò nel palmo della sua mano destra proprio nel
medesimo istante in cui la guardia aprì la porta dell’ufficio. Miss Parker
soffocò un grido, ma non riuscì a controllare il sommesso gemito di dolore che
uscì dalla sua gola, né ad impedire che la sua mano ferita allentasse la
stretta sulla grata quel tanto necessario a farla inesorabilmente scivolare
verso il basso.
Tutto si svolse in una frazione
di secondo.
La guardia stava alzando il
fascio di luce della propria torcia verso la presa d’aria. Cercando invano di
riafferrarla, la donna già immaginava la scena che di lì a poco si sarebbe
svolta: il sorvegliante si sarebbe reso conto che la grata mancava, dopodiché
si sarebbe accorto di lei e avrebbe dato l’allarme e magari le avrebbe puntato
contro una pistola e lei sarebbe stata costretta ad usare la sua…e questo
sarebbe stato un gran bel guaio maledizione!!!
Ma quando credeva che fosse
ormai troppo tardi per evitare l’inevitabile, qualcosa le sfiorò
improvvisamente le spalle, una mano aveva già afferrato il lato destro della
grata prima ancora che lei tentasse di riacciuffarla e l’aiutò a rimetterla a
posto giusto in tempo, perché la luce della torcia raggiunse la presa d’aria
giusto un istante dopo.
Stupita e spaventata, Miss
Parker trattenne nuovamente un grido mentre si voltava di scatto. Ma poi
riconobbe i capelli biondi sempre arruffati e i grandi occhi azzurri, imperscrutabili
sul volto irregolare, dall’aria perennemente assente. Entrambi trattennero il
respiro per pochi ma interminabili secondi,
finché la guardia riabbassò la torcia e borbottando un: «Ancora quei
dannati topi!» uscì dall’ufficio per continuare il proprio giro.
«Che fortuna che ti trovassi a
passare di qua!» esclamò sottovoce la donna, tirando un sospiro di sollievo.
Era incredibile come quello
strano individuo riuscisse sempre ad essere nel posto giusto al momento giusto.
Lui si limitò ad alzare le
spalle, sorridendole con quel suo buffo ghigno, quindi si allontanò, muovendosi
svelto e silenzioso fino a sparire, inghiottito dal labirinto di cunicoli da
cui era venuto e che conosceva come le sue tasche.
«Miss Parker…sei ancora lì?»
chiese la voce titubante di Broots nell’auricolare.
«E’ tutto a posto?» gli fece
subito eco Jarod.
«Sì, non preoccupatevi. Va
tutto bene, grazie al nostro…Angelo custode!»
Rifugio di Jarod – Dover,
Delaware – ore 01:00 p.m.
Scorrendo con lo sguardo
l’ennesima videata sul monitor del suo portatile, Jarod si sentiva gli occhi
bruciare. Da ore stava fissando costantemente il video, scacciando il sonno a
colpi di caffè e caramelle PEZ, ma purtroppo la sua ricerca ancora non aveva
dato alcun esito. Era sfinito, dopo un’altra notte insonne, eppure non poteva
arrendersi, doveva assolutamente scoprire chi fosse quella persona…
Senza lasciare lo sgabello sul
quale sedeva ormai da troppo tempo, cercò un po’ di sollievo massaggiandosi il
collo e le tempie, mentre ripensava alla sua ultima conversazione con Miss
Parker.
«La vita di un uomo è in grave
pericolo!» gli aveva rivelato concitata la notte precedente, una volta
raggiunto il furgone, prima che lui potesse rimproverarla per la sua bravata.
«Cosa?»
«Si tratta di un certo agente
Frank Dawson»
«Chi diavolo è Frank Dawson?»
«Non ne ho idea. Un poliziotto
forse. So soltanto che il Centro lo
vuole morto e che l’omicidio avverrà nelle prossime ventiquattro ore»
Quell’incosciente aveva
rischiato di farsi scoprire per leggere le informazioni su di un memo trovato
per caso, che Lyle aveva indirizzato a Matumbo in persona. Però ne era valsa la
pena. Gli restava poco tempo, ma forse poteva ancora fare qualcosa.
Tuttavia, per poter
intervenire, doveva scoprire chi fosse la vittima predestinata. Così, lasciato
a Broots il compito di esaminare i files sottratti a Matumbo, aveva passato il
resto della notte e l’intera mattinata a forzare protezioni e a spulciare
archivi su archivi, incluse le banche dati della Polizia, dell’FBI e della DEA,
in cerca di un eventuale “agente Frank Dawson”. Niente da fare.
Da qualche minuto stava
esaminando i files dell’NSA…
«Eccoti finalmente!» esclamò
soddisfatto scorrendo velocemente la scheda che aveva appena trovato.
Non c’era un minuto da perdere:
doveva partire subito per Washington.
Ashland High School – Ashland, Wisconsin – ore 12:30 a.m.
Il trillo della campanella
segnò finalmente la fine della lezione, giusto un attimo prima che la noia lo
uccidesse!
Jay si affrettò ad infilare i
libri nello zaino e a sgattaiolare fuori dall’aula dell’arcigna professoressa
Potter.
La sua innata curiosità di
conoscere in tutte le sue forme quel mondo che gli era sempre stato negato e la
sua incredibile capacità di apprendimento lo portavano ad apprezzare
praticamente tutte le materie del suo programma di studi, ma la storia
antica…che strazio!
A dire la verità, forse non era
solo la sua avversione per il passato remoto a rendergli così insopportabile
l’ultima lezione della mattinata…Jay accennò un sorriso mentre si affrettava
verso l’uscita: sì, forse il vero motivo era un altro, magari la speranza che
Kimberly lo stesse aspettando al solito posto, per non parlare del fatto che
lui moriva dalla voglia di vederla!
Il loro non era un vero e
proprio appuntamento, ma da quando si erano incontrati la prima volta,
vale a dire da un paio di settimane, si trovavano casualmente a passare
entrambi per il parco alla fine delle lezioni del mattino e Jay non voleva
certo venir meno a quel loro tacito accordo.
Frequentava Kimberly da
pochissimo tempo, eppure aveva l’impressione di conoscerla da sempre. Anche se
non gli era possibile raccontarle tutta la verità su se stesso, con lei poteva
parlare come con nessun altro. Sapeva che era assurdo, eppure quella ragazza
sembrava riuscire a capire perfettamente ciò che sentiva, i suoi problemi con
la famiglia, il suo trovarsi sempre come un pesce fuor d’acqua accanto ai suoi
coetanei. Pareva comprendere il suo disagio e condivideva la sua stessa sete di
sapere più di quanto le venisse insegnato sugli argomenti più disparati,
dall’astronomia alla fisica quantistica. Kimberly era diversa, così
incredibilmente simile a lui…era talmente intelligente, sensibile e…in ritardo!
“Strano. Non è ancora arrivata
– si disse infatti Jay non vedendola seduta sulla solita panchina, prima di
cominciare guardarsi intorno perplesso. Poi il suo volto si illuminò, non
appena vide spuntare i suoi lunghi capelli biondi tra la miriade di studenti
che affollavano il parco – Ah, eccola!” esultò, facendole un cenno con la mano.
Ma il sorriso gli morì di colpo
sulle labbra quando si accorse di quei due uomini alle spalle della
ragazza…giacca e cravatta, occhiali scuri, aria infida. Riconobbe all’instante
quello afroamericano e il sangue parve congelarglisi nelle vene: era Willie,
l’uomo di fiducia del Dr. Raines ed era sicuramente lì per lui.
Lo sguardo agghiacciato, le
mani sudate, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo impazzito, un
lungo brivido che gli percorreva la schiena, facendolo tremare da capo a piedi,
al solo pensiero di essere di nuovo rinchiuso in quella prigione crudele e
spaventosa che era il Centro: Jay era pietrificato dalla paura.
Ma cosa aspettava ancora lì
impalato?! Doveva scappare, nascondersi, doveva…un momento…che stavano facendo
quei due?!
Gli spazzini sembravano non
aver notato la sua presenza, infatti si erano avvicinati a Kimberly e le
avevano afferrato un braccio. La ragazza, sorpresa e spaventata, tentò dapprima
di divincolarsi, poi iniziò di colpo a barcollare, guardandosi intorno con lo
sguardo inebetito. L’avevano senz’altro drogata, inducendola così a seguirli
mansueta, per salire sulla berlina scura parcheggiata lì a pochi metri, che poi
si allontanò senza fretta e senza dare nell’occhio.
Jay assistette impotente e disorientato
alla scena: che cosa poteva mai volere il Centro da Kimberly?
“Non ha importanza il perché
l’abbiano presa - si disse ad un tratto, scuotendosi deciso da quella sorta di
stato catatonico in cui era piombato - Non permetterò che le facciano del male”.
Sapeva fin troppo bene dove
l’avrebbero portata. Doveva agire in fretta e liberarla dalle grinfie di quegli
aguzzini prima che per lei fosse troppo tardi. A qualunque costo.
Casa affittata dal Maggiore
Charles – Ashland, Wisconsin – ore 01:30 p.m.
Ripetendo un rituale ormai
quotidiano, Emily chiuse la porta, posò le chiavi sul tavolino accanto
all’ingresso e si tolse il pesante cappotto.
«Jay sono a casa» disse ad alta
voce, avviandosi a lunghi passi verso la cucina per preparare il pranzo.
Come sempre aveva i minuti
contati, quindi si diresse decisa verso il frigorifero e poi si mise ai
fornelli, intenta a scaldare il solito cibo precotto, mentre già pianificava
mentalmente ciò che avrebbe fatto al lavoro nel pomeriggio.
Solo in seguito si rese conto
che la tavola non era apparecchiata, la TV non era accesa, il giubbotto e lo
zaino non erano appoggiati sulla solita sedia, insomma che suo fratello non era
ancora rincasato, quindi notò il biglietto con su scritto il suo nome accanto
al cesto della frutta e di colpo turbata, lo aprì.
Diceva soltanto: “Devo
andarmene per un po’. Non stare in pensiero e non cercarmi. Jay”.
Per una frazione di secondo
sentì di essere ferocemente arrabbiata con quel ragazzino sconsiderato e troppo
impulsivo, che sicuramente stava per fare qualcosa di estremamente stupido. Poi
la paura prese il sopravvento: e se lo avessero catturato loro..? No, in
quel caso non avrebbe certo lasciato un biglietto…forse lo avevano indotto ad
andarsene con l’inganno, attirato in una trappola…oddio non voleva nemmeno
pensarci!
E poi no, Jay era imprudente ma
non era affatto uno sciocco. Ma dove diavolo poteva essere andato allora?
E perché?!
Un’idea terribile si fece di
colpo strada nella sua mente: e se fosse partito a causa sua? Lei non era stata
capace capirlo, di stargli vicino, non aveva saputo dimostrargli quanto gli
volesse bene e lui aveva deciso di cercare altrove ciò che lei non era in grado
di dargli.
Avvilita e amareggiata, Emily
si accasciò sulla seggiola, incapace di staccare gli occhi da quelle poche
parole scritte di fretta…sì, era tutta colpa sua. Non solo era stata incapace
di essere una vera sorella per Jay, ma aveva tradito la fiducia di Jarod e di
suo padre, che contavano su di lei affinché si occupasse di lui.
Ma non erano soltanto delusione
e senso di colpa a darle il tormento. Emily era soprattutto angosciata,
terrorizzata per ciò che sarebbe potuto accadere a suo fratello. Jay era sempre
così avventato…e se si fosse fidato delle persone sbagliate..? O avesse
attirato su di sé l’attenzione del
Centro..? Oh no! Doveva cercarlo…trovarlo…ma come?!
A pensarci bene, c’era una sola
cosa che potesse fare.
Aeroporto di Dover, Delaware
– ore 03:00 p.m.
Jarod mise in tasca il
telefonino e si avviò verso il cancello d’imbarco del volo in partenza per
Washington. Aveva appena informato Miss Parker del buon esito delle sue
ricerche ma lei gli aveva rivelato che la squadra di Lyle era partita non molto
tempo prima, probabilmente col compito di eliminare Frank Dawson. Poteva solo
incrociare le dita e sperare di arrivare in tempo.
Lo squillo del cellulare
interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri.
«Sì»
«Jarod…è successa una cosa
terribile…»
Quella voce tremante gli disse
che la donna era quasi sul punto di scoppiare a piangere.
«Emily..?»
«E’ stata tutta colpa mia…»
sussurrò incapace di trattenere oltre i singhiozzi.
«Emily, ora calmati e dimmi
cosa è successo» le disse pacato, cercando di nascondere il brutto
presentimento che già stava facendosi strada nella sua mente.
Seguì un penoso silenzio, poi
un lungo sospiro.
«Jay se n’è andato»
Il Centro, Blue Cove – ore
03:05 p.m.
Senza prendersi la briga di
bussare, Miss Parker era appena entrata risoluta nell’ufficio di Broots,
facendo sobbalzare il tecnico sulla sedia, quando il suo cellulare suonò di
nuovo.
«Parker» rispose scocciata,
richiudendosi la porta alle spalle.
«Sono ancora io»
«Che ti prende?» chiese
impensierita dal tono cupo della voce di Jarod.
«Devi farmi un favore»
«Certo ma…»
«Mio fratello se n’è andato di
casa»
«Gem…volevo dire Jay?!»
«Sì, Emily è sconvolta…non so
cosa stia passando per la testa di quel ragazzo! Non ci voleva proprio in
questo momento dannazione!»
«Bè, è un adolescente. E non ha
certo avuto una vita facile finora – cercò di tranquillizzarlo, intuendo quanto
fosse in ansia per il fratello - Forse sta solo cercando un modo per sbollire
la sua rabbia»
«Già - Jarod sospirò. La sua
angoscia era quasi tangibile – Ad ogni modo, il mio volo sta per partire e come
sai non posso perderlo»
«Cosa vuoi che faccia?»
«Niente, per il momento. Ho
avvisato mio padre, penserà lui a cercare Jay. Ma ho paura che possa commettere
qualche sciocchezza e farsi notare dalle persone sbagliate…mi capisci?»
«Sì, non preoccuparti. Terrò
gli occhi aperti e Broots farà altrettanto»
«Grazie Allison…io… - avrebbe
voluto dirle altro ma in quel momento aveva troppe cose per la testa - Ora devo
proprio andare»
Miss Parker ripose impassibile
il telefonino nella tasca del suo elegante tailleur, nascondendo come sempre
alla perfezione i suoi veri sentimenti.
«Riguardo a cosa dovrei tenere
gli occhi aperti?» chiese il tecnico.
La donna lo mise brevemente al
corrente della situazione, poi gli domandò: «A che punto sei con quei files?»
«Ehm…non li ho ancora esaminati
tutti, ma finora non ho trovato niente circa la lista» disse lui titubante, ben
sapendo che il suo capo non avrebbe gradito la notizia.
«Maledizione!» imprecò infatti
lei prendendo a passeggiare nervosamente avanti e indietro, le braccia
incrociate al petto.
«Però…» azzardò incerto Broots
dopo un breve istante.
«Però?»
La donna lo fissò incuriosita,
alzando un sopracciglio.
«Ecco…qui ci sono tutte le
schede personali di coloro che lavorano o hanno lavorato per il Centro e…»
«E allora?! – sbottò acida Miss
Parker, cercando di resistere alla tentazione di inveire sul poveretto -
Andiamo Broots non metterti a parlare per enigmi! Cos’hai scoperto?!»
«Forse è meglio che guardi tu
stessa»
Miss Parker girò seccata
intorno al tavolo per portarsi alle spalle del tecnico, quindi rivolse lo
sguardo al video con aria di sufficienza, salvo poi sgranare di colpo gli occhi
sbalordita. Quasi le prese un colpo quando vide quella foto, archiviata accanto
ai dati che la riguardavano…
Sede centrale dell’NSA –
Washington D.C. – ore 08:30 p.m.
Jarod scese con aria disinvolta
dall’auto e, mentre attraversava il parcheggio sotterraneo diretto
all’ascensore, appuntò sulla giacca del suo impeccabile completo scuro il finto
tesserino, che lo identificava come l’agente Jarod Nash dell’NSA.
Reggendo in mano un fascicolo
contenente i documenti fittizi attestanti il suo preteso trasferimento
dall’unità operativa di Los Angeles a quella di Washington, Jarod premette il
pulsante e attese l’arrivo della cabina.
Chiuse gli occhi per un attimo
ed espirò profondamente, quasi volesse imporre a se stesso di liberarsi del suo
vero io e delle sue inquietudini per fare spazio ad una nuova identità. Non
doveva più pensare ai suoi problemi con Miss Parker o alla sua apprensione per
Jay, da quel momento in poi non poteva più permettersi di indugiare sulle sue
preoccupazioni personali. Doveva concentrarsi soltanto sulla sua simulazione,
se non voleva rischiare di fallire o di farsi scoprire.
Tornò con la mente alle
informazioni che aveva trovato negli archivi dell’NSA: l’agente Frank Dawson
aveva uno stato di servizio impeccabile, si era costruito una brillante
carriera, costellata di successi nella lotta alla corruzione e al crimine
organizzato ed era ormai alle soglie della pensione. Nessun collegamento apparente
coi Parker o con le società fantasma gestite dall’organizzazione di Blue Cove,
nei casi che aveva seguito e risolto: perché mai il Centro doveva volerlo
morto? Per quale motivo lo considerava una minaccia?
Ripensò ancora al memo di Lyle
scritto alle nove di sera di due giorni prima: “L’agente Frank Dawson continua
ad essere un problema, che a mio parere potrebbe trasformarsi in pericolosa
minaccia per il Centro. Suggerisco di eliminarlo prima che lo diventi, vale a
dire entro le prossime quarantotto ore” diceva il rapporto rinvenuto da Miss
Parker e quelle quarantotto ore sarebbero scadute tra poco meno di trenta
minuti.
Un flebile dlin
interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri, indicando che l’ascensore
aveva finalmente raggiunto il seminterrato. Le porte scorrevoli si aprirono e
Jarod riconobbe all’istante l’uomo distinto sulla sessantina che reggeva una
ventiquattrore scura nella mano destra e che incrociò per un attimo lo sguardo
con il suo: Frank Dawson in persona.
Stava giusto valutando quale
fosse l’approccio migliore per stabilire subito un contatto con lui, evitando
però di insospettirlo o metterlo sulla difensiva, quando ad un tratto vide il
led di un mirino ad infrarossi posarsi sulla fronte dell’uomo.
Senza esitare il simulatore si
avventò su di lui buttandolo a terra un istante prima che prima che tre colpi
sparati col silenziatore, sibilassero minacciosamente sulla sua testa, andando
poi a conficcarsi nella parete di fondo dell’ascensore.
Scambiatisi un’occhiata
d’intesa, entrambi gli uomini estrassero la pistola, uscirono carponi dalla
cabina, dove erano facili bersagli e si ripararono dietro l’auto più vicina,
per poi scrutare guardinghi verso l’angolo più buio del parcheggio, da cui i
colpi sembravano essere partiti.
Una manciata di secondi dopo
infatti, proprio da lì un’auto partì all’improvviso, sgommando rumorosamente e
qualcuno dall’interno dell’abitacolo sparò loro addosso di nuovo diversi colpi,
crivellando la carrozza ed i finestrini della Mercedes grigia che i due continuavano
ad usare a mo’ di scudo, nella speranza che qualche pallottola vagante non
colpisse il serbatoio facendoli saltare in aria con l’intero veicolo.
Mentre si buttava a terra,
rispondendo al fuoco, Jarod riconobbe qualcuno tra gli occupanti della berlina
scura. Anche se lo aveva intravisto per un attimo soltanto, non poteva certo
aver confuso con un’altra persona quell’albino dal ghigno crudele e dallo
sguardo spietato: il Centro aveva mandato Mr. White ad occuparsi della faccenda
e questo poteva significare solo guai.
Scampato il pericolo, entrambi
gli uomini si alzarono, scrollandosi di dosso i frammenti di vetro, e si
rivolsero finalmente la parola, mentre numerosi agenti della sicurezza stavano
accorrendo sul posto per verificare l’accaduto, facendosi domande a raffica
l’un l’altro: «Che è successo?» «Quanti erano?» «A chi hanno sparato?» «Come
sono entrati?».
«Non so ancora chi lei sia, ma
grazie tante» esordì Frank recuperando la sua valigetta, per poi condurre Jarod
lontano da quella confusione. La sua voce era cordiale, ma il suo sguardo
tradiva una certa inquietudine.
«Jarod Nash – si presentò
allora l’altro, porgendogli la mano - Sono appena stato trasferito da Los
Angeles»
«Frank Dawson – rispose questi
facendo altrettanto – Spero che l’accoglienza non l’abbia spaventata»
«Non più del dovuto…anche
perché quella gente sembrava avercela a morte con lei, non con me» commentò in
tono allusivo il simulatore, senza ottenere tuttavia apparenti risultati.
«Probabilmente qualcuno che ho sbattuto
dentro deve essersene avuto a male, ma non credo che ci riproverà – cercò di
sdrammatizzare Frank con un sorriso tirato – Dimentichiamo questa faccenda per
il momento, tanto ci stanno già pensando i ragazzi! – aggiunse indicando la
squadra della scientifica appena giunta sul posto - Venga, le mostro il suo
ufficio» esordì poi tranquillo, facendogli cenno di seguirlo in ascensore.
Jarod gli andò dietro,
fissandolo con aria scettica. Quell’uomo sapeva chi aveva tentato di ucciderlo,
eppure, a rischio la sua incolumità, stava tenendo per sé la notizia e
infrangendo la Legge…ma perché? Bè, in quel momento ancora non lo capiva, ma di
una cosa era certo: Frank Dawson nascondeva un segreto, qualcosa per cui valeva
la pena di mettere a repentaglio non solo la carriera, ma la sua stessa vita e
lui doveva scoprire in fretta di cosa si trattasse. Forse Mr. White non lo
aveva riconosciuto nel corso di quella concitata sparatoria, ma forse sì e in
quel caso si sarebbe presto ritrovato una squadra di spazzini alle calcagna.
Il Centro, Blue Cove -
Ufficio di Broots – ore 09:30 p.m.
Miss Parker continuava a
fissare allibita il volto della donna sul monitor: gli occhi celesti, i lunghi
capelli rossi raccolti in un classico chignon, il volto aggraziato ed un
sorriso che esprimeva tutta la sua dolcezza.
«La madre di Jarod lavorava per
il Centro» mormorò ancora incredula, quasi volesse convincersi che quella fosse
proprio la verità.
«Più precisamente per tua
madre, Miss Parker – aggiunse Broots, anch’egli sorpreso – Era la sua
assistente personale»
«Qui dice che rimase a Blue
Cove per quattro anni – seguitò la donna scorrendo velocemente i dati sul video
– Poi se ne andò di punto in bianco senza dare motivazioni e sparì nel nulla
insieme al marito…ma perché?»
«Per sfuggire a qualcuno…o
qualcosa?» ipotizzò il tecnico.
«Per sfuggire al Centro?»
«Già. Il Centro infatti la
cercò e a lungo anche, con ben due squadre – continuò Broots - Una lo fece ufficialmente per conto di
Catherine Parker, l’altra agì nell’ombra per ordine di Raines, con
l’approvazione del Triumvirato»
«Purtroppo però l’ansimante
sacco di ossa la trovò per primo, cinque anni dopo la sua fuga»
«Lo stesso periodo in cui Jarod
venne portato al Centro»
«E poco dopo la stessa sorte
toccò a Kyle - aggiunse Miss Parker con aria meditabonda, per poi esordire
scettica – Possibile che Margaret non abbia collegato le cose?»
«Che vuoi dire?»
«Stento a credere che lei non
ci abbia mai pensato» replicò l’altra, con aria assorta, ignorando la domanda.
«Pensato cosa?!»
«Che dietro al rapimento dei
suoi figli ci fosse il Centro – chiarì finalmente Miss Parker – Forse mi
sbaglio, ma secondo me Margaret ha sempre saputo dove si trovavano Jarod e
Kyle, fin dall’inizio»
«Ma è assurdo! – la
contraddisse subito Broots – Se così fosse perché non lo disse alla polizia
quando ne denunciò il rapimento?»
«Evidentemente perché non
poteva – asserì la donna sempre più convinta – Per lo stesso motivo per cui
dovette mentire a suo marito e nascondergli il proprio legame col Centro»
«Credi che il maggiore Charles
non ne sapesse nulla?»
«Se avesse saputo che Margaret
lavorava per il Centro, se all’epoca avesse saputo cosa fosse il Centro,
avrebbe fatto due più due, esattamente come me»
Il tecnico la osservò a lungo
sconcertato, prima che un’idea gli attraversasse all’improvviso la mente.
«Se fosse davvero come dici –
esordì infatti - Perché Margaret avrebbe assunto un investigatore privato,
quello specializzato nel ritrovare bambini scomparsi, quel Sonny Hebert?»
«Perché qualsiasi madre
preoccupata e in ansia per la sorte dei propri figli lo avrebbe fatto – spiegò
Miss Parker – Quello fu solo un diversivo, una parte ben recitata per non
insospettire il Maggiore…e forse anche il Centro»
«Ah tutta questa storia non ha
senso!» commentò Broots scuotendo il capo.
«Oh sì che ce l’ha – affermò
decisa Miss Parker fissando l’uomo dritto negli occhi – Margaret aveva scoperto
qualcosa…qualcosa che non poté confidare nemmeno a mia madre e che la spinse a
fuggire, a nascondersi per proteggere le persone che amava…qualcosa che finì
col mettere in pericolo la sua intera famiglia»
In un misterioso luogo
lugubre e buio
Mentre avanzava cauto verso il
punto stabilito, illuminando il suo cammino con la torcia elettrica, Lyle aveva
ancora nelle orecchie la collerica sfuriata di Mr. Parker, che inveiva contro
di lui reggendo in mano il rapporto ricevuto da Mr. White: decisamente non
aveva preso bene il fatto di essere stato scavalcato, che il suo stesso figlio
avesse tramato contro di lui, gestendo la questione Frank Dawson direttamente
con Matumbo senza nemmeno interpellarlo. Fortunatamente era riuscito ad
inventarsi una scusa per rabbonirlo (…Ma come, non hai ricevuto il mio
memo?! Quella tonta della mia segretaria ne ha combinata un’altra delle sue!),
almeno per il momento.
Non poteva fare a meno di
pensare che se suo padre avesse anche solo sospettato ciò che realmente stava
facendo alle sue spalle, per lui sarebbe stata la fine, ma poco male. Il gioco
valeva senz’altro la candela. Era stanco di aspettare nell’ormai vana speranza
che il suo illustre quanto incurante genitore riconoscesse finalmente il suo
valore, che gli riservasse il ruolo di comando a cui da tempo ambiva. Ma no
invece. Per Mr. Parker Lyle non era che un sicario, prezioso solo per la sua
totale mancanza di scrupoli, perché poteva affidargli i compiti più spregevoli,
il lavoro sporco e poteva star certo che lui non si sarebbe mai tirato
indietro. Lui non aveva cuore, non aveva anima, mentre la sua adorata
sorellina…bé era tutt’altra cosa. Per suo padre lei era diversa, era il suo
angelo, qualcosa di puro e prezioso da preservare e tenere all’oscuro
delle proprie ignobili macchinazioni per il controllo del Centro. Era la figlia
di Catherine e sua legittima erede…dio quanto la detestava! La vita era stata
così ingiusta: a lei aveva dato tutto ciò che a Lyle era stato negato, una
famiglia ricca, una vita agiata, uno status privilegiato al Centro…una madre
che le aveva insegnato ad amare e che l’aveva amata.
“Non che m’importi di certe
sciocchezze!” si disse rinnegando bruscamente quell’insolito cedimento
emozionale, addirittura sorpreso di aver concepito un simile pensiero. Eppure
non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che se fosse toccato a Miss Parker
essere rapita alla nascita, creduta morta ed essere allevata dai Bowman,
probabilmente sarebbe stata lei a diventare un essere abbietto e senza
scrupoli. L’invidia e il rancore lo stavano lentamente consumando, ma purtroppo
non gli era concesso di tornare indietro e mutare il passato, poteva soltanto
cambiare il proprio futuro.
Il destino, anzi suo padre e
sua sorella, lo avevano privato di tutto, ma grazie all’aiuto di un complice
inaspettato, proprio di colui che il suo avido genitore stava cercando per
carpirne il segreto, Lyle si sarebbe ripreso con gli interessi ciò che gli
spettava di diritto. E i responsabili della sua sfortuna avrebbero pagato...oh
sì che avrebbero pagato. Dopodiché si sarebbe liberato anche del suo scomodo alleato,
di cui per inciso non si fidava affatto, e da solo avrebbe controllato il
Centro…sì, sarebbe andata proprio così, ma per il momento doveva essere
paziente e seguitare a lavorare per lui.
Ecco, era arrivato. Il luogo
era tetro, illuminato soltanto dalla
luce flebile della sua torcia e come al solito emanava un forte odore di
polvere e di stantio. Sembrava non ci fosse anima viva, ma sapeva bene che così
non era.
«Hai fallito - esordì infatti
la voce rauca ed irritata di un uomo nascosto dall’oscurità – Era un’ottima
occasione per metterti nella giusta luce col Triumvirato e tu l’hai sprecata!»
«Non per colpa mia - replicò
subito indispettito Lyle in propria difesa - White non è stato all’altezza e
per giunta ha persino fatto rapporto a mio padre!»
L’altro sogghignò
sommessamente.
«Immagino non abbia gradito
scoprire che il suo stesso figlio sta cercando di fargli le scarpe!»
«Già»
«Ad ogni modo White non poteva
sapere che ci fosse qualcuno a proteggere il bersaglio – sentenziò poi
aspramente il misterioso individuo – Spettava a te tenere segreta questa
operazione»
«Non so come sia trapelata la
notizia. Avevo preso tutte le precauzioni possibili – ribatté indignato
l’altro. Ma perché gli errori dei suoi subalterni incapaci dovevano sempre
ricadere su di lui?! - Oltre a noi soltanto Matumbo ne era al corrente, come
avevamo stabilito»
«A quanto pare Jarod è riuscito
ad eludere le tue precauzioni»
«Già, sempre lui. Ma lascia che
gli metta le mani addosso e..!» sibilò minaccioso Lyle.
«No. Non è ancora arrivato il
momento»
«Ma dobbiamo fermarlo! Lui e
soprattutto Frank Dawson. Si sta avvicinando troppo»
«Sì, questo è vero – convenne
l’altro – Ma ora sarà il Centro ad occuparsi Jarod e dell’agente Dawson, dal
momento che Mr. White ha già fatto rapporto a chi di dovere»
«Potrei pensarci io»
«No»
«Ma perché?! Sono sicuro che
potrei catturare Jarod e…»
«Io non lo sarei se fossi in te
- lo interruppe l’uomo misterioso con palese sarcasmo - E comunque dobbiamo
prima scoprire chi passa le informazioni all’agente Dawson»
«Io ho già qualche sospetto.
Non mi stupirei se la talpa fosse
proprio la mia cara sorellina, ci sono ancora punti a dir poco oscuri riguardo
la sua ultima missione a Parigi ed i suoi rapporti con Jarod»
«Miss Parker potrà forse essere
in combutta con Jarod, ma non può essere l’informatore – lo contraddisse
perentorio l’altro - Frank Dawson ci sta alle costole da quasi tre anni…no, io
concentrerei su qualcun altro i tuoi sospetti»
«Di chi parli?»
«Ancora non ne sono sicuro, ma
so di una certa mailbox che potrebbe aiutarci a scoprirlo. E chissà, magari
anche a catturare due…anzi tre piccioni con una fava»
Rifugio di Jarod - Pimmit
Hills, nei pressi di Washington – ore 00:00 a.m.
Nascosto da un paio di tendine
stinte, Jarod scrutava pensieroso la strada deserta dalla finestra di uno scialbo
monolocale ammobiliato. I fari di un auto che rallentava, un passante che
alzava distratto lo sguardo verso il terzo piano, tutto poteva celare un
pericolo. Tuttavia, almeno per il momento, gli spazzini sembravano aver perso
le sue tracce e quelle del suo ospite. Il simulatore volse lo sguardo
verso l’uomo disteso sull’unico letto, che ancora dormiva sotto l’effetto del
cloroformio.
La telefonata di Miss Parker
era giunta appena in tempo, circa un’ora prima: Matumbo aveva incaricato White
di catturarlo, usando l’agente Dawson come esca. Jarod si era dunque
precipitato all’indirizzo di Falls Church che aveva trovato nel dossier
dell’NSA, una piccola, elegante villetta nella quale Frank era appena
rincasato. Purtroppo non era stato possibile dargli spiegazioni, aveva dovuto
sorprenderlo alle spalle, narcotizzarlo e portarlo via passando dalla porta sul
retro e poi attraverso il giardino, giusto nel momento in cui la squadra del
Centro aveva fatto irruzione dall’ingresso principale. Ne era seguita una fuga
frenetica per la periferia di Washington, a colpi di sgommate e repentine
inversioni di marcia in mezzo al traffico, con i sicari sempre alle calcagna,
finché Jarod non si era infilato in un parcheggio a sei piani. Lì aveva
abbandonato la propria auto, proseguendo poi la corsa con un’altra presa in
prestito ed era riuscito così a seminare gli inseguitori, dopodiché si era diretto al suo rifugio.
L’effetto del narcotico sarebbe
finito di lì a poco…
«Mhmm…»
…anzi, stava già finendo,
realizzò Jarod quando Frank emise un gemito soffocato, muovendo la testa sul
cuscino.
In attesa che si svegliasse, il
simulatore rivolse la propria attenzione alla valigetta del suo ospite, che
aveva deposto su di un tavolino impolverato ai piedi del letto, resistendo fino
a quel momento alla tentazione di provare ad aprirla. Portarla con sé gli aveva
complicato non poco le cose durante la fuga, però non se l’era sentita di
lasciarla nelle mani del Centro. Per Frank doveva essere estremamente
importante, visto che non se n’era separato nemmeno quando gli avevano sparato
addosso e forse tra non molto lui stesso gli avrebbe spiegato il perché.
«Jarod…che ci facciamo qui? -
mugugnò l’uomo ancora intontito dopo aver aperto a fatica gli occhi e messo a
fuoco ciò che gli stava attorno – Un momento…sei stato tu a… - esordì poi
indignato, iniziando a ricordare cosa gli fosse successo, un misto di paura e
rabbia dipinto sul volto – Mi hai mentito! Tu non vieni dall’ufficio di Los
Angeles e non sei nemmeno un agente!» inveì cercando di alzarsi, ma la testa
gli girava come una trottola, tanto che sarebbe senz’altro rovinato a terra, se
Jarod non l’avesse prontamente afferrato ed aiutato a sedersi.
«E’ vero, ti ho mentito –
ammise con un sorrisetto sornione – Ma d’altro canto anche tu lo hai fatto, o
sbaglio?»
«Che stai dicendo?!»
«Sai benissimo che quelli che
ti hanno sparato non erano gente che hai sbattuto dentro, non è così?»
Frank lo squadrò un istante con
diffidenza, quindi si decise a chiedere: «Ma tu chi diavolo sei?!»
«Qualcuno che ti ha salvato la
pelle già due volte e che vorrebbe tanto sapere perché un’organizzazione
chiamata Centro ti vuole morto»
«E tu che ne sai del Centro?!»
domandò stupito l’altro, sempre sulla difensiva.
«Molto più di quanto vorrei,
credimi» replicò Jarod con amaro sarcasmo.
Improvvisamente qualcosa nella
sua voce, nel suo sguardo gli disse che poteva fidarsi di lui.
«Allora saprai anche che è
gente pericolosa e che salvandomi la vita ti sei messo nei guai»
«Bè vecchio mio, temo che i
miei guai col Centro siano iniziati molto prima dei tuoi» lo tranquillizzò
Jarod, porgendogli una tazza di caffè fumante.
«Non credo, figliuolo! –
replicò l’altro visibilmente più a proprio agio, sorseggiando la bevanda – Sono
più di trent’anni che sto appresso a quei criminali – a quel punto fu Jarod a
fissare sbalordito il suo interlocutore – Già,
però soltanto di recente sono riuscito ad arrivare a loro»
«L’NSA sta svolgendo indagini
sul Centro da trent’anni…ma com’è possibile?! – esordì l’altro incredulo - Io
non ho mai trovato traccia di inchieste del genere da parte di nessun ente
governativo e ti assicuro che…»
«Certo – lo interruppe pacato
Frank – Perché non si tratta di un’indagine ufficiale. Questa per me è una
faccenda personale»
«Vuoi dire che lo stai facendo
da solo?!»
«Non proprio. Qualcuno mi sta
aiutando»
«Di chi si tratta?»
«Non ne ho la più pallida idea»
confessò candidamente l’agente.
«Andiamo Frank!» esclamò
irritato Jarod, pensando che lui gli stesse di nuovo mentendo.
«E’ la verità, te l’assicuro.
Questa persona mi contattò per la prima volta circa tre anni fa, via posta
elettronica e da allora ci teniamo in contatto utilizzando una mailbox segreta
– spiegò Frank - L’unica cosa che posso dirti è che si firma “M” e che sa
diverse cose sul Centro, perché grazie alle informazioni che mi ha passato ho
saputo dei rapimenti, degli esperimenti, e dei metodi che quella gente usa per
mettere a tacere chi potrebbe comprometterla. Qui dentro c’è tutto quel che ho
trovato finora» aggiunse aprendo al sua misteriosa valigetta per mostrarne il
contenuto: diversi fascicoli, floppy disk e un computer portatile.
Jarod dette una scorsa veloce
al materiale raccolto da Dawson: non solo conosceva nomi e dati personali delle
persone coinvolte, dal Triumvirato ai Parker, al defunto Dr. Raines, da Lyle,
Cox e White fino all’ultimo tecnico di laboratorio, ma aveva documentato anche
gran parte delle attività criminose dell’organizzazione di Blue Cove, con tanto
di date e luoghi precisi. Dalla Nugenesis alla morte di Catherine Parker, dagli
esperimenti illegali che fruttavano la tecnologia da vendere a caro prezzo alle
grandi multinazionali, fino a Donoterase…
«Ora capisco perché il Centro
ha tanta paura di te – osservò poi - Con tutte queste informazioni avresti
potuto far aprire un’inchiesta ufficiale già da molto tempo. Perché non l’hai
fatto?»
«Perché sarebbe stato inutile –
ammise disilluso Frank - “M” dice che quella gente ha agganci politici molto in
alto. Il caso verrebbe di sicuro insabbiato»
«Purtroppo temo che sia vero,
almeno per il momento – convenne l’altro pensando istintivamente alla lista -
Ma se sai di non poterli denunciare, perché continui ad indagare e a rischiare
la tua vita?»
«Per me è una faccenda
personale, te l’ho detto»
Frank si alzò lentamente dal
letto, voltò le spalle al suo interlocutore e si trascinò stancamente fino alla
finestra, le mani affondate nelle tasche, lasciando vagare lo sguardo
nell’oscurità della notte, senza aggiungere altro.
«Una faccenda che dura da
trent’anni» commentò il simulatore, raggiungendolo dopo qualche minuto e
aspettando pazientemente che l’uomo si decidesse a raccontagli il resto.
«Già…da quando mio figlio sparì
nel nulla»
Frank pronunciò con enorme fatica
quelle poche parole, volgendosi di nuovo verso Jarod, negli occhi uno sguardo
stremato, il suo volto di colpo stanco ed invecchiato…il volto di chi ha
sofferto tanto, troppo e ancora non ha trovato pace.
Jarod già conosceva la
risposta, ma chiese comunque: «Tuo figlio venne rapito dal Centro?»
«E’ quanto sostiene “M” –
confermò Frank - Aveva solo cinque anni quando ce lo portarono via. Mia moglie
non superò mai il trauma, nemmeno io a dire la verità, ma per lei fu molto
peggio. Si lasciò morire lentamente ma inesorabilmente…e così rimasi solo»
«Mi dispiace Frank…credimi, so
cosa significa»
«Quello che sto facendo è
rischioso, ne sono consapevole – continuò imperterrito l’altro - Ma ritrovare mio figlio è stata la sola
molla che mi ha spinto ad andare avanti in tutti questi anni, è la mia unica
ragione per vivere ormai»
«Ti capisco – disse Jarod,
esitando prima di formulare la domanda successiva – Hai trovato notizie?»
«No, non ancora. Non so nemmeno
che faccia abbia adesso. Non so neppure se sia ancora vivo, anche se lo spero
con tutto me stesso – confessò sconfortato - Di lui mi è rimasta soltanto
questa» aggiunse prendendo una vecchia foto dal portafoglio per mostrarla
all’altro.
Posando gli occhi su quella
stampa consunta, Jarod trattenne a
stento un’esclamazione d’incredulità e cercò di dissimulare in qualche modo il
proprio stupore…non era possibile!
«Era proprio un bel bambino,
vero? – disse ancora Frank, la voce carica di struggente malinconia - Si
chiamava Timmy»
Casa di Miss Parker – Blue Cove – ore 02:00 a.m.
La stanza era immersa nella
penombra, rischiarata appena da un flebile fascio di luce che filtrava
attraverso le persiane accostate. L’unico rumore percettibile era il respiro
leggero e regolare della donna, profondamente addormentata tra le delicate
lenzuola di seta.
La mente, assopita in un sonno
profondo, aveva lasciato ampio spazio all’inconscio di vagare libero in un
dedalo di memorie senza spazio né tempo, cullandosi nell’ovattato oblio dei
sogni.
D’un tratto eccola di nuovo là,
in quella stanza vuota, dalle pareti spoglie di un bianco cangiante, a fissare
come tante altre volte il dipinto lì appeso. Si trattava di un’opera astratta e
rappresentava tre figure umane, incolori, le cui forme stilizzate erano
delineate da un gioco di luci ed ombre. I tre soggetti si stagliavano contro
uno sfondo piatto e monocromatico rosso vermiglio ed incombevano minacciosi su
quello che probabilmente era un paesaggio…o meglio ciò che ne rimaneva, vale a
dire un cumulo di rovine. La figura centrale, la più alta delle tre, reggeva
tra le mani un bizzarro oggetto, grossomodo a forma di rombo, anche se assai
irregolare. Sembrava quasi un pesce stilizzato…anzi no, piuttosto uno strano
utensile…forse una chiave?
A quel punto Miss Parker, come
sempre le accadeva in quel sogno, spostò lo sguardo verso l’angolo in basso a
destra del dipinto per leggere il nome dell’autore – Doom - e ancora una volta
la tela prese ad allargarsi a dismisura davanti ai suoi occhi, finché lei
stessa non si ritrovò improvvisamente imprigionata all’interno del disegno,
circondata dalle rovine di quel paesaggio desolato e dal silenzio, sotto una
luce accecante. Ma fu solo per un attimo, poi tutto divenne buio e la donna udì
di nuovo quel grido, la disperata richiesta d’aiuto di un ragazzino …una voce
del suo passato che conosceva bene: quella di Jarod.
Miss Parker lo chiamò allora a
sua volta: «Jarod? Jarod dimmi dove sei!»
«Miss Parker svegliati!» gridò
ancora la voce.
Seguendola, la donna percorse,
come aveva fatto altre volte, un corridoio buio dalle pareti scure, che
parevano muoversi e volerle piombare addosso per afferrarla. Poi, oramai
infondo al tunnel, intravide una debole luce: le grida provenivano da lì,
insieme al battito dapprima smorzato ma via via sempre più forte di un orologio
a pendolo… doveva fare in fretta, il tempo stava per scadere…
«Miss Parker ti prego apri gli
occhi!» urlò ancora quella voce di adolescente.
La donna si precipitò
allora incontro alla luce, verso
l’uscita, finché si trovò in una stanza vuota e asettica, dalle pareti
metalliche, illuminata da una luce al neon che pareva provenire da ogni
direzione: non aveva dubbi, si trovava da qualche parte al Centro. La testa le
doleva terribilmente, causa il ticchettio divenuto quasi assordante, che
tuttavia non riusciva a coprire le grida del giovane Jarod, legato mani e piedi
ad un tavolo d’acciaio con robusti anelli metallici.
«Miss Parker mi senti?!»
Lei fece per muoversi verso il
ragazzo, quando il pavimento sussultò di colpo sotto ai suoi piedi, la porta da
cui era entrata improvvisamente sparì, inghiottita dalle pareti, che presero
lentamente ad avvicinarsi mentre il soffitto si abbassava sempre più…una
terribile sensazione di soffocamento l’attanagliò. Sia lei che il giovane Jarod
erano intrappolati in una sorta di congegno infernale, che li avrebbe
schiacciati fino a ridurli entrambi in poltiglia. Miss Parker avanzò verso il
giovane per cercare di liberarlo, ma non appena lo sfiorò questi svanì e lei si
ritrovò inspiegabilmente legata al posto suo, bloccata in quel micidiale
meccanismo.
La donna prese a dibattersi,
gridando in preda al panico, mentre le pareti ed il soffitto erano a pochi
centimetri appena di distanza dal proprio volto. Respirare era sempre più difficile…impossibile…credeva
ormai di essere spacciata, quando Jarod, il suo Jarod, si materializzò
accanto a lei, la liberò dagli anelli metallici e la trascinò fuori di peso da
quella trappola mortale.
«Non dovevi venire qui – disse
lei guardandolo con aria smarrita – Hai rischiato troppo e io non merito tanto»
Di colpo la scena cambiò.
Entrambi si ritrovarono in un ambiente tetro e polveroso, dal soffitto assai
basso, retto da una serie di archetti a volta infestati da fittissime
ragnatele, una sorta di cripta, rischiarata soltanto dalla luce soffusa di
alcune candele.
«Dove siamo?» chiese Miss
Parker.
«Non lo so, ma non mi stupirei
se qualche fantasma si aggirasse da queste parti» scherzò Jarod.
«I fantasmi non usano candele»
replicò lei accennando un sorriso, che purtroppo le morì subito sulle labbra,
perché il frastuono di uno sparo echeggiò di punto in bianco nella stanza nella
stanza e Jarod si accasciò esanime sul pavimento davanti agli occhi sbarrati
della donna, che si chinò sconvolta a soccorrerlo.
Un misterioso uomo vestito di
nero, del quale non riusciva a vedere il volto, uscì dalla penombra, reggendo
ancora la pistola in mano.
«Oramai é troppo tardi, non
puoi più salvarlo – le disse - Jarod é morto per colpa tua e ora anche tu devi
morire» aggiunse avanzando minaccioso verso di lei e sogghignando…una risata
bieca e stridula.
«Nooo!» gridò disperata Miss
Parker, stringendo a sé il corpo esanime di Jarod, mentre l’ombra sinistra si
avvicinava fino a sovrastarla.
«No…no…» continuava a ripetere
in un tormentoso dormiveglia, scuotendo il capo sul cuscino.
«Allison…svegliati Allison» le disse a quel punto una voce, quella voce dolce e
rassicurante che non aveva più sentito dagli anni della sua infanzia.
«Mamma… - mormorò confusa nel
sonno - aiutami ti prego…»
«Svegliati» ripeté gentilmente
la voce.
Ma non era più quella di sua
madre…un momento…qualcosa la stava toccando, cioè qualcuno la stava scuotendo,
cingendole le spalle. Non stava più sognando, c’era davvero qualcuno nella
sua stanza!
Miss Parker si destò
all’istante e fece per impugnare la sua Smith & Wesson, che dormiva sempre
con lei sotto il cuscino, ma poi riconobbe la persona che le sedeva accanto sul
letto.
«Ethan!» esclamò piacevolmente
stupita, sedendosi a sua volta.
Lui le sorrise. Non era più il
ragazzo disperato e impaurito dagli occhi spiritati, cerchiati da profonde
occhiaie, con lo sguardo allucinato che aveva conosciuto a Washington, su di un
treno che stava per esplodere. I tratti del suo volto erano distesi, la sua
espressione seria ma serena, il suo sorriso appena accennato, ma colmo
d’affetto.
«Sono felice di vederti –
continuò lei abbracciandolo con calore – Ti trovo bene»
«Ora mi sento bene – confermò
pacato lui, ricambiando l’abbraccio della sorella – E anch’io sono contento di
vederti»
«Ma non dovresti essere qui –
aggiunse severa lei mentre si alzava per indossare la vestaglia– Il Centro ti
rivuole indietro e Lyle non avrà pace finché non ti avrà catturato. Blue Cove è
un posto troppo pericoloso per te»
«Lo so, ma dovevo venire –
replicò tranquillo Ethan - Tu hai bisogno di me»
La donna lo fissò turbata, di
colpo senza parole…a cosa si riferiva? Possibile che sapesse..?
«Ti va una tazza di the?» si
limitò però chiedergli, facendogli cenno di seguirla al piano di sotto e conducendolo
fino alla cucina.
Qualche tempo dopo, quando
erano entrambi seduti sul divano e reggevano tra le mani una tazza fumante,
Miss Parker, seppur visibilmente a disagio, si decise finalmente a parlare.
«C’è un sogno, un incubo che mi
tormenta da diversi giorni ormai…ma forse tu già lo sai»
Ethan annuì. «E tu sei convinta
che sia una premonizione del tuo senso interiore riguardo a Jarod»
«Perché, non è forse così?»
«Non posso dirti né sì né no
con certezza, ma so per esperienza che non è affatto semplice interpretare
questo genere di messaggi»
«Che vuoi dire?»
«Che non è sempre facile
riuscire a distinguere una vera premonizione dalle…chiamiamole raffigurazioni
di ciò che speri o temi possa accadere – Miss Parker fissava perplessa il fratello
– Insomma, non dimenticare che i sogni sono pur sempre il riflesso dei tuoi
desideri e delle tue paure»
«Cioè secondo te io sarei una
paranoica e il mio senso interiore non mi starebbe inviando nessun messaggio»
esordì seccata la donna.
«Non ho detto questo – si
affrettò a chiarire l’altro con fare conciliante - Il tuo incubo ha sicuramente
un significato. Solo…forse non è quello che credi tu»
«Che altro potrebbe significare
se non che Jarod verrà ucciso per colpa mia?!»
Ethan sospirò rassegnato. «Suppongo
sia per questo che l’hai allontanato da te»
«Per questo…e per altri motivi»
confessò Miss Parker evitando lo sguardo del fratello.
«Lui sta soffrendo molto a
causa della tua decisione»
«Lo so, ma non avevo altra
scelta. Era l’unico modo per proteggerlo – asserì lei costernata – Jarod deve
stare lontano dal centro, quindi anche da me»
«Però stargli lontana ti fa
star male. Sei davvero sicura di voler rinunciare a lui per dare ascolto al tuo
senso interiore?»
«Dopo tutto quello che ha
dovuto passare a causa mia è il minimo che possa fare, se significa salvargli
la vita»
«Non dovresti dare tanta
importanza al passato, quello che è stato è stato e non importa più ormai. Ora
conta soltanto ciò che tu e Jarod provate l’uno per l’altra…e poi non dovresti
sentirti in colpa nei suoi confronti, tu non hai mai voluto fargli del male e
non hai nemmeno mai voluto che tornasse al Centro»
A quelle parole Miss Parker
fissò il fratello sbalordita e un tantino spaventata. Quel ragazzo riusciva a
leggerle dentro, come se lei fosse un libro aperto e la cosa la metteva a dir
poco in difficoltà.
«A quanto pare sai più cose su
di me di quanto io stessa non sappia»
«Scusami, non volevo turbarti –
disse imbarazzato Ethan - Il fatto è che io posso…sentirti, riesco a
capire ciò che provi, ciò che pensi a livello inconscio anche meglio di te. E’
un dono, lo stesso che hai tu, anche se ancora non riesci ad usarlo bene. Lo
stesso che aveva anche lei»
«Vuoi dire mia…nostra madre?-
chiese lei e Ethan assentì – Tu puoi…sentirla?»
«Sento la sua voce, sì. E’
stata proprio lei a dirmi che ti serviva il mio aiuto, Allison»
«Come fai a..?»
«…conoscere il tuo nome?»
La donna sorrise…che domanda
idiota!
«Puoi aiutarmi Ethan? – chiese
poi speranzosa - Puoi dirmi chi è l’uomo che vuole uccidere Jarod nel mio
sogno?»
«No, non so chi sia. Io… - il
ragazzo ebbe un’impercettibile attimo d’indecisione…no, meglio non turbarla più
di quanto già non fosse dicendole ciò che le voci gli avevano rivelato –
Purtroppo non posso dirti come interpretare il sogno che tanto ti angoscia,
questo puoi farlo soltanto tu – Miss Parker chiuse gli occhi e sospirò delusa –
Però credo che dovresti lasciare da parte i cattivi presagi su Jarod per il
momento e concentrarti piuttosto sul dipinto»
«E tu che ne sai del dipinto?!»
domandò la donna sempre più stupita.
«L’ho sognato anch’io, varie
volte»
«Io l’ho anche visto,
nell’ufficio di Matumbo»
«Motivo in più per cerare di
capire che cosa significa, ti pare?»
«E’ vero. Vorrà dire che ci
proverò, anche se non ho la più pallida idea di cosa dovrei cercare»
«Oh lo saprai…quando sarà il
momento giusto» replicò enigmatico Ethan alzandosi.
«Già te ne vai?»
«Sì, ora devo andare – disse
avviandosi verso al porta – Ma tornerò, quando avrai di nuovo bisogno di me»
Casa di Miss Parker, Blue Cove -
ore 08:00 a.m.
«Vuoi dire che Frank Dawson è
il padre di Angelo?!» esordì sbalordita Miss Parker, con gli occhi sgranati,
tenendo la sua tazza di caffè ferma a mezz’aria.
«Esatto – rispose la voce di
Jarod all’altro capo del filo - Non ha mai smesso di cercare suo figlio in
tutti questi anni. E nel frattempo ha raccolto una quantità d’informazioni
interessanti sul Centro»
«Quanto interessanti?»
«Diciamo che sa buona parte di
quel che sappiamo noi»
«Mhm…non mi meraviglia che lo
vogliano morto!»
«Già. Però a Frank non
interessa il Centro in sé. Lui vuole solo ritrovare il figlio che gli è stato
tolto – spiegò ancora Jarod - La speranza che sia ancora vivo è la sua unica
ragione per andare avanti»
«Bè vivo lo è, ma non è certo
la persona che lui si aspetta di trovare – commentò la donna con amarezza –
Grazie al Dr. Raines non è più Timmy, ora è Angelo…glielo hai detto?»
Jarod sospirò costernato.
«Ancora non ne ho avuto il coraggio»
«Immagino che non sia facile
dire una cosa del genere ad un padre – osservò tristemente Miss Parker – Mi
domando come sia riuscito ad indagare così a fondo sul Centro senza mai essere
scoperto per tanto tempo»
«Veramente le sue ricerche
hanno dato buon esito solo negli ultimi tre anni, da quando un misterioso
informatore ha iniziato ad aiutarlo»
«Un informatore? – chiese lei
incuriosita - E chi é?»
«Non ne ho idea, ma si tratta
di qualcuno che sa parecchie cose sul Centro, magari qualcuno che ci ha
lavorato o che ci lavora e che si firma soltanto “M”…non sarai mica tu, eh Miss
Parker?» insinuò poi in tono semi-serio.
«Spiacente di deluderti ragazzo
prodigio, ma non sono io il tuo uomo! – replicò ironica la donna – Anzi,
veramente servirebbe a me un informatore per sapere tutto quel che succede là
dentro!»
Jarod rise sommessamente
all’altro capo del filo, con quella sua risata lievemente roca, che le riportò
alla mente passati momenti di complicità, d’intimità…Dio com’era difficile
anche solo non pensarci!
«Hei Miss Parker? Ci sei
ancora?» esordì lui interrompendo il filo dei suoi pensieri.
«Cosa..? Scusa…stavi dicendo?»
«Mi stavo domandando se questo
individuo non possa aiutare anche noi»
Era strano parlare con lei in
modo così distaccato, come si conversa del più e del meno con un vecchio amico,
dopo tutto quel che c’era stato tra loro…che ancora c’era tra loro… avrebbe
tanto voluto...
«Pensi che sappia qualcosa
della lista?» chiese speranzosa lei, riportandolo bruscamente alla
conversazione.
«E’ solo un’ipotesi, ma credo
che valga la pena di verificarla»
«E come? Non sai né chi sia né
dove si trovi questo tizio»
«Bè, Frank potrebbe lasciargli
un messaggio nella stessa mailbox che l’informatore usa per contattarlo –
suggerì il simulatore, dopo averci pensato un momento – Ne parlo subito con
lui»
«Jarod» lo interruppe lei
giusto prima che riattaccasse.
Non poteva più rimandare. La
sera prima non c’era stato il tempo di parlargliene, perché bisognava agire
subito per salvare sia lui che Frank Dawson dalla trappola del Centro, ma a
quel punto doveva decidersi a raccontargli ciò che aveva scoperto su sua madre,
anche se non era affatto facile trovare le parole giuste.
«Che c’è?»
«Ecco io…ci sono notizie di
Jay?»
“Vigliacca!” si apostrofò tra
sé e sé non appena ebbe formulato quella domanda, invece di affrontare
l’argomento che si era prefissata.
«Ho parlato con mio padre poco
fa – l’informò sfiduciato lui - Sembra che qualcuno l’abbia visto ieri alla
stazione degli autobus di Milwaukee, ma da lì nessuna traccia»
«Certo sarebbe tutto più facile
se potessimo denunciare la sua scomparsa alla polizia» disse Miss Parker,
seriamente preoccupata per il ragazzo.
«Ma non possiamo. Noi per la
polizia non esistiamo nemmeno – replicò sarcastico Jarod, cedendo per un attimo
allo sconforto – Ora ti lascio, devo…»
«Jarod aspetta! – lo fermò di
nuovo la donna – Io…c’è qualcosa devo dirti»
«Ti ascolto»
Miss Parker trasse un lungo
respiro. Non c’era verso di fargli sapere in modo indolore ciò che aveva da
dire. Non le restava che dirlo e basta.
«Broots non ha trovato niente
sulla lista nei files di Matumbo purtroppo, ma ha scoperto dell’altro»
«E sarebbe?»
«Un archivio dettagliato di
dossier riguardanti tutti coloro che sono o sono stati alle dipendenze del
Centro e…»
«E..?»
«Tra questi ce n’era uno su tua
madre»
«Cosa?!» esclamò a quel punto
lui, la voce carica di amara incredulità.
«E’ la verità Jarod. Tua madre
lavorava per il Centro» confermò Miss Parker, prima di aggiungere tutte le
altre informazioni contenute nel dossier.
Mentre parlava poteva percepire
la frustrazione per l’ennesima cocente delusione nel pesante silenzio all’altro
capo del filo. Avrebbe tanto voluto essergli vicina in quel momento, anche solo
per abbracciarlo, confortarlo. Avrebbe tanto voluto non dover essere lei a
dargli un nuovo dolore. Di sicuro era sconvolto, si sentiva ferito, tradito e
lei era lì senza poter fare nulla per…ah maledizione!!!
«Non posso crederci» mormorò
finalmente Jarod.
«Non trarre conclusioni
affrettate»
«Mia madre sapeva benissimo
dove fossimo finiti io e Kyle ma non ha mosso un dito...» continuò lui
imperterrito.
«Questo non puoi saperlo,
forse…»
«Sapeva tutto e ha sempre
mentito. Persino a mio padre»
«Sono certa che c’è una
spiegazione logica per tutto questo»
«Ah sì? E quale?!» l’interruppe
lui quasi gridando, la voce ridotta quasi ad un sibilo tanto aspro da far
paura.
«Ancora non lo so ma…» provò a
dire Miss Parker, prima di essere nuovamente interrotta, però dal tu-tu del
telefono. Jarod aveva riattaccato, forse giusto in tempo perché lei non avrebbe
saputo che altro dirgli.
Una delle poche certezze su cui
stava ricostruendo la vita che gli era stata tolta era crollata in pochi
istanti, Jarod era di nuovo solo ad affrontare la sua disperazione e lei non
poteva fare altro che stare lì, impotente, a soffrire in silenzio per lui.
Rifugio di Jarod - Pimmit
Hills, nei pressi di Washington – ore 05:00 p.m.
Frank aveva lasciato il
messaggio per l’informatore nella solita mailbox già da diverse ore, ma questi
non si decideva a rispondere e Jarod cominciava a farsi impaziente.
Camminava inquieto su e giù
davanti alla finestra, sbirciando fuori di tanto in tanto, sempre all’erta.
La notizia circa il passato di
sua madre lo aveva sconvolto, ma non poteva permettersi di dare sfogo alla sua emotività
nella situazione in cui si trovava. Non gli era possibile abbassare la guardia
senza rischiare di mettere in pericolo la sua vita e quella dell’uomo che stava
cercando di aiutare, anche se mantenere la lucidità gli stava costando uno
sforzo quasi sovrumano.
«Ancora niente Frank?» chiese
per l’ennesima volta.
«No, ancora no – rispose
indulgente l’altro - So che sono passate tante ore, ma è la prima volta che
sono io a cercarlo e che gli chiedo di contattarmi. Forse ci sta pensando un
po’ su, ma alla fine si farà vivo, vedrai»
«Lo spero…lo spero proprio»
Forse quell’uomo sapeva dove
fosse la lista che lui e Miss Parker stavano cercando da tempo e magari poteva
anche spiegargli cosa ci facesse un dossier su sua madre tra quelli dei
collaboratori del Centro.
La sola idea lo faceva
impazzire. Sua madre era l’unica persona di cui si fosse sempre completamente
fidato, pur non avendola mai conosciuta veramente. Il ricordo della sua
dolcezza, l’amore e la speranza che aveva letto nel suo sguardo, nel breve istante
in cui le loro vite si erano incrociate quel pomeriggio a Boston, gli erano
state sufficienti per convincersi che lei era davvero come l’aveva sempre
immaginata durante la sua prigionia al Centro. Era certo che lei avesse sempre
lottato per riaverlo accanto, che non l’avrebbe mai tradito e invece…
Basta! Non poteva continuare a
tormentarsi. L’unica persona che potesse rispondere alle sue domande era chissà
dove e lui non aveva modo di rintracciarla…a meno che l’informatore…sì, forse
lui poteva aiutarlo anche a trovare sua madre.
Doveva assolutamente incontrare
quel tizio, anche se questi si fosse rifiutato di parlare con lui. Gli bastava
che si mettesse in contatto Frank, almeno per qualche minuto e lo avrebbe
scovato, anche in capo al mondo.
Il Centro, Blue Cove -
Ufficio di Miss Parker – ore 07:00 p.m.
Miss Parker era appoggiata allo
schienale della poltrona, assorta, lo sguardo perso fuori della grande vetrata
alle spalle della scrivania, sulla quale giaceva ancora aperto il fascicolo
riservato che Broots le aveva consegnato nel pomeriggio.
Il tecnico non aveva trovato
nulla d’interessante sul dipinto di Doom, che dopo la conversazione con Ethan
restava più che mai al centro dei suoi pensieri, però era riuscito a decriptare
i files trovati nell’archivio della Nugenesis, scoprendo così la verità sulla
nascita del piccolo Sean e provandole, anche se non ce n’era più bisogno, che
suo padre le aveva di nuovo mentito. Altro che povero embrione rimasto orfano e
scampato ad un crudele destino! I genitori biologici del bambino erano sì morti
in un incidente stradale, ma tre mesi dopo che Brigitte aveva adottato
il loro futuro bambino, nel cui DNA era presente il gene del simulatore. Quei
poveretti forse avevano scoperto la verità e magari proprio per questo erano
stati uccisi…Dio, ma come avevano potuto?!
Rabbia, disgusto, angoscia. E
il fatto di sentirsi come sempre impotente di fronte alle ormai troppe atrocità
perpetrate dal Centro. Aveva voglia di gridare, di piangere, di appoggiare la
testa sulla spalla di Jarod e sentire il calore del suo abbraccio, ma…
Un leggero bussare interruppe
le sue amare riflessioni: solo allora si accorse della presenza di Sydney
accanto alla porta, le mani calate nelle tasche del suo immancabile completo di
tweed. Aveva l’aria stanca e il volto tirato, proprio come lei e aveva bisogno
di parlarle, le fu sufficiente uno sguardo per capirlo.
«Syd, che posso fare per te?»
esordì in tono colloquiale, sforzandosi di sorridere a beneficio della
telecamera che di certo li stava spiando, mentre apriva con noncuranza il
cassetto della sua scrivania.
«Possiamo parlare?»
«Ora sì» disse lei dopo aver
attivato il dispositivo di disturbo per il segnale dei microfoni ideato da
Broots.
«Vengo ora dal piano di sotto –
proseguì Sydney – Ho saputo di Sean…mi dispiace»
Miss Parker abbassò lo sguardo
e scosse il capo, piegando le labbra in un amaro sorriso, ma non le riuscì di
dire nulla.
«Ad ogni modo – continuò lui
mostrandole un fascicolo – Broots è riuscito ad isolare una trentina di
potenziali soggetti, vale a dire tutti quelli tra coloro che furono sottoposti
all’esperimento di Raines che risultano essere ancora in vita e in questo
momento sta provando a rintracciarli, ma…»
«Ma?»
«Spero solo che non sia troppo
tardi»
«Perché Cox ti ha forse detto..?»
«Cox non mi rivelato ancora
nulla sull’arrivo del soggetto, ma ho notato una certa agitazione nelle
attività del SL-27 in queste ultime ventiquattr’ore, quindi…»
«Quindi..? Insomma vuoi
deciderti a parlare?!» proruppe esasperata la donna.
«Temo che abbiano già prelevato
il ragazzo»
«Oh no maledizione!» sbottò
infuriata Miss Parker battendo violentemente il pugno sul tavolo e dando
finalmente sfogo alla sua ira repressa.
«Mi dispiace, non ti sono stato
di grande aiuto» mormorò sconfortato Sydney, lasciandosi cadere sulla sedia di
fronte alla donna.
«No, scusami tu Syd, so che non
dovrei prendermela con te – replicò lei dispiaciuta, volgendo ancora lo sguardo
oltre la vetrata - E’ solo che oggi non è una gran giornata»
«Se davvero il ragazzo è già qui,
spero almeno di riuscire a scoprire dove lo tengono nascosto prima che gli
venga fatto del male – aggiunse speranzoso l’altro – Anzi, a pensarci bene
forse ho già in mente qualcosa»
«Ottimo» replicò lei laconica,
con aria distratta.
«Va tutto bene Miss Parker?»
chiese a quel punto Sydney, sorpreso del suo scarso interesse.
La donna si voltò di nuovo a
guardarlo.
«A parte il fatto che Cox sta
giocando al Dr. Moreau con mio fratello, il quale in realtà non è mio fratello?
Che ha fatto rapire un altro innocente senza che potessimo impedirlo e che mio
padre appoggia in pieno il suo subdolo progetto? – replicò poi sarcastica - Bé
sì, a parte questo va tutto bene»
«E con Jarod?»
«Che c’entra Jarod adesso?»
domandò lei, di colpo sulla difensiva.
«Mi è parso di capire che sia
successo qualcosa tra voi due»
«Te lo ha detto lui?»
«Non era necessario – chiarì
Sydney - Immagino sia stata tu a troncare»
«Sì» rispose semplicemente lei,
abbandonandosi stancamente sullo schienale della poltrona.
«Jarod è molto amareggiato e a
quanto pare anche…»
«La nostra era una storia senza
futuro» cercò di tagliar corto lei.
«Se davvero lo pensi come mai
ti senti così frustrata e..?»
«Che ne sai tu di come mi
sento?!» l’interruppe irritata lei rivolgendogli un’occhiataccia.
«Bè, è il mio lavoro» replicò
pacato il dottore senza scomporsi.
Miss Parker sospirò annoiata.
«Senti Syd, ora non sono
proprio dell’umore adatto per farmi psicanalizzare!»
«Io invece credo che ne avresti
bisogno»
«E’ una faccenda troppo
complicata. E in ogni caso non mi va di parlarne adesso, okay?» disse la donna
in tono perentorio.
«D’accordo, non voglio
forzarti. Ma se cambiassi idea, puoi sempre contare su di me»
Lo psicologo stava per alzarsi,
quando Miss Parker allungò improvvisamente le mani, afferrando le sue all’altro
lato della scrivania.
«Syd - voleva semplicemente
dirgli grazie, tuttavia, meravigliandosi di se stessa, si lasciò sfuggire
qualcosa di più – Sai, a volte vorrei tanto che fossi tu mio padre»
Il dottore le sorrise stupito,
stringendole a sua volta le mani e fece per dire qualcosa, però…
«Ma che scena commovente!»
esordì all’improvviso una voce sardonica che entrambi ben conoscevano.
«Dubito che tu sia in grado di
commuoverti Lyle» replicò a tono Miss Parker, sfoderando il suo sguardo di
ghiaccio, mentre si affrettava a riporre i fascicoli ricevuti da Broots al
sicuro nella sua valigetta.
Lyle non mancò certo di
cogliere il gesto furtivo della sorella, mentre si avvicinava con fare
insidioso ai due, che nel frattempo si erano entrambi alzati.
«Sorellina così mi ferisci!»
commentò poi in tono canzonatorio, guardandosi intorno con falsa noncuranza.
«Ma figuriamoci – ribatté la
donna con palese sarcasmo - Si può ferire qualcuno solo ammesso che abbia un
cuore e questo non è di certo il tuo caso»
«Ah già, dimenticavo che tra
noi due sei tu ad avere il primato dell’umanità»
«Non farti illusioni. Quella è
una gara che perderesti con chiunque!»
«Solo perché non aiuto le
vecchiette ad attraversare la strada e non porto doni agli orfanelli?»
«No, perché sei uno psicotico
perverso che prova gusto ad uccidere e torturare la gente…soprattutto quella
con gli occhi a mandorla»
«Ma quante cose sa la mia cara
sorellina! – Lyle abbozzò un sorrisetto inquietante – Comunque sì, ogni tanto
mi diverte fare strani giochetti con le donne orientali e con questo?»
«Sei disgustoso!»
Sydney osservava, stando in
disparte, l’acceso battibecco tra i due, con interesse quasi scientifico,
finché la discussione non prese una piega del tutto inaspettata…
«Se non altro io non mi faccio
prendere da stupide crisi di coscienza e non cerco di distruggere ciò che la
mia famiglia ha costruito nel corso di lunghi anni…perché è questo che stai
cercando di fare, non è vero sorellina?» dichiarò Lyle, rivolgendo alla donna
un’occhiata minacciosamente allusiva.
«Ma che stai dicendo?!» esclamò
Miss Parker cercando di dissimulare quanto quelle parole l’avessero colpita,
mentre il sangue le si gelava nelle vene.
«Pur non approvando, hai sempre
svolto con enorme zelo, devo dire, il lavoro sporco che ti veniva
chiesto di fare… magari perché il tuo alto tenore di vita, i tuoi bei vestiti
griffati e la tua auto sportiva valevano bene qualche rimorso di coscienza, non
è così? – proseguì Lyle con pesante sarcasmo - Ma adesso tutto questo ti fa
schifo e vuoi riscattarti, porre rimedio ai tuoi errori…non è così?»
insistette seguitando ad avvicinarsi alla sorella, che lo fissava suo malgrado
impietrita.
«Stai vaneggiando!» replicò
questa, molto meno convinta di quanto volesse apparire, scambiando con Sydney uno
sguardo carico d’ansia.
«E’ inutile che lo neghi –
seguitò lui con preoccupante disinvoltura - Ti sto tenendo d’occhio fin da
quando tornammo da Parigi e per inciso, non ho creduto nemmeno per un istante
che quel dischetto fosse illeggibile: so benissimo che conosci il segreto di
Catherine e so che vuoi usarlo in combutta con Jarod contro il Centro»
«Ah sì? – esordì a quel punto
ironica la donna, imponendosi finalmente di reagire – Allora immagino che tu
possa provare quello che stai affermando con tanta sicurezza – continuò
incrociando le braccia al petto ed alzando il mento in segno di sfida – Anzi, a
dire il vero non credo proprio che tu possa. Altrimenti, come un bravo cane da
guardia, saresti già corso a fare rapporto a papà…o magari a Matumbo – aggiunse
colpendo nel segno – Faresti di tutto pur di dare la scalata alla gerarchia del
Centro, non è vero Lyle?»
Lunghi attimi di silenzio. La
tensione nella stanza si era fatta quasi palpabile.
«D’accordo, ancora non ho le
prove – ammise poi lui squadrandola torvo e contenendo a stento la collera…come
diavolo faceva a sapere del suo memo per Matumbo?! – Ma tu farai un passo falso
prima o poi ed io sarò lì per coglierti sul fatto, stanne certa»
«Tu sei pazzo!»
«Può darsi, ma non abbastanza
pazzo da scordare che né quello che sono né quello che ho sempre fatto si
possono cancellare con un colpo di spugna. Sarebbe un po’ troppo comodo, non
credi sorellina? – sibilò con compiaciuta cattiveria - Tu faresti bene a non
illuderti: anche se ti fa piacere pensare il contrario, non sei affatto
migliore di me» aggiunse con voce tagliente quanto il suo sguardo, prima di
andarsene soddisfatto.
“Uno a zero per lui” si disse
infatti avvilita Miss Parker, incassando il colpo senza poter ribattere.
«Tenendo d’occhio Cox e concentrandoci
sulla lista ci eravamo scordati di lui» commentò preoccupato Sydney.
«Già, ed è stata
un’imperdonabile leggerezza – di rimando lei - Vediamo di muoverci con maggiore
cautela d’ora in avanti. Non possiamo più permetterci di sottovalutarlo» concluse
afferrando la sua valigetta.
«Miss Parker, non dare troppo
peso a ciò che ha detto, sai benissimo che…» provò a dire lo psicologo,
intuendo quanto le ultime parole di Lyle l’avessero turbata, ma lei lo
interruppe con un semplice gesto della mano.
«Lascia stare Syd» mormorò
amaramente dirigendosi verso la porta.
* * *
“Maledetto bastardo!” riusciva
solo a pensare mentre l’ascensore scendeva velocemente verso il parcheggio.
Era in preda all’ira e controllava
a stento i tremiti dei propri nervi tesi allo spasimo. Era furiosa, ma più con
se stessa che con Lyle, perché sapeva che, sebbene avesse agito nel solo
intento di farle del male, suo fratello non aveva detto che la verità. Anche se
le parole di Ethan l’avevano indotta a sperare il contrario, a quel punto
sapeva di essersi illusa. Niente e nessuno avrebbe mai potuto cambiare il
passato e quel passato le sarebbe sempre rimasto cucito addosso, non importava
cosa avesse fatto per cancellarlo. Non avrebbe mai potuto farlo. Sarebbe sempre
stato lì, accanto a lei, parte di lei, per separarla dalle persone che voleva
aiutare…per separarla da Jarod.
Le porte scorrevoli si aprirono
e Miss Parker si avviò mestamente al suo posto auto. Doveva smetterla di aggrapparsi
a false speranze, tra lei e Jarod c’erano ostacoli invalicabili e…
All’improvviso un’ombra si
mosse impercettibile alle sue spalle. Senza esitare un attimo, la donna afferrò
la pistola e si voltò di scatto, pronta a difendersi, ma si trovò di fronte…
«Jay?!»
«Ciao Miss Parker»
«Ma dico ti ha dato di volta il
cervello?! – sbottò non appena ripresasi dallo stupore – Che diavolo ci fai
qui?!»
«Non preoccuparti. Sono passato
del tutto inosservato»
«Nessuno si muove inosservato
qua dentro!» replicò Miss Parker indicando la telecamera.
«Oh quella – esordì Jay con
aria di sufficienza - Tranquilla, l’ho messa fuori uso»
«Perfetto. Questo significa che
uno spazzino starà gia venendo qui a controllare perché non funziona. Avanti,
sbrighiamoci!» disse lei afferrandolo per il braccio.
«Aspetta, dove stiamo andando?
Io devo…»
«Niente discussioni ragazzino.
Muoviti!» commentò lei trascinandolo risoluta verso la sua auto.
«Io non sono un ragazzino»
precisò risentito Jay, sempre più convinto che tutti gli adulti erano
insopportabili, mentre si dirigeva
contrariato verso la portiera del passeggero, però…
«Dove credi di andare?» esordì
Miss Parker indicando il bagagliaio.
Lui fissò incredulo il vano.
«Non vorrai farmi entrare là dentro!» protestò poi.
«Certo, così impari ad essere
imprudente – lo rimproverò lei divertita – E poi che altro dovrei fare? Non
posso certo uscire da qui portandoti in bella vista. Ti ricordo che sei ancora
sulla lista dei ricercati»
Jay scosse il capo rassegnato
ed entrò riluttante nell’angusto scomparto, ma proprio mentre la donna lo stava
richiudendo…
«Miss Parker»
“M…da!” imprecò lei tra sé e
sé, dopo che ebbe udito la voce alle sue spalle.
«Che c’è Sam?» domandò poi
laconica, mentre si voltava con ostentata noncuranza.
«Va tutto bene?» s’informò lo
spazzino.
«Certo. Perché me lo chiedi?»
«La telecamera di questo
settore non funziona. Non è che ha notato qualcosa di strano per caso?»
Miss Parker tirò un’impercettibile sospiro di sollievo: « Sam, vecchio
mio, siamo al Centro…sono anni che vedo cose strane qui dentro!» commentò
salendo in auto con un sorrisetto ironico, prima di andarsene in tutta fretta.
Rifugio di Jarod - Pimmit
Hills, nei pressi di Washington – ore 08:00 p.m.
Frank teneva d’occhio da ore lo schermo del suo portatile oramai esausto
per la snervante attesa, quando “M” si fece finalmente vivo all’appuntamento.
Frank – apparve
infatti all’improvviso sul video.
Eccoti finalmente
–
scrisse l’agente facendo un cenno concitato a Jarod.
Il simulatore si avvicinò immediatamente, a sua volta entusiasta e si
attivò per rintracciare la chiamata.
Perché mi hai contattato in questo modo? Lo sai che è
rischioso
«Digli che vuoi incontrarlo» suggerì Jarod.
Sì lo so – rispose
Frank – ma ci sono importanti novità di cui ti devo parlare
D’accordo però facciamo in fretta. Il Centro potrebbe
individuarci in qualsiasi momento
Non così – digitò
ancora l’altro – è una questione delicata. Dobbiamo incontrarci di persona
No non è possibile –
replicò categorico “M”.
Perché no? Fisseremo un posto sicuro. Anzi, dimmi tu dove
ed io verrò
«Okay Frank, continua così – lo esortò Jarod - Continua a tenerlo
collegato, ci sono quasi»
Non esistono posti abbastanza sicuri per sfuggire a quella
gente – rispose “M” dopo qualche istante
Prenderemo tutte le precauzioni possibili – insistette Frank – vedrai che non ci saranno problemi
Ti dico che non è possibile. Non contattarmi più Frank
Aspetta
«Se n’è andato accidenti!» esclamò contrariato l’uomo fissando impotente
il monitor ormai vuoto.
«Ma noi lo ritroveremo – lo rassicurò Jarod – Il nostro uomo chiamava da
Dover, più precisamente da una linea telefonica del Sunrise Motel, che si trova
al Km 7 della superstrada»
«Sei un genio ragazzo!» si complimentò l’altro impressionato.
«Sì, me lo hanno già detto – replicò ironico il simulatore – Ma ora
sbrighiamoci. La tua chiamata deve averlo insospettito. Dobbiamo arrivare là
prima che tagli la corda!»
Casa di Miss Parker, Blue Cove – ore 09:45 p.m.
Mentre Jay mangiava hamburger e
patatine guardando tranquillo la TV, Miss Parker decise che era giunto il
momento di avvisare Jarod per rassicurarlo sulla sorte del ragazzo.
«Sì?» rispose inquieto il simulatore all’altro capo del filo.
«Sono io. Volevo avvisarti che tuo fratello è qui con me, a casa mia»
«Grazie a Dio – replicò l’altro assai più sollevato – Come sta?»
«Sta bene, sta bene…come dici? Vuoi sapere dove l’ho trovato? Bè stava
bazzicando, pensa un po’, nel parcheggio del Centro – Miss Parker allontanò
all’improvviso il telefono dall’orecchio – Ehi calmati! Non è da te perdere le
staffe, ragazzo prodigio!»
«Si può sapere almeno che diavolo ci faceva al Centro?»
«Ancora non me lo ha detto, ma vedrò di scoprirlo»
«Comunque quell’incosciente mi sentirà, non appena potrò venire a
prenderlo»
«Che vuol dire non appena? – esordì contrariata la donna - Io
credevo che ti stessi già precipitando qui, non vorrai che gli faccia da
baby-sitter per…»
«Ora non posso – l’interruppe risoluto lui - Frank ed io stiamo andando
a Dover»
«A Dover? A fare che?»
«Ad incontrare un amico»
«”M” ha accettato di vederti di persona?» esclamò a quel punto Miss
Parker piacevolmente sorpresa.
«Non esattamente, ma credo che dovrà farlo comunque - replicò allusivo
Jarod – Per favore pensa tu a Jay finché non torno»
«Bè, quand’è così, d’accordo. Ma tienimi informata»
«Come sempre»
Miss Parker ripose rassegnata il cellulare e concentrò nuovamente la sua
attenzione su Jay.
«Allora, posso finalmente sapere perché ti trovavi nell’ultimo posto al
mondo in cui saresti dovuto essere?»
Nessuna risposta. Il ragazzo rimase impassibile a seguire distrattamente
ciò che accadeva sullo schermo, senza dare nemmeno cenno di aver sentito la sua
voce.
La donna allora sospirò, si sedette pazientemente accanto a lui sul
divano, gli sfilò con delicatezza il telecomando dalle mani e spense il
televisore.
«Andiamo Jay, non ho intenzione di farti la predica. Voglio solo capire
che cosa ti passa per la testa» aggiunse poi in tono pacato.
Lui la fissò per un po’ con palese diffidenza, poi si decise a parlare.
«Una mia amica è stata portata al Centro e io devo farla uscire di lì
prima che le facciano del male»
«Una tua amica? - chiese scettica la donna – E come sai che si
trova al Centro?»
«Lo so perché ho visto Willie trascinarla via da scuola a forza due
giorni fa»
«Ne sei proprio sicuro?» insistette lei, anche se quasi convinta che lui
avesse visto giusto.
«Certo. Non credo che potrei scordare la faccia di chi mi ha tenuto prigioniero
per quindici anni, ti pare?»
«Già…» mormorò Miss Parker colpita dall’amaro sarcasmo di quella
risposta.
Dio solo sapeva cosa doveva aver passato quel povero ragazzo nelle
grinfie di Raines e chissà quanto ancora stava soffrendo. Magari avrebbe dovuto…che
so? Arruffargli i capelli, o accarezzargli la guancia, o semplicemente toccare
la sua spalla…insomma fargli capire che gli era vicina, che le dispiaceva
immensamente per…ma no, forse non era il caso. Lui non voleva certo essere
compatito.
«Un momento – esordì Miss Parker alzandosi di colpo per avviarsi svelta
verso la sua valigetta. Poteva essere solo una coincidenza, ma qualcosa
le diceva che non era così – Come hai detto che si chiama la tua amica?» chiese
afferrando il fascicolo consegnatole da Sydney.
«Non l’ho detto – replicò scostante Jay – Comunque si chiama Kimberly»
«Kimberly e poi?»
«Non so altro di lei»
La donna sbuffò costernata, spulciando uno dopo l’altro con crescente
impazienza l’elenco dei possibili canditati estrapolato da Broots, finché quel
nome non le balzò agli occhi.
«Kimberly Lawrence – lesse ad alta voce - Età attuale sedici anni,
inserita nel programma quando ne aveva due, estremamente dotata per le scienze
matematiche e per questo denominata “Progetto Euclid”»
«Programma..? Progetto Euclid..? - ripeté Jay sbalordito -Vuoi dire che
Kimberly è un simulatore?»
«Non proprio, non come te per lo meno – spiegò Miss Parker - I suoi
genitori si rivolsero alla Nugenesis perché non potevano avere figli e sfortunatamente
furono scelti da Raines per un esperimento. La loro bambina… insomma è stata geneticamente
modificata per sviluppare particolari doti, allo scopo di essere poi
inserita in una sorta di progetto parallelo al programma simulatore – il
ragazzo seguitava a guardare la donna con uno sguardo carico di orrore e
disgusto – Però i Lawrence capirono in qualche modo che non dovevano fidarsi
del Centro e sparirono di punto in bianco con la figlia – continuò Miss Parker,
riportando quanto era scritto nel dossier – Si nascondevano da oltre dieci anni
per proteggerla da Raines, ma a quanto pare
il Centro è riuscito a scovarli»
«Ma il Dr. Raines è morto ormai – obiettò a quel punto il ragazzo ancora
confuso– Chi potrebbe..?»
«…continuare con l’esperimento? Oh ci sta pensando il Dr. Cox a
sostituirlo in tutto e per tutto - replicò sarcastica la donna – Sapevamo che
il Centro intendeva rapire un altro bambino e speravamo di impedirlo, ma non ci
siamo riusciti. Purtroppo temo che la tua amica sia il nuovo soggetto di cui
Cox ha parlato a Sydney»
A quelle parole, il ragazzo scattò in piedi come una molla.
«Devo andare a salvare Kimberly!»
«A cuccia Romeo! Tu non vai da nessuna parte» lo trattenne decisa Miss
Parker.
«Ma lei è in pericolo!»
«E’ vero, però anche tu lo saresti se dovessero catturarti» replicò
categorica lei.
«Non succederà»
«Sicuro! Ti lasceranno andare e venire a tuo piacimento senza fare
obiezioni!– lo schernì ironica - Eh voi uomini siete tutti uguali: basta che
una bella biondina vi faccia gli occhi dolci e vi mettete a fare i gesti più
sconsiderati!»
«Io non ho fatto nessun gesto sconsiderato»
«Ah no? E scappare di casa facendo morire di paura tua sorella come lo
chiami?»
Il ragazzo si rabbuiò di colpo in viso, negli occhi uno sguardo colmo di
tristezza.
«A Emily non importa niente di me, come a tutti gli altri del resto –
disse alzando le spalle – Io sono solo un peso per loro, qualcuno che sono
stati obbligati ad accollarsi»
«Ma che stai dicendo?»
«La verità»
«No, sono sicura che ti sbagli - disse
Miss Parker in un tono stranamente dolce - Jarod e il Maggiore erano
preoccupati a morte dopo la tua scomparsa ed Emily era disperata quando ha
chiamato per avvisare della tua fuga»
«Solo perché sentivano di non aver adempiuto ai loro doveri morali»
«No solo perché ti adorano e vogliono proteggerti»
«Io non voglio essere protetto! – sbottò allora Jay esasperato – Io
vorrei soltanto essere normale, fare parte di una famiglia normale» mormorò
poi.
«Lo so – replicò Miss Parker toccata - Ma purtroppo tu non sei come
tutti gli altri, devi accettarlo Jay»
“Dio che cosa stupida da dire a un adolescente!” si disse ancor prima di
finire la frase.
«Non sono capace. Non ci riesco. Non è facile vivere in mezzo agli altri
come se fossi un alieno»
«Posso immaginarlo»
«Davvero? Io non credo proprio» l’apostrofò lui amaramente.
«Jay, quello che ti è capitato è atroce, ma puoi superarlo se vuoi – il
ragazzo le rivolse un’occhiata a dir poco scettica, ma lei continuò - Puoi
scegliere di vivere schiacciato dal peso della tua orribile esperienza, oppure
sfruttare le doti straordinarie che ne hai ricavato per fare qualcosa di buono
per te stesso e per gli altri, come…»
«…come Jarod?» terminò lui in tono pungente.
«Ti secca essere continuamente paragonato a lui, vero?» chiese Miss
Parker dopo un breve istante.
«Non sai quanto! - le confermò risentito il ragazzo - Non sai quanto sia
difficile non essere altro che il suo clone»
«Nessuno ti considera il suo clone! Tu sei semplicemente…»
«Il duplicato del genoma di un altro – insistette sarcastico lui - Non
sono nemmeno un essere umano, sono nato in una provetta!»
«Bé, ci sono uomini nati dal ventre di una donna che sono molto meno
umani di te, credimi - Jay abbozzò un timido sorriso alla sua battuta ironica,
così, incoraggiata, lei proseguì – Io credo che il nocciolo del problema sia
proprio questo»
«Questo..?»
«Tu sei convinto che tutti ti considerino soltanto il clone di Jarod,
qualcosa non del tutto umano, perché questo in realtà è ciò che tu pensi di te
stesso»
Miss Parker si meravigliò quanto Jay non appena ebbe pronunciato quelle
parole: da quando era diventata una psicologa?! Eppure qualcosa le
suggeriva di aver detto la cosa giusta.
«Non ci avevo mai pensato ma…sì forse…insomma, può essere vero…» mormorò
incerto il ragazzo.
«Lo credo anch’io»
«Ma allora perché non fanno che ricordarmi quanto io sia diverso? Perché
mi impongono di non avere legami coi miei coetanei, di vivere come un
fantasma?! Perché non capiscono che tutto questo mi fa stare male?!»
«Forse perché non hanno altra scelta – replicò pacata la donna dopo
quello sfogo – Ti sarai accorto anche tu che la loro vita è estremamente
complicata…e magari di fronte a tutti i loro grossi guai i tuoi problemi
adolescenziali sono passasti in secondo piano»
«Quindi è come pensavo: a loro non importa un accidente di me!»
«Non ho detto questo – ribatté esasperata Miss Parker – E poi scusa, ma
tu hai mai parlato con loro di ciò che senti? Voglio dire, lo hai mai fatto
senza farti prendere dall’ira, tranquillamente, come stai facendo con me ora?»
Jay tacque a lungo, evitando lo sguardo inquisitorio della donna, mentre
cercava una buona scusa.
«Emily e il Maggiore sono sempre troppo occupati»
«E tu sei sempre troppo arrabbiato – lo rimbeccò lei. Il ragazzo sospirò
avvilito – La tua famiglia ti vuole bene Jay e scommetto che anche tu ne vuoi a
loro. Ma a volte è difficile esprimere ciò che proviamo»
Ancora silenzio, attimi d’indecisione e di malcelato imbarazzo.
«Credi che Emily si arrabbierebbe con me se le telefonassi...solo per
dirle che va tutto bene?»
«Io credo che ne sarebbe felice – lo incoraggiò Miss Parker sorridendo -
Anzi, perché non la chiami subito?- propose poi indicandogli il cordless – Io
nel frattempo faccio qualche telefonata e magari riesco a far uscire la tua
amica dal Centro stanotte stessa»
Motel Sunrise – Dover – ore
10:30
Dopo un viaggio che pareva
interminabile, trascorso quasi in totale silenzio, ognuno immerso nei propri
pensieri, Jarod e Frank giunsero finalmente a destinazione: bastò loro una sola
occhiata per capire che di non trovarsi certo al Grand Hotel. A dispetto
della scarsa illuminazione, si vedevano bene i muri scrostati del piccolo
edificio fatto a ferro di cavallo, le aiuole incolte di quello che un tempo
forse era un giardino, le imposte
dissestate che lasciavano ben poca intimità agli occupanti delle stanze.
Il fetore d’immondizia che
aleggiava su quel posto fatiscente era quasi insopportabile.
«Proprio il posto ideale per
nascondersi» commentò ironico Jarod.
«Già – annuì Frank – A chi
verrebbe mai in mente di cercare qualcuno in questa topaia?!»
«Forza muoviamoci» disse il
simulatore scendendo risoluto dall’auto.
«Un momento ragazzo – obiettò
l’altro seguendolo – Qual è il piano?»
«Non c’è nessun piano. Dobbiamo
scovare il tuo amico, tutto qui»
«E come facciamo? – insistette
ancora Frank - Sappiamo solo che “M” chiamava da qui, ma non sappiamo da quale
stanza e non abbiamo la più pallida idea di che faccia abbia. Potrebbe essere chiunque,
potrebbe essersene già andato»
«Chiederemo al proprietario»
replicò Jarod continuando imperterrito a camminare verso la reception.
Sentiva di essere vicino come
non mai a conoscere la verità su troppe cose che gli stavano a cuore e, pur
sapendo di comportarsi in modo irrazionale, non aveva nessuna voglia di
fermarsi a pensare.
Aveva bisogno di agire subito.
«Sarebbe tempo sprecato – cercò
invece di frenarlo Frank scuotendo il capo – Questo non mi sembra il genere di
posto dove si chiedono i documenti, né tanto meno dove il proprietario sia
disposto a dare informazioni sui clienti. Ci vorrebbe una vita per farlo
parlare e noi non abbiamo tutto questo tempo»
«D’accordo – assentì l’altro
dominando a fatica un moto di stizzita insofferenza – Allora controlleremo il
posto stanza per stanza»
«Cosa?! Ma non possiamo farlo
senza un mandato!»
«Lo hai detto tu stesso Frank:
non abbiamo tempo – replicò categorico Jarod, fermandosi a fissarlo – E poi non
sarà necessario entrare, basterà dare un’occhiata dalle finestre. Tu cominci
dal lato est, io da ovest e ci ritroviamo al blocco centrale»
«E che cosa dovremmo cercare?»
obiettò Frank sempre più perplesso.
«Un tizio che sta tagliando la
corda» rispose secco il simulatore avviandosi deciso verso l’ala destra dello
stabile.
Dietro alle finestre si
susseguivano le situazioni più disparate: un ubriaco dormiva sonni agitati
accanto alla sua bottiglia, un uomo e sua moglie litigavano astiosi per soldi
davanti ad una bambina spaurita, due amanti clandestini impegnati in un
frettoloso amplesso, un’eroinomane stava chiamando il suo spacciatore
elemosinando una dose…ma niente che somigliasse a ciò che i due uomini stavano
cercando.
Jarod, oramai al culmine
dell’esasperazione, era quasi giunto al blocco centrale quando sbirciando
dentro l’ennesima stanza qualcosa attirò la sua attenzione. La camera aveva
un’aria ordinata e pulita, contrariamente alle altre, dove regnavano caos e
sporcizia e sul letto giaceva una borsa da viaggio molto simile alla sua,
insieme alla custodia di un portatile. Qualcuno si preparava a partire. La luce
del bagno era accesa…forse aveva trovato il suo uomo.
Esultante, fece un cenno a
Frank, ormai non molto distante da lui, e questi si avvicinò per guardare a sua
volta, quindi annuì.
“Come ci muoviamo?” stava per
chiedere, ma prima ancora che aprisse bocca, il simulatore aveva forzato la
serratura e fatto irruzione nella stanza. Non gli restava che imprecare e
seguirlo.
La luce nel bagno si spense e
la porta si aprì lentamente.
Una sagoma emerse dalla penombra
e si avvicinò a loro. Una figura esile e minuta, una donna dai lunghi capelli
rossi, raccolti in una crocchia.
I due uomini erano entrambi
ammutoliti per lo stupore.
«Mamma…» riuscì infine a
mormorare Jarod con un fil di voce.
Il Centro, Blue Cove –
Ufficio di Broots - ore 11:00 p.m.
“Stavolta andrà a finire male, me lo sento!” continuava a pensare
Broots, mentre le sue dita agili ed esperte volavano veloci sulla tastiera del
computer.
Il cuore gli martellava in petto come un tamburo, mentre un’impercettibile
patina di sudore gli imperlava la fronte stempiata ed il labbro superiore, a
dispetto della temperatura ottimale della stanza climatizzata. Per non attirare
l’attenzione, aveva evitato di accendere la luce, accontentandosi della flebile
illuminazione di una torcia, ma ciò non faceva che acuire la sua inquietudine,
perché ogni angolo buio, ogni ombra allungata sembravano nascondere un’insidia
ai suoi occhi, che non smettevano di guardarsi nervosamente attorno.
Brividi agghiaccianti gli correvano lungo la schiena al solo pensiero di
quel che gli sarebbe accaduto se fosse stato scoperto. Come nel peggiore degli
incubi, vedeva la porta spalancarsi di botto ed una squadra di spazzini fare
irruzione nel suo ufficio. Vedeva Lyle avvicinarsi minaccioso, con quel suo
sguardo gelido e crudele, oppure Cox, col suo sorrisetto sadico o ancora White,
il suo volto inespressivo e disumano…e la sua sudorazione non faceva che
aumentare…ah basta! Doveva smetterla di far galoppare l’immaginazione e
concentrarsi sul compito che gli era stato affidato.
La telefonata di Miss Parker era arrivata come un fulmine a ciel sereno
sulla sua tranquilla serata davanti alla TV.
«Broots, ho bisogno che tu faccia qualcosa per me…è un’emergenza»
Ma perché diavolo si era cacciato in questa situazione?! Perché non si
era tirato indietro quando gliene avevano dato la possibilità? Lui non era
tagliato per fare l’eroe!
“Ma non voglio nemmeno essere un vigliacco” si disse poi con un lungo
sospiro, ripensando alla sua piccola
Debbie lontana e a ciò che sarebbe
stato di loro se Miss Parker e Jarod non fossero riusciti a fermare il
Triumvirato. Per sua figlia, per se stesso, per il mondo intero, doveva
smetterla di rimpiangere il suo meschino quieto vivere e portare a termine il
proprio lavoro.
“Ecco fatto” pensò compiaciuto quando finalmente gli riuscì di entrare
nel programma di sicurezza superprotetto del SL27. Senza troppe difficoltà
s’inserì nel software di gestione delle telecamere a circuito chiuso ed fece partire
il filmato registrato a beneficio della sorveglianza, quindi sbloccò le porte
d’accesso al corridoio dove si trovava la stanza che Sydney aveva indicato a
Miss Parker e infine compose svelto il numero sul telefonino.
«Broots?»
«Via libera Miss Parker, puoi entrare»
«Okay» rispose questa iniziando a scendere le scale che conducevano al
SL27.
«La porta 51 si sbloccherà tra 2 minuti esatti»
«Perfetto»
«Sei sicura che vuoi che me ne vada?»
«Sì. Così se qualcosa andasse storto, almeno non sarai coinvolto»
«Ricorda che le telecamere trasmetteranno la registrazione ancora per 14
minuti e 30 secondi e che fra 15 minuti esatti la guardia passerà per suo giro
di controllo. Non hai molto tempo»
«Allora cercherò di sbrigarmi»
«Miss Parker»
«Che c’è ancora?!»
«Sta attenta»
La donna indugiò in un sorriso bonario, mentre riponeva il cellulare in
tasca, quindi procedette, pistola alla mano, verso il corridoio indicatole da
Sydney, nella speranza che le intuizioni dello psicologo si sarebbero rivelate
fondate e che Kimberly fosse tenuta prigioniera proprio lì, nella stanza 51.
Il posto era notevolmente cambiato dall’ultima volta che vi era entrata.
Era illuminato da un’asettica luce bianca e vi aleggiava un forte odore di
vernice e materiale nuovo, ad indicarne la recente ristrutturazione. Muovendo
silenziosa un passo avanti all’altro, i sensi all’erta, gli occhi bene aperti,
Miss Parker oltrepassò le varie porte d’acciaio…37, 38, 39…e non poté fare a
meno di pensare alle inimmaginabili atrocità che dovevano celarsi dietro quei
numeri…48, 49,50…
“51…eccoti qua! – esordì controllando l’orologio – Meno tre…due…uno…”
Clack! Broots era
stato di parola, la serratura elettronica si era aperta proprio al momento
giusto.
La donna spinse la pesante porta ed entrò nella stanza, le cui pareti
spoglie e naturalmente senza finestre erano rischiarate solo dalla flebile luce
di una lampada da tavolo, appoggiata appunto sull’unico mobile presente, oltre
al letto e una sedia.
I suoi occhi incontrarono subito quelli spauriti ma determinati della
ragazza, seduta sul pavimento, le gambe rannicchiate al petto.
«Che altro c’è?! Non mi hanno sforacchiata abbastanza per oggi?!»
domandò in tono pungente, mostrando le braccia livide e, pur tremando come una
foglia, alzò il mento in segno di sfida.
Miss Parker provò subito un’istintiva simpatia per quella povera
creatura dall’aria così fragile, che lottava strenuamente per non cedere alla
paura…Dio che cosa le avevano fatto?
«Sta tranquilla, non voglio farti del male Kimberly» riuscì a dirle,
nonostante il nodo che le serrava la gola.
«Come mai usi il mio nome? Tutti qua mi chiamano soggetto oppure Euclid»
«Io non sono come tutti gli altri. Sono venuta a portarti via di qui»
Un barlume di speranza si accese per un attimo nei grandi occhi azzurri
della ragazza, ma la diffidenza prese repentina il sopravvento.
«Portarmi via? Ma tu chi sei? Come sapevi che mi trovavo qui? Chi mi
dice che anche tu non sei una di loro, che tutto questo non sia parte del loro
esperimento?»
Miss Parker guardò preoccupata l’orologio.
«Senti, ora non c’è tempo. Dobbiamo andarcene o ci scopriranno, ma ti
prometto che una volta al sicuro ti spiegherò tutto, okay?»
Kimberly si alzò piano piano, le spalle addossate alla parete, uno
sguardo indagatore fisso sulla donna.
«Andiamo, non…» insistette ancora questa muovendo un passo verso di lei.
«Non ti avvicinare!» l’ammonì atterrita l’altra.
«Puoi fidarti di lei, Kimberly» esordì a quel punto una voce
all’ingresso della stanza.
«Jay! - esclamò questa di colpo raggiante. Ma subito il sorriso le morì
sulle labbra e la sua espressione s’incupì – Anche tu sei coinvolto in tutto
questo?» domandò delusa.
Miss Parker si volse e seguì con lo sguardo il giovane mentre si
avvicinava alla ragazza, sempre più diffidente, per poi controllare di nuovo
con impazienza l’orologio…ancora 6 minuti…
«Purtroppo sì – le disse Jay – Io ci sono nato e cresciuto in un posto
come questo»
«Cosa?»
«E’ stato il Centro a crearmi. Io sono il loro Progetto Gemini…anzi, lo
ero»
«Il Centro? E’ così che si chiama questo posto? – Jay annuì – E tu sei
riuscito a scappare?»
«Sì, per fortuna mio padre e mio fratello mi hanno salvato da questo
inferno e ora Miss Parker può fare lo stesso per te – aggiunse persuasivo lui –
Non avere paura, lei è un’amica»
Kimberly si staccò lentamente dalla parete e strinse dapprima titubante
la mano che Jay le porgeva, poi ruppe ogni indugio e gli buttò le braccia al
collo singhiozzando sommessamente.
Jay, imbarazzato e confuso, l’abbracciò a sua volta, sentendo
l’istintivo, inspiegabile bisogno di proteggerla.
«Andrà tutto bene, vedrai» le sussurrò, volgendosi poi verso Miss
Parker, che li stava fissando, cercando di non mostrarsi troppo intenerita.
«Non ti avevo detto di aspettarmi a casa?» lo rimproverò infatti acida.
«Non saresti mai riuscita a convincerla senza di me» si giustificò
candidamente Jay.
La donna gli rifilò un’occhiataccia del tipo con te facciamo i conti
dopo!.
«Andiamo piccioncini – esordì poi, precedendo circospetta i due
lungo il corridoio - Abbiamo solo 4 minuti scarsi per filarcela da qui!»
Il cuore in gola e l’adrenalina che scorreva a fiumi nelle loro vene,
percorsero cauti un corridoio dopo l’altro e raggiunsero infine le scale.
Ancora un paio di minuti e le telecamere avrebbero ripreso a funzionare…e poi
sarebbe arrivata la guardia…
Miss Parker aprì di poco la porta che dava accesso al SL26 e sbirciò
prudentemente lungo il corridoio immerso nella penombra: nessuno in vista,
ancora pochi metri e sarebbero stati in salvo.
«Svelti – bisbigliò - dobbiamo raggiungere la grata del condotto di
aerazione»
Non avevano mosso che pochi passi, quando una luce accecante li investì,
cogliendoli di sorpresa e il rumore dei passi di una decina di uomini almeno
fece loro capire di essere circondati.
Erano in trappola.
Miss Parker si avvicinò istintivamente ai due ragazzi, stretti l’uno
all’altra e spaventati a morte, puntando la sua 9mm avanti a sé e pensando
convulsamente ma inutilmente a come potesse togliersi da quell’impiccio.
«Butti la pistola Miss Parker. Stavolta non potrà cavarsela» le intimò
Willie oltremodo soddisfatto, tenendola sotto tiro insieme a tutti i suoi
uomini.
La donna squadrò fredda come il ghiaccio il suo ghigno beffardo, prima
di abbassare lentamente il braccio. Non poteva affrontarli tutti da sola,
maledizione! Che cosa era andato storto?!
«Ma guarda che fortuna inaspettata – sibilò a quel punto Cox, facendosi
strada tra gli spazzini visibilmente compiaciuto – Avevo bisogno di un soggetto
per il nuovo programma simulatore e me ne ritrovo addirittura due …molte grazie
Miss Parker!»
«Va all’inferno!» riuscì solo a sibilare lei, cercando di non mostrare
quanto fosse impaurita.
«Pensava davvero di poter uscire di qui con Euclid senza che me ne
accorgessi? – la donna si limitò a lanciargli una truce occhiataccia – Devo
ammettere che sono colpito dal modo in cui ha eluso il mio sofisticato sistema
di sorveglianza…immagino sia stato merito del Sig. Broots, non è così?»
«Broots non c’entra. L’ho praticamente costretto»
«Ma certo - l’apostrofò Cox con palese scetticismo - Tuttavia nemmeno Broots poteva sapere del
nostro nuovo …chiamiamolo antifurto»
«Ma di che diavolo sta parlando?!»
«Del microchip che abbiamo installato dietro la nuca di Euclid – Miss Parker
puntò sull’uomo uno sguardo sconcertato e colmo di disgusto – Il Programma ha
subito troppe perdite in questi ultimi anni. Prima Jarod, poi Gemini e infine
Mirage. Era tempo di trovare una soluzione, non crede? Così possiamo rilevare
in ogni momento la posizione del soggetto»
«I miei complimenti dottore. Ogni volta che penso abbia toccato il fondo
lei mi dimostra che non c’è limite alla sua mancanza di scrupoli e ogni volta
mi stupisco di quanto lei riesca a cadere sempre un po’ più in basso!» esordì a
quel punto Miss Parker con amara ironia.
Cox le rivolse uno dei suoi sorrisi più melliflui.
«Risparmi il suo sarcasmo Miss Parker, in questo momento sono troppo
soddisfatto per prendermela con chiunque…persino con lei»
«Sono commossa!»
«Sì, non poteva proprio andare meglio di così – proseguì quasi
gongolando Cox, ignorando il suo acido commento – Sono finalmente in possesso
dei due soggetti giusti per portare avanti il nostro esperimento»
Kimberly e Jay ebbero entrambi un fremito di terrore alle spalle di Miss
Parker, ma non osarono aprire bocca.
«Nostro..? Possiamo almeno sapere di che si tratta?»
«Di progresso, Miss Parker – replicò incredibilmente eccitato Cox -
Della creazione di un nuovo genere umano, dotato di una mente superiore, una
nuova stirpe che partirà proprio dai nostri due nuovi soggetti»
«Un momento…lei vuole accoppiare questi due ragazzi come si fa
con cani e gatti?! – proruppe la donna interdetta, stentando a credere alle sue
stesse parole – E’ impazzito per caso?!»
«Sapevo che non avrebbe capito»
«Ma con chi crede di avere a che fare?! Con dei topi da laboratorio?! –
inveì ancora lei scioccata - Quelli che lei chiama soggetti sono esseri
umani e lei non ha nessun diritto di…»
Miss Parker non riuscì a terminare la frase. Qualcosa di estremamente
duro, forse il calcio di una pistola, colpì improvvisamente e violentemente la
sua nuca, provocandole una fitta acuta, talmente dolorosa da mozzare il fiato.
Ogni cosa intorno a lei perse poco a poco forma e colore, mentre il suo corpo
cadeva pesantemente a terra, dopodiché tutto divenne buio.
Motel Sunrise – Dover – ore
11:00 p.m.
«Jarod…sei proprio tu» sussurrò
Margaret, la voce rotta dall’emozione, mentre stringeva il figlio in un lungo,
tenero abbraccio.
Quante volte aveva sognato
questo momento. Quella voce così dolce, quel profumo delicato di fiori di
campo… sensazioni mescolate ai ricordi lontani e annebbiati della sua infanzia.
E il sogno era divenuto realtà. Sebbene ancora stentasse a crederlo, le braccia
esili che lo cingevano e il viso incorniciato da folti capelli rossi appoggiato
sulla sua spalla erano davvero quelli di sua madre.
«Ci sono tante cose che vorrei
dirti…chiederti» le disse confuso ma felice, stringendole affettuosamente le
mani.
«Lo so» replicò la donna senza
smettere un attimo di studiare attentamente il figlio, quasi volesse
riappropriarsi in un solo minuto di tutti gli anni in cui avrebbe potuto
vederlo crescere ma che le erano stati rubati.
Dopo qualche istante Margaret
posò uno sguardo incuriosito su Frank, che in disparte osservava perplesso e un
tantino commosso la scena.
«Lei è l’agente Dawson»
realizzò poi.
«Esatto – confermò Jarod –
Frank, ti presento mia madre, Margaret»
«Ma certo…”M”!» esclamò
l’altro.
«Mi deve scusare, ma non ho mai
avuto molta immaginazione» confessò Margaret sorridendogli.
«Avrei dovuto capirlo subito –
aggiunse Jarod – Sei stata tu a mettere Frank sulle tracce del Centro»
«Quando ti vidi a Boston, tre
anni fa, fui certa che non eri più loro prigioniero e che non avrebbero potuto
farti del male, anche se avessero capito che ero io la fonte delle
informazioni. Così mi sentii libera di agire».
Un attimo di silenzio, poi
quelle parole esitanti, quella domanda che non smetteva di ronzargli nella
testa.
«Mamma…tu lavoravi per il
Centro?»
«Sì» ammise lei con aria grave.
«Ma allora perché non dicesti
alla polizia dove cercare me e Kyle visto che sapevi benissimo dove fossimo
finiti?!» chiese ancora lui, incapace di nascondere rabbia e delusione.
La donna lo fissò con infinita
tristezza, poi gli voltò le spalle, senza dire nulla.
«Come hai potuto permettere a
quella gente di..?!»
«Non era così semplice - si
difese a quel punto Margaret, volgendosi di nuovo verso il figlio, con aria
contrita – Non lo è nemmeno adesso»
Jarod e Frank la fissarono
entrambi costernati, senza riuscire a capire e la donna trasse un profondo
sospiro.
«Forse è giunto il momento che
vi racconti tutta la verità» esordì poi rassegnata, sedendosi sul letto e
facendo cenno al figlio di prendere posto accanto a lei.
«Avevo poco più di vent’anni
quando iniziai a lavorare per quello che credevo fosse un avanzato istituto di
ricerche, votato al progresso scientifico per il bene dell’umanità – iniziò a
raccontare con voce flebile – L’ufficio a cui venni assegnata svolgeva una funzione
di controllo etico-morale sui progetti proposti dai vari gruppi di ricerca
prima di autorizzarne il finanziamento e a capo di quest’ufficio c’era una
persona straordinaria…»
«Catherine Parker» intuì Jarod.
«Sì. Era bello lavorare con
lei. Credeva fermamente in quello che faceva e svolgeva il suo compito con
profonda dedizione. A quel tempo riponeva ancora tutta la sua fiducia nel
Centro, pensate che fu proprio lei a parlarmi della Nugenesis quando le
confidai che, pur desiderando tanto un figlio non riuscivo a rimanere incinta»
Margaret si lasciò sfuggire una
smorfia di amaro rimpianto.
«Ero già al quarto mese di
gravidanza quando scoprii la verità e ricordo bene quel giorno, come se fosse
ieri. Mi trovavo nell’ archivio del cartaceo, a cercare vecchi documenti per
Catherine, un seminterrato tetro e polveroso, in cui raramente incontravo altri
colleghi. Ero lì da circa mezz’ora quando quei due uomini entrarono. Non si
erano accorti della mia presenza quindi iniziarono tranquillamente a parlare,
così riconobbi le voci: erano il Sig. Matumbo, allora semplice membro del
consiglio di amministrazione e il Dr. Raines. Catherine non aveva particolare
simpatia per loro, il suo intuito le diceva che erano entrambi troppo ambiziosi
e poco interessati al benessere del genere umano. Quel giorno ebbi la certezza
che non si sbagliava».
Margaret si interruppe, come
per raccogliere le idee. Jarod e Frank fremevano per conoscere il seguito della
storia, ma attesero pazienti in silenzio, finché la donna non riprese il racconto.
«Matumbo rivelò che presto
avrebbe ottenuto il controllo del Centro per conto di qualcosa che chiamò
“Triumvirato” e che i Parker non avrebbero creato problemi. Questo Triumvirato
era a capo di un’organizzazione ombra, che agiva a livello globale con un
ambizioso piano a lungo termine, i cui membri erano gente potente e senza
scrupoli, ma Matumbo li teneva tutti in pugno, perché aveva registrato i nomi
di ognuno di loro in una lista, di cui lui solo conosceva il nascondiglio.
Matumbo voleva fare del Centro un laboratorio nel quale sviluppare i mezzi per
realizzare il suo piano, un piano in cui Raines avrebbe potuto avere un ruolo
fondamentale, se fosse stato disposto a collaborare. Vi rendete conto? Era…era
pazzesco! Quell’uomo stava parlando impassibile di un complotto per controllare
il mondo così, come si progetta l’acquisto di una nuova auto! Ero talmente
scioccata da non poter quasi respirare…e questo non era ancora tutto»
«A quel punto arrivò la
risposta di Raines» intuì Jarod.
«Già. Raines fu ben lieto di
accettare la proposta e illustrò a Matumbo il suo progetto segreto, che stava
prendendo forma alla Nugenesis, Prodigio. Gli disse delle schede rosse e
della selezione genetica volta alla creazione una nuova razza di individui che
chiamò simulatori, vale a dire persone capaci di fare qualsiasi cosa.
Gli spiegò come, una volta cresciuti, intendesse sottrarre i bambini alle loro
famiglie affinché l’organizzazione di Matumbo potesse servirsene per i propri
scopi. Era mostruoso…capii che Raines aveva usato anche me per il suo
esperimento e che mi avrebbe portato via il mio bambino per usarlo come una
cavia da laboratorio. Ero così sconvolta e terrorizzata da non riuscire a
muovermi»
Jarod le prese istintivamente
le mani e Margaret lo guardò sorridendogli teneramente.
«Sai, fu proprio in quel
momento che ti sentii scalciare per la prima volta – gli rivelò – Fu
un’emozione fortissima che mi scrollò improvvisamente di dosso la paura e mi
fece capire cosa dovevo fare. Lasciai cadere tutti i fascicoli che avevo in
mano e corsi fuori dal seminterrato veloce come un razzo, così loro si
accorsero che ero lì, anche se sul momento non capirono chi fossi perché era
troppo buio. Credo siano stati certi dell’identità di chi li aveva spiati solo
quando non mi ripresentai al lavoro, ma allora fu troppo tardi. Avevo detto a
tuo padre che mi ero licenziata perché avevo scoperto transazioni finanziarie
poco pulite al Centro e lo avevo convinto a trasferirci altrove quel giorno
stesso»
«E non dicesti nulla a
Catherine?»
«Dopo le parole di Matumbo, non
ero certa di potermi fidare di lei. E poi in quel momento volevo soltanto
fuggire il più lontano possibile da Blue Cove per proteggere il mio bambino»
«Ma purtroppo ci trovarono
comunque» commentò amaramente Jarod.
«Devi credermi Jarod, in tutti
questi anni non ho fatto che cercare il modo per salvare te e Kyle ma non
sapevo come! – replicò accorata Margaret - E’ vero, quando ti portarono via non
dissi nulla alla polizia, né a tuo padre, ma decisi di rivolgermi all’unica
persona che forse avrebbe potuto aiutarmi»
«Catherine»
Margaret assentì.
«Purtroppo non le fu dato mai
di sapere dove fosse finito Kyle, però riuscì a trovare te e mi promise che ti
avrebbe salvato, come aveva già fatto con altri bambini rapiti dal Centro. Ma
qualcosa sconvolse il suo piano: scoprì di essere stata usata per un nuovo
progetto del Centro»
«Ethan»
«Sì. Catherine dovette
inscenare la propria morte per sottrarre se stessa e il bambino, il futuro
progetto Mirage, dal controllo del Centro e di Mr. Parker…ma non capirò
mai perché decise di fidarsi di quel serpente!»
«Raines, che finì per tradirla
e ucciderla»
«Ero disperata. Avevo
rinunciato a tutto, avevo dovuto lasciare prima tuo padre e in seguito anche Emily
per non metterli in pericolo. Avevo deciso di fidarmi di Catherine, le avevo
raccontato tutto, ma poi anche lei…»
«Sei stata tu a dire a
Catherine della lista» intuì Jarod.
«Sì e per questo lei è stata
uccisa – mormorò addolorata Margaret – Ma non potevo rivolgermi alla polizia,
né a nessun altro, perché temevo che facessero del male a te a Kyle»
«Ora capisco tutto – realizzò a
quel punto Jarod con un amaro sorriso – Finalmente so perché dopo cinque anni
dalla mia fuga ancora mi cercano. Non perché sono il migliore dei loro
simulatori, ma perché sanno che tenendo in pugno me possono controllare anche
te»
La donna di nuovo annuì.
«Sfortunatamente, anche
sapendoti al sicuro non ho potuto fare molto – seguitò - Dopo la morte di
Catherine mi ritrovai in un vicolo cieco, ma continuai comunque ad indagare. Mi
ci sono voluti quasi trent’anni per mettere insieme tutte le informazioni che
poi ho fornito all’agente Dawson, ma per quanto schiaccianti, quelle prove non
ci permetterebbero nemmeno di arrivare in tribunale, perché…»
«…perché il Centro ha agganci
troppo potenti» terminò Jarod.
«E ha tentacoli ovunque»
«Per questo mi fece promettere
di non parlare a nessuno del caso - intervenne a quel punto Frank – Ma come mai
si fidò proprio di me?»
«Sapevo che non mi avrebbe
tradita, perché anche suo figlio era stato rapito dal Centro»
«Insomma la nostra unica
speranza sarebbe smascherare l’intero complotto, cioè trovare la lista» osservò
Jarod.
«So che Catherine la cercò a
lungo e sono anche convinta che avesse scoperto qualcosa, ma non fece in tempo
a parlarmene»
«Probabilmente Raines finse di
volerla aiutare solo per carpirle informazioni sulla lista, per usarle al
momento giusto contro Matumbo e la sua organizzazione»
«Ma sfortunatamente anche
Raines è morto – commentò deluso Frank – E anche ammesso che fosse riuscito ad
ottenerle, non può più rivelarci quelle informazioni»
«E’ vero, però…» esordì
Margaret, ma poi esitò.
«Però..?» chiesero all’unisono
gli altri due.
«D’accordo, tanto vale che vi
dica anche questo – continuò la donna - Poco tempo dopo la morte di Catherine
trovai una lettera nella casella fermo posta che utilizzavamo per comunicare.
Dentro la busta c’era soltanto un biglietto con una strana frase. Non so cosa
significhi, ma credo che sia importante se lei ha fatto in modo che l’avessi»
«Dov’è quel biglietto mamma?»
chiese Jarod speranzoso.
Margaret allungò la mano verso
la sua borsetta, ma non fece nemmeno in tempo a sfiorarla, perché proprio in
quel momento la porta si aprì di botto e una squadra di spazzini fece
irruzione, occupando rapidamente la stanza, le armi minacciosamente spianate
contro di loro.
“Mantieni la calma” si diceva
Jarod, studiando freddamente la situazione: tre uomini li tenevano sotto tiro,
uno presidiava la finestra, un secondo sorvegliava di sicuro quella del bagno e
altri due erano alla porta d’ingresso: li avevano colti di sorpresa
maledizione! Non c’era più modo di reagire, non gli restava che alzare
riluttante le mani in segno di resa e guardare impotente mentre Mr. White, con
un ghigno soddisfatto stampato sul volto spietato, disarmava sia lui che Frank.
«Ma guarda guarda…che tenero
quadretto familiare!»
Prima ancora di volgere lo
sguardo all’entrata, Jarod sapeva di chi fosse quella battuta carica di
sarcasmo.
«Lyle…non ti aspettavamo»
replicò a sua volta ironico.
«Oh ne sono certo. Ma, vedi,
tua madre e il tuo amico dovrebbero stare più attenti quando giocano con la
loro mailbox. E’ stato fin troppo facile stanarli!»
A quelle parole, Margaret emise
un sospiro, che voleva dire “sapevo che sarebbe successo”, mentre Frank serrava
la mascella, profondamente in collera con se stesso per la propria imprudenza.
«Sarà un vero piacere
riportarti al Centro in così buona compagnia» aggiunse esultante Lyle, facendo
cenno agli uomini di ammanettare i prigionieri.
«E se declinassi l’invito?»
obiettò deciso Jarod.
«Non credo ti convenga, perché…
- replicò l’altro in un artefatto tono colloquiale, le mani affondate con
affettata noncuranza nelle tasche, un sorrisetto ipocrita stampato sulle labbra – Vedi, parlandoci chiaro, al Centro
interessi soltanto tu. Quindi non mi porrei il minimo problema a far fuori il
nostro impavido agente Dawson e persino la tua dolce mammina, se è questo che
devo fare per farti collaborare - a quelle parole, Jarod suo malgrado impallidì
– Sai che lo farei, non è vero..? D’altra parte ho già ammazzato tuo fratello»
«Sei un essere spregevole, un
lurido verme…ma non la passerai liscia!» sbottò a quel punto il simulatore, cedendo
per un attimo all’ira e alla sua latente sete di vendetta, mentre Mr. White gli
stringeva le manette ai polsi.
«Oh io credo proprio di sì.
Ormai non puoi più fermarmi. Avresti dovuto uccidermi tempo fa, sui Monti
Appalachi, quando ne hai avuta l’occasione! – rispose l’altro fronteggiandolo
con aria trionfante – Li porti alla macchina, White»
Questi annuì, spingendo i tre
prigionieri verso l’uscita senza tanti complimenti, mentre gli uomini
continuavano a tenerli sotto tiro.
«Andiamo Jarod, si torna a
casa» sibilò poi compiaciuto.
Procedendo a lunghi passi, in
un silenzio opprimente, raggiunsero il parcheggio deserto. Si trovavano ormai
in prossimità delle inconfondibili berline nere del Centro quando gli spazzini
che scortavano i prigionieri si accasciarono improvvisamente e inspiegabilmente
al suolo, uno dopo l’altro, emettendo uno smorzato gemito di dolore. Fu
questione di una manciata di secondi: Jarod, Margaret e Frank ancora si
guardavano l’un l’altro stupiti, chiedendosi cosa fosse successo, mentre tre
figure vestite di nero dai volti coperti emergevano furtivi dall’oscurità,
puntando i loro fucili contro Lyle e Mr. White, che furiosi e sconcertati, si
arresero ai nuovi arrivati.
Jarod si appressò alla madre,
pensando istintivamente a proteggerla e cercando di intuire che intenzioni
avessero i tre individui, visto che uno di questi si stava pericolosamente
avvicinando a loro.
Senza dire una parola, l’uomo
prese Margaret per il braccio e l’attirò a sé.
«Hei!» fece per inveire Jarod,
salvo poi rendersi conto che l’altro stava soltanto togliendole le manette.
Ancora silenzio. La tensione
era quasi palpabile. Poi quella voce gli tolse ogni dubbio.
«Va tutto bene signora?»
«Charles - mormorò Margaret
ancora un tantino spaventata – Oh Charles…non posso crederci…sei davvero tu!»
esclamò buttandogli le braccia al collo.
«Sì tesoro – disse il Maggiore
togliendosi il passamontagna per baciare la moglie – E tu? Tutto bene
figliolo?» chiese poi prima di liberare anche Frank e Jarod.
«Papà, non sono mai stato tanto
felice di vederti! – esclamò questi sollevato, poi accennando ai corpi stesi a
terra – Ma quegli uomini sono..?»
«No, sta tranquillo. Stanno
solo dormendo»
«Come hai fatto a..?»
«…a sapere che eri nei guai?
Bè, è merito suo» disse il Maggiore indicando uno dei suoi compagni, che, dopo
aver legato ben bene Mr. White, si tolse a sua volta il cappuccio.
«Ethan!»
«Qualcosa mi diceva che
avevi bisogno d’aiuto, così ho chiesto rinforzi!» spiegò questi sorridendo.
Infine anche il terzo membro
del gruppo, che teneva sotto tiro un Lyle dall’aria sempre più astiosa, mostrò
il proprio volto.
«Emily!»
esclamò sbalordito Jarod.
«Ciao fratellone..! A terra
tu!» intimò poi al suo prigioniero, chinandosi su di lui per legargli i polsi.
A quel punto Margaret non seppe
più trattenere le lacrime. Anche se in cuor suo non aveva mai smesso di
sperare, stentava a credere che tutta la sua famiglia si fosse finalmente
riunita dopo tanti anni.
«Piccola mia…» riuscì appena a
dire, la voce soffocata dall’emozione e dal pianto.
«Ciao mamma…» sussurrò commossa
Emily, ricambiando lo sguardo affettuoso della madre.
Ma Lyle non mancò certo di
approfittare di quell’attimo di distrazione. Con uno scatto gettò la ragazza a
terra e si precipitò al volante dell’auto più vicina, mise in moto e si
allontanò a folle velocità, in un assordante stridio di gomme, di certo diretto
ad un elicottero o ad un aereo che lo avrebbe riportato al Centro.
Jarod era già balzato alla
guida della seconda berlina, più che mai intenzionato a riacciuffarlo, ma…
«No aspetta Jarod» lo fermò
deciso Ethan.
«Cosa?! Non vorrai che lo lasci
andare!» protestò irritato l’altro.
«Ti occuperai di lui più tardi,
tanto non riusciresti a raggiungerlo. E poi ora non c’è tempo»
«Ma che stai dicendo?!»
«Devi correre subito al Centro.
Miss Parker e Jay sono nei guai»
Il Centro, Blue Cove – Ala
Rinnovamento – ore 00:55 a.m.
Tutto era buio intorno a lei
quando udì di nuovo quel grido, la disperata richiesta d’aiuto di un ragazzino,
una voce del suo passato che conosceva bene, ma…era di nuovo nel suo incubo
oppure nella realtà?
Nel torpore di un confuso
dormiveglia, lei lo chiamò a sua volta: «Jarod..?»
«Miss Parker svegliati!» gridò
ancora la voce.
Seguendola, la donna percorse
nuovamente quel corridoio buio, dalle pareti scure, che parevano muoversi e
volerle piombare addosso per afferrarla. Poi, oramai infondo al tunnel,
intravide una debole luce: le grida provenivano da laggiù, insieme al battito
dapprima smorzato ma via via sempre più forte di un orologio a pendolo…doveva
fare in fretta, il tempo stava per scadere…
«Miss Parker ti prego apri gli
occhi!» urlò ancora quella voce di adolescente.
La donna si precipitò allora
incontro alla luce, verso l’uscita e finalmente si svegliò. La testa le doleva
terribilmente e ci mise un po’ a capire dove fosse: una stanza vuota e
asettica, dalle pareti metalliche, illuminata da una luce al neon che pareva
provenire da ogni direzione. Non c’erano dubbi, si trovava da qualche parte al
Centro.
«Miss Parker mi senti?!»
continuava a
gridare il giovane Jarod…cioè…un momento…quella voce era di Jay!
«Sì…sì…ti sento - borbottò
finalmente lei – Che diavolo è successo?»
«Willie ti ha dato una botta in
testa e ci hanno rinchiusi qui dentro – spiegò concitato il ragazzo - E hanno
portato Kimberly in laboratorio…e tra un po’ verranno a prendere anche me! Quel
pazzo di Cox diceva che è il momento giusto…Miss Parker, dobbiamo fare
qualcosa!!!»
«Ora calmati e lasciami
pensare!» lo zittì decisa.
Il ragazzo era fuori di sé per
l’angoscia e la paura e ne aveva tutte le ragioni. Era legato mani e piedi ad
un tavolo d’acciaio con robusti anelli metallici, proprio come lei. Doveva
trovare un modo per liberare entrambi e poi per uscire da quella stanza, anche
se immaginava che non sarebbe stato facile, visto che non c’erano altre vie
d’uscita oltre la porta, che sicuramente aveva una serratura elettronica.
Maledizione! Se almeno avesse
avuto il suo cellulare…e il trasmettitore, chissà se funzionava ancora? Ah se
solo avesse potuto mettersi in contatto con Broots…o con Jarod…anzi no! Jarod
non doveva mettere più piede al Centro, soprattutto ora che il suo dannato
incubo sembrava avverarsi. A proposito, nel suo sogno a quel punto Jay sarebbe
dovuto sparire, però…oh no…un’idea, forse un presentimento le raggelò il sangue
nelle vene, ma non ebbe nemmeno il tempo di preoccuparsene, perché
all’improvviso la porta si aprì e Lyle entrò, seguito da due nerboruti
assistenti di Cox, scortati da Willie. La coppia di energumeni prese Jay e lo
trascinò via, incurante del disperato dibattersi e delle grida strazianti del
ragazzo: «No..! Lasciatemi..! Aiuto Miss Parker..!»
La donna chiuse gli occhi e
strinse i pugni, resistendo strenuamente all’incontenibile desiderio di
piangere e gridare a sua volta. Aveva fallito, fallito miseramente. Non solo
non era riuscita a salvare Kimberly, ora anche Jay era di nuovo nelle grinfie
del Centro ed era stata lei permettere che accadesse, ma a quel punto non
poteva fare più nulla. Non sopportava di sentirsi così impotente, però mai e
poi mai si sarebbe mostrata sconfitta e affranta proprio di fronte a Lyle, che
la stava fissando con aria beffarda, la mano destra priva del pollice nascosta,
come al solito con nonchalance nella tasca.
«Dovevo immaginare che anche tu
fossi coinvolto in questa squallida faccenda» l’accusò infatti, squadrandolo
spavalda.
«Perché non dovrei esserlo? –
replicò per le rime l’altro – Come sicuramente già sai, il direttore del Centro
ha dato la sua piena approvazione a questo progetto»
«Può darsi, ma non penso che
approverebbe anche la reclusione della sua stessa figlia»
«Uhm…forse no. Ad ogni modo io
ho in mente ben altro»
Lyle aveva negli occhi lo
sguardo crudele del gatto che gioca col topo prima di azzannarlo, probabilmente
la medesima, perversa espressione che assumeva quando stava per uccidere in
modo efferato una delle sue sfortunate vittime dai tratti orientali. Quello
sguardo, suo malgrado, la spaventò a morte.
«Ora basta! Fammi uscire subito
di qui!» gli disse in un tono che avrebbe voluto essere intimidatorio.
«E rinunciare a tutto il
divertimento? – ribatté beffardo l’altro. I suoi piani per Jarod erano sfumati,
con lei sarebbe stato diverso – Ma se ho persino dovuto correre per poter
arrivare in tempo!»
«In tempo per cosa?»
«Le vedi quelle bocchette Miss
Parker? – seguitò Lyle. Lei lanciò un’occhiata alle piccole feritoie che
correvano lungo la parete, tutto intorno al perimetro della stanza – Servono a
far circolare aria, ma coi dovuti accorgimenti possono immettere in questa
stanza anche…che so… un gas tossico»
Un agghiacciante brivido di
terrore le corse lungo la schiena, ma le riuscì di non tremare. Quello
psicopatico aveva davvero intenzione di eliminarla e nessuno lo avrebbe
fermato.
«Credevo che le camere a gas
fossero passate di moda dopo l’ultima guerra» osservò tuttavia Miss Parker,
ostentando un improbabile aplomb.
«Sfrontata fino alla fine! –
commentò Lyle con una punta di stizza nella voce – Ma suppongo tu non voglia darmi
la soddisfazione di mostrarti almeno un po’ impaurita, vero?»
«Papà ti farà a pezzi quando lo
saprà – provò a minacciarlo lei, in un ultimo, disperato tentativo di salvarsi
la vita - Sono proprio curiosa di
sapere come ti giustificherai stavolta»
«Un malaugurato incidente»
disse lui alzando le spalle indifferente.
«Andiamo, non penserai davvero
che ci crederà!»
«Già, probabilmente hai ragione – convenne l’altro con affettata
apprensione - Certo lui si arrabbierà moltissimo e ci starà male per un po’…ma
poi si riprenderà. Infondo è riuscito a superare anche la morte di Catherine,
no?»
“Maledetto bastardo!” pensò per
l’ennesima volta Miss Parker riferendosi al fratello. Era davvero deciso ad
andare fino in fondo e purtroppo lei non era in grado di impedirglielo. Però
poteva almeno prendere tempo…
«Perché?» gli domandò a
bruciapelo, guardandolo dritto negli occhi.
«Cosa?»
«Perché lo stai facendo? Voglio
dire, non ci siamo certo mai amati come fratello e sorella, ma vorrei tanto
sapere cosa ti ha spinto ad arrivare ad uccidermi»
«Davvero non lo immagini?»
«Se così fosse non te lo
chiederei. Sai quanto detesto le chiacchiere inutili»
Lyle, ammutolito, distolse lo
sguardo da quello della donna, lasciandosi sfuggire un sorrisetto sardonico, ma
infondo un po’ amaro.
«Perché lo faccio? Bè, ci sono
varie ragioni – esordì poi in tono tagliente, prendendo a passeggiare su e giù
per la stanza – Perché non sopporto la tua altezzosità e l’aria di sufficienza
con cui mi hai sempre guardato dall’alto in basso, perché tutti ti reputano
assai più dotata di me, perché persino nostro padre tiene molto più a te che a
me…perché io sarei potuto essere al tuo posto e tu al mio»
«Ma che stai dicendo?» mormorò
Miss Parker sbalordita, iniziando ad intuire quali fossero i suoi pensieri.
«Non è forse così? Abbiamo
avuto gli stessi genitori. La stessa donna ci ha messi al mondo lo stesso
giorno, alla stessa ora, sotto la medesima stella. Eppure le nostre sorti sono
state molto diverse»
«Non sono stata io a volerlo»
«Ma tu sei quella che ne ha
tratto maggior vantaggio»
«Vantaggio?! Ma fammi il
piacere!»
«A te sono toccate una bella
casa, scuole di prim’ordine e una madre amorevole, che ha saputo proteggerti
dal Centro. A me invece sono toccati i Bowman, un’esistenza squallida e gli
esperimenti psicologici di Raines»
Miss Parker lo fissò a lungo
sconcertata: il tormento dietro la durezza del suo sguardo, la smorfia aspra
della sua bocca, nascosta dietro un sorriso cinico. Era pieno di risentimento,
si sentiva una vittima…anzi, probabilmente lo era davvero, si disse la donna e
per un attimo ebbe pietà di lui. Ma non poteva dimenticare che quella vittima
era diventata il suo carnefice.
«Non è così semplice Lyle –
esordì pacata. Se proprio doveva morire, almeno lo avrebbe fatto dopo avergli
detto in faccia tutto ciò che pensava di lui - Tu non sei stato l’unica vittima
del Centro. Tanti altri lo sono stati, come Jarod, Angelo o Kyle. Ma nessuno di
loro è diventato come te»
«Che vuoi dire?»
«Ma guardati! – l’apostrofò con
sarcasmo - Stai per uccidere tua sorella e non esisteresti a fare lo stesso con
nostro padre o con chiunque altro ostacolasse il tuo cammino. Credi davvero che
l’avere avuto una sorte diversa avrebbe cambiato quello che sei?»
«E tu credi che mi piaccia
essere quello che sono?! - proruppe rabbiosamente lui – Non ho scelto io di
diventare così, è stata la vita che ho fatto, la vita che avrebbe potuto essere
tua!»
«Il povero innocente traviato
da un mondo corrotto…scusa se non mi commuovo!»
«Tu non puoi capire. E come
potresti? – replicò duramente lui – Tu hai avuto tutto, hai avuto ciò che
poteva essere mio, sei ciò che io sarei potuto essere. E comunque al posto tuo
non farei tanto la santarellina! Te l’ho già detto, non sei affatto migliore di me. Tu sei esattamente come me, hai solo
avuto più fortuna»
«Può darsi, ma è assurdo che tu
stia incolpando me per…»
«Te, il destino…che differenza
fa? L’importante è che finalmente qualcuno pagherà»
«Quello che dici non ha senso!
E’ vero, il destino, o chi per lui, ti
ha allontanato dalla tua famiglia, ma non è certo stato il destino a farti
diventare ciò che sei. Di questo devi incolpare solo te stesso»
«No non è vero! – esclamò
d’impulso Lyle, con la voce stridula e furente di chi nega consapevolmente l’evidenza.
Poi riacquisì l’autocontrollo - E’ ora di pareggiare il conto e riprendermi ciò
che mi è stato rubato – dichiarò con flemmatico cinismo – E’ ora di toglierti
di mezzo, Miss Parker»
Così dicendo le volse le spalle
e si incamminò verso l’uscita.
«Lyle non puoi farlo..!
Lyle!!!» gridò disperatamente la donna.
Lui si fermò…fece per
girarsi…ma poi cambiò idea.
«Addio sorellina»
La porta si richiuse dietro di
lui con un lieve fruscio e poco dopo un vapore denso, che sapeva di zolfo
iniziò ad uscire dalle bocchette, invadendo la stanza lento e minaccioso.
Presto sarebbe stata la fine.
Blue Cove, in una strada
isolata e deserta, non lontana dal Centro – ore 01:15 a.m.
La vecchia Ford posteggiata
segnalò tre volte coi fari, come stabilito poco prima al telefono e le due
berline, che stavano avanzando lente, a breve distanza l’una dall’altra lungo
la strada buia, arrestarono il motore accanto all’auto già ferma.
Da questa scesero Sydney e
Broots per andare incontro ai nuovi arrivati, che stavano uscendo dagli
abitacoli.
I loro occhi erano cerchiati,
causa il sonno mancato, i volti tirati per l’ansia che da ore li consumava.
«Dov’è Miss Parker? – chiese
Jarod senza preamboli e senza nemmeno dar loro il tempo di meravigliarsi per la
presenza della sua famiglia al completo – Sto provando a chiamarla da oltre
un’ora, ma al cellulare non risponde»
«Bè…ecco… - farfugliò esitante
Broots – E’ entrata nel SL-27 per cercare Kimberly…»
«Chi è Kimberly?»
«Kimberly Lawrence è il nuovo
soggetto di Cox che il Centro ha rapito – chiarì Sydney – Ed è anche un’amica
di tuo fratello Jay, ecco perché lui è venuto qui ieri sera»
«Dov’è ora Jay?»
«Non ne ho idea – replicò il
dottore, scuotendo preoccupato il capo – Doveva rimanere a casa di Miss Parker,
ma veniamo ora da là e di lui non c’era traccia»
«Quell’incosciente deve aver
seguito Miss Parker al Centro»
«C’è dell’altro – aggiunse
Broots - Purtroppo credo che qualcosa sia andato storto. Ho perso ogni contatto
con lei da più di due ore»
«Maledizione! – sbottò allora
Jarod nervosamente, in preda all’inquietudine più che alla collera - Ma come le
è venuto in mente di..?!»
«Però so esattamente dov’é –
cercò goffamente di rabbonirlo il tecnico – Miss Parker ha un trasmettitore
nascosto in un bottone della giacca, grazie al quale ho potuto seguire tutti i
suoi movimenti. In questo momento si trova nell’Ala Rinnovamento» concluse
mostrando il segnale sul monitor del suo portatile.
«Devi sbrigarti Jarod –
intervenne a quel punto Ethan – Non c’è più molto tempo…lei…lei sta soffocando…»
A quelle parole, sempre più
angustiato, Jarod avrebbe voluto prendere a pugni il mondo intero, ciò
nonostante riuscì a dominarsi e a ritrovare la sua proverbiale lucidità.
«Frank devi far intervenire la
polizia e fare irruzione al Centro» esordì deciso.
«Ma come? – replicò stupito
questi - Non abbiamo sempre detto che..?»
«Lo so, è un rischio. Ma
Kimberly Lawrence si trova là dentro contro la sua volontà, questo basterà per
accusarli di rapimento e nel frattempo speriamo di trovare quella dannata
lista»
«D’accordo. Tu che farai?»
«Devo correre da Miss Parker,
prima che sia troppo tardi»
«Non puoi andare da solo»
«E tu non puoi venire con me.
Devi restare qui e occuparti della polizia»
«Verrò io con te» si offrirono
all’unisono Ethan e il Maggiore Charles.
«E anch’io» fece loro eco una
voce di donna.
«Emily…»
«Non ci provare Jarod! – lo
interruppe brusca la ragazza – C’è mio fratello là dentro»
L’altro sospirò scuotendo il
capo.
«Sentite…apprezzo molto la
vostra offerta, ma non potete venire con me – cercò di dissuaderli – I sistemi
di sicurezza sono capillari e molto avanzati – proseguì senza dar loro il tempo
di ribattere – Da solo darò meno nell’occhio. Non voglio mettere in allarme
tutte le squadre del Centro prima dell’arrivo della polizia»
«E’ troppo rischioso» obiettò
il Maggiore, anche se quasi persuaso a non accompagnare il figlio.
«Lo è sempre stato – replicò
Jarod, poi si rivolse a Broots - Io e te resteremo in contatto – il tecnico
annuì – Dovrai guidarmi fino a Miss Parker»
«Come farai ad entrare?» gli
chiese Emily.
«Nel solito modo» rispose lui
allusivo, col solito sorrisetto sornione.
Il Centro, Blue Cove – Ala
Rinnovamento – ore 01:35 a.m.
L’aria era ormai satura di gas,
ogni fibra del suo essere già ebbra della sostanza tossica, che provocava al
suo cervello e al suo corpo spaventose allucinazioni: il pavimento sussultava
sotto di lei, la porta della stanza era improvvisamente sparita, inghiottita
dalle pareti, che avevano preso lentamente ad avvicinarsi, mentre il soffitto
si abbassava sempre più…e la sensazione di soffocamento, quella era
terribilmente reale.
La donna si dibatteva, gridando
in preda al panico, mentre sentiva i muri ed il soffitto a pochi centimetri
appena di distanza dal proprio volto, ancora qualche secondo e l’avrebbero
schiacciata…respirare era sempre più difficile …impossibile…credeva ormai di
essere spacciata, quando Jarod si materializzò accanto a lei, la liberò dagli
anelli metallici e la trascinò fuori di peso da quella trappola mortale.
Miss Parker aveva da poco perso
i sensi quando Jarod la depose a terra e controllò ansioso i suoi segni vitali:
respirava appena ed il polso era molto debole, ma dopo qualche istante iniziò a
tossire violentemente. Si sentiva la gola riarsa e il naso le prudeva in modo
quasi insopportabile, però poter finalmente immettere aria nei propri polmoni
era comunque un enorme sollievo.
«Così…coraggio tesoro respira!»
la spronò lui, mentre coi sensi in costante allerta, non smetteva di guardarsi
attorno circospetto, temendo che da un momento all’altro la vigilanza li
scoprisse.
«Non dovevi venire qui – disse
lei quando infine riaprì gli occhi e lo guardò con aria smarrita, ancora
intontita dal gas, ripetendo in modo sconclusionato una sorta di copione
imparato a memoria – Hai rischiato troppo e io non merito tanto…»
«Ma che stai dicendo?» la zittì
lui stringendola teneramente a sé.
«Io…»
Lei si abbandonò istintivamente
tra le sue braccia, assaporando di nuovo il piacevole contatto, il calore del
suo corpo, finché la lucidità non si rimpossessò del suo cervello, riportandole
alla mente gli ultimi terribili avvenimenti che aveva vissuto.
«Oh no Jay e Kimberly! – esordì
allarmata staccandosi da lui - Li hanno portati in laboratorio. Dobbiamo
trovarli prima che sia troppo tardi e li facciano accoppiare come due
porcellini d’india!»
«Quale laboratorio?» chiese
l’altro, aiutandola ad alzarsi.
«Non ne ho la più pallida idea
– rispose lei continuando a tossicchiare - Ma forse Sydney lo sa»
Jarod afferrò il cellulare :
«Broots passami Sydney presto!»
Lo psicologo rifletté qualche
secondo, poi indicò loro una stanza del SL27 non lontana da quella dove
Kimberly era tenuta prigioniera.
«La polizia sta per fare irruzione
– li avvisò poi – Siate prudenti»
«Grazie Sydney» gli disse il
simulatore prima di chiudere.
«La polizia?» esclamò
sbalordita la donna.
«Muoviamoci – replicò l’altro
accennandole di seguirlo – Ti spiego tutto strada facendo»
Così, mentre correndo contro il
tempo avanzavano svelti lungo il corridoio fino all’ascensore, attenti a non
farsi notare dagli uomini di guardia, Jarod raccontò ad un’esterrefatta Miss
Parker di “M” che in realtà era Margaret, della trappola di Lyle e White, di
come la sua famiglia lo avesse salvato e della decisione di far intervenire la
polizia.
In pochi minuti raggiunsero
senza intoppi il SL27 e trovarono il laboratorio indicato da Sydney: la porta
non era sorvegliata, ma protetta da un codice d’accesso, che i due individuarono
facilmente grazie all’aiuto di Broots.
Armi in pugno irruppero nella
stanza, dove Lyle e Willie osservavano impassibili mentre Cox, con l’aiuto dei
suoi nerboruti aiutanti, legava Jay e Kimberly, ammutoliti e terrorizzati, ad
un tavolo operatorio.
«Lasciateli!» ordinò perentorio
Jarod, puntando la sua pistola contro il dottore, che certo non gradì la
sorpresa.
Lo sguardo dei due ragazzi si
illuminò di speranza, ma nessuno di loro osò dire una parola.
«Miss Parker?!» proruppe invece
Lyle, fissando la donna quasi scioccato.
«Non fare quella faccia, fratellino
– l’apostrofò ironica lei – Malgrado tutti i tuoi sforzi non sono ancora
diventata un fantasma!»
Willie e i due assistenti si
erano intanto affrettati ad estrarre le loro armi e rivolgerle minacciosi
contro i nuovi arrivati.
«Voi siete due e noi cinque: la
matematica è decisamente dalla nostra parte» sentenziò Cox sorridendo
mellifluo.
«La matematica può essere
ingannevole, dottore – replicò Jarod senza scomporsi – Forse ancora non lo
sapete, ma la polizia ha fatto irruzione al Centro circa dieci minuti fa»
«E’ impossibile» asserì
l’altro, impallidendo suo malgrado.
«Sciocchezze!» di rimando Lyle,
assai meno sicuro di quanto volesse apparire.
«Se ne siete convinti, perché
non chiamate la vigilanza?» suggerì loro Jarod in tono irrisorio.
Seguitando a tenere sotto tiro
gli avversari, Willie si precipitò allarmato al telefono e compose svelto il
numero: uno squillo, due, tre…dieci…nessuna risposta.
«Che siano tutti in pausa
caffè?» incalzò beffardo il simulatore, mentre un’espressione di puro panico si
dipingeva poco a poco sui volti dei cinque uomini.
«Vi conviene arrendervi – disse
allora Miss Parker - Tra poco i nostri saranno qui e finalmente vi
sbatteranno tutti dove meritate di stare: a marcire in un carcere di massima
sicurezza»
Nessuno ebbe il tempo di
replicare o aggiungere altro. Una squadra di agenti armati, protetti da casco e
giubbotto antiproiettile, invase a quel punto il laboratorio, intimando a tutti
di non muoversi e di buttare le pistole.
Era davvero l’epilogo.
Jarod e Miss Parker poterono
finalmente liberare i due prigionieri, ancora scossi ma sollevati.
«Cominciavo a credere che non
sareste mai arrivati» confessò il ragazzo.
«Mai dubitare della tua
famiglia, Jay» lo ammonì bonariamente il fratello, rivolgendogli uno sguardo
carico di sottintesi.
«Non lo farò più, te lo
prometto»
«E’ tutto finito Kimberly, sta
tranquilla – diceva intanto Miss Parker, rincuorando affettuosamente la
ragazzina in lacrime – I tuoi genitori stanno venendo a prenderti»
«Avanti, andiamocene di qui»
propose Jarod, guidando tutti verso l’uscita, proprio quando due agenti si
accingevano a condurre fuori Lyle, già in manette.
Miss Parker e il fratello si
fronteggiarono in un silenzioso duello di sguardi per un lungo istante.
«Hai rinnegato il Centro ma
questo non cambia quello che sei» sibilò infine lui con astio, sapendo di
colpire come sempre un punto debole. Tuttavia stavolta mancò di ottenere
l’effetto desiderato.
«Può darsi Lyle – replicò infatti
tranquilla la sorella, guardandolo sicura dritto negli occhi - Ma vedi, a
questo punto sono certa che qualunque cosa io sia, non sono, non sono mai stata
e non sarò mai come te»
Lui accusò colpo e abbassò lo
sguardo, però mentre i due poliziotti lo trascinavano via ebbe il tempo di
sputare ancora veleno, con meschino compiacimento.
«Non è ancora finita, non
illuderti. C’è qualcun altro con cui dovrai fare i conti!»
Un brivido corse lungo la
schiena di Miss Parker ed il suo pensiero corse inevitabilmente al suo incubo,
che stava divenendo drammaticamente reale, nonché all’uomo che avrebbe ucciso
Jarod…ma chi poteva mai essere?
La domanda continuò a ronzarle
nel cervello, insieme alle ipotesi più disparate, per tutto il tragitto verso
l’ingresso dell’edificio. White era già in prigione. Lyle, Cox e Willie lo
stavano raggiungendo. In effetti non rimaneva che…
«Lo abbiamo preso mentre
cercava di fuggire col jet - esordì un
agente indicando al suo superiore un uomo in manette, proprio mentre il gruppo
entrava nella hall, brulicante di
poliziotti e spazzini a braccia alzate – Si tratta del direttore del Centro»
«Voi non potete fare questo –
sibilò minaccioso Mr. Parker – Non avete idea del guaio in cui vi siete
cacciati, non sapete chi sono io..! Mi basterà una telefonata al mio avvocato e
vi ritroverete tutti quanti a dirigere il traffico!»
«Spiacente signore – replicò
flemmatico un disincantato tenente di polizia – Abbiamo agito con un regolare
mandato ed abbiamo trovato la vittima di una rapimento proprio nel suo
laboratorio – spiegò, per poi concludere con un sorrisetto ironico – Lei è in
arresto, Mr. Parker»
Questi fu costretto ad ingoiare
bile, insieme alla sua smisurata arroganza e dovette limitarsi ad incenerire il
poliziotto con lo sguardo senza aggiungere altro, ma confidando comunque di
riuscire a cavarsela. Il Centro e il Triumvirato erano troppo potenti, troppo
forti per lasciarsi spaventare da un manipolo di poliziotti ligi al dovere.
Però ancora non si spiegava come tutto questo fosse potuto accadere.
Fu solo in quel momento che
incrociò dapprima lo sguardo severo di Jarod poi quello della figlia, carico di
tristezza e risentimento. E allora, forse per la prima volta in tanti
anni, la sua fiducia nel Centro vacillò
seriamente. Solo allora capì che quella poteva essere davvero la fine.
«Angelo…io mi fidavo di te…come
hai potuto permettere che arrivassero a tanto?» chiese con studiata mestizia,
nel chiaro intento di farla sentire in colpa.
«Di questo non devi accusare me
papà, ma solo te stesso e la condiscendenza con cui hai sempre coperto le
malefatte del Centro»
«Malefatte? – chiese Mr. Parker
simulando autentico stupore - Se il
Centro ha compiuto degli atti criminali, ti giuro che io non sapevo niente,
io…»
«Ma per favore!» sbottò a quel
punto Jarod.
«Non crederai davvero che io
sia responsabile? – insistette l’altro sempre rivolto alla figlia - E’ Jarod
che ti ha convinta di questo, non è vero? E’ lui che ti ha convinta a
tradirmi?»
«Hai davvero una gran faccia
tosta papà! – replicò infine Miss Parker incredula, trattenendo a stento la
collera. Era assurdo che persino davanti all’evidenza quell’uomo stesse ancora
tentando di raggirarla! - Tu hai tradito me, tu non hai fatto che ingannarmi
per tutta la vita…e non hai esitato un secondo a sacrificare persino la mamma
pur di proteggere il Centro!»
«Io non volevo che le facessero
del male»
«Però non hai fatto niente per
impedirlo»
«Ma non capisci? – tentò
pateticamente di difendersi Mr. Parker - Tutto questo io l’ho fatto per te!»
«Non dire assurdità–
l’interruppe secca la donna, più che mai disillusa - L’hai fatto solo per te
stesso e per soddisfare la tua sete di potere. Oramai ho capito come sei e non
puoi più ingannarmi»
«Angelo non puoi permettere che
mi facciano questo! – iniziò a gridare disperato mentre gli agenti lo
trascinavano via – Io volevo solo proteggerti..! Angelo..! Angelo..!»
«Addio papà…» sussurrò Miss
Parker voltandogli definitivamente le spalle.
Prima suo fratello, poi suo
padre. Erano praticante degli estranei, gente con cui non aveva che un rapporto
superficiale, ma rappresentavano pur sempre il suo unico legame di sangue. Ora
anche l’ultimo anello si era spezzato e tutto ciò che restava della sua
famiglia se n’era andato per sempre, lasciandole dentro un terribile senso di
vuoto. Per un istante si sentì sola e senza più radici, in balia degli eventi
come una goccia d’acqua nel mare in tempesta, un fiore reciso rapito dal vento.
Ma ad un tratto qualcuno le strinse la mano…sì, come sempre c’era qualcuno
accanto a lei, pronto a sostenerla nei momenti più difficili.
«Va tutto bene?» le chiese
Jarod.
Lei annuì, ancora visibilmente
turbata e fece per dirgli qualcosa, però…
«Jarod!» li interruppe una
voce.
«Frank – riconobbe il
simulatore – Parker, ti presento l’agente Dawson»
«Congratulazioni, agente –
replicò lei sforzandosi di accennare un sorriso – Credo che stavolta il Centro
sia davvero in ginocchio»
«E’ vero – assentì l’altro – Ma
purtroppo non è ancora finita. Dobbiamo trovare la lista prima che qualcuno dall’alto
faccia invalidare tutti questi arresti nel giro di poche ore»
«La lista! – esclamò
elettrizzato Jarod, facendosi largo tra la folla – Dimenticavo che abbiamo un
nuovo indizio»
«E quale?» chiese Miss Parker
seguendolo insieme a Frank.
«Avete visto mia madre?»
seguitò lui ignorando la domanda e continuando a guardandosi intorno finché non
scorse la sua famiglia, riunitasi insieme a Sydney e Broots intorno a Jay e
Kimberly.
«Mamma, hai ancora quel
biglietto?» domandò come al solito senza preamboli quando li ebbe raggiunti.
Margaret lo scrutò un attimo
perplessa, quindi estrasse dalla sua borsa un foglio ripiegato con cura e
glielo porse.
«Fu Catherine a mandare questo
messaggio poco prima di essere uccisa - spiegò infine rivolto a Frank e Miss
Parker – Io credo che riguardi la lista» aggiunse, quindi lesse il biglietto ad
alta voce.
“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente”
«Che diavolo significa?» esordì
sconcertata Miss Parker dopo qualche secondo.
«Non lo so – confessò Jarod, a
sua volta confuso - Sembra una lingua molto antica, forse risalente al
Medioevo, ma non mi risulta ci sia niente di simile nella letteratura inglese»
«Infatti è italiano – asserì a
quel punto Sydney suscitando l’ammirazione generale – Più precisamente si
tratta di un passo della “Divina Commedia” di Dante Alighieri. Devo
averne una copia nel mio ufficio»
«Interessante – commentò Miss
Parker – Ma ancora non capisco cosa c’entra con la lista»
«Eppure dev’essere importante –
insistette Jarod – Altrimenti perché Catherine si sarebbe data tanta pena per
farlo avere a mia madre?»
«Non ne ho idea» replicò Miss
Parker, avvilita per quel che sembrava essere l’ennesimo buco nell’acqua.
«Io nemmeno – intervenne Sydney
– Ma so che questa stessa frase si trova in un posto qui al Centro»
«Dove?!»
«Nella vecchia cappella»
«Quell’ammasso di rovine che
sta infondo al cimitero?» chiese scettica la donna.
«Esatto. Tua madre andava
spesso lì a pregare…e a confidarsi con un vecchio amico – spiegò lo psicologo
in tono nostalgico - Ma è abbandonata da anni ormai»
«Dicci della frase, Sydney» lo
incalzò Jarod.
«In una nicchia, sulla sinistra
dell’altare c’è un dipinto, che raffigura Dante e il suo maestro Virgilio
durante il loro viaggio negli inferi, come racconta la Divina Commedia –
rispose l’altro – Sotto la tela, scolpita nel marmo, c’è un’iscrizione che
riporta questa frase. E’ tutto quel che posso dirvi»
«Vale la pena di dare
un’occhiata» disse Jarod.
«Ci penso io» di rimando Miss
Parker.
«Vengo
con te»
«Niente affatto!» proruppe
categorica lei senza quasi rendersene conto.
Aveva agito d’istinto, perché qualcosa,
la solita sensazione del tutto irrazionale, le diceva di tenere Jarod lontano da
quel posto, ma le persone intorno a lei, che ora la guardavano in uno strano
modo, non potevano capire. Doveva affrettarsi a trovare un pretesto logico per
il suo bizzarro comportamento, prima che tutti la prendessero per pazza.
«Voglio dire…tu devi restare
qui, con tutto questo movimento ci sarà bisogno di te»
«Non credo, Frank se la sta
cavando benissimo da solo»
Di nuovo quella sua strana
insistenza, l’inspiegabile sensazione che lei volesse proteggerlo da
qualcosa…ma che le stava passando per la testa?!
«La polizia comincerà a fare un
sacco di domande sull’attività del Centro – insistette ancora lei - Domande a
cui qualcuno dovrà dare delle risposte chiare e precise e l’agente Dawson non
conosce tutti i…»
«Può pensarci Sydney»
«Certo, non preoccuparti Miss
Parker» confermò quest’ultimo.
«Senti Jarod…»
«Non insistere Parker, stavolta
non te la do vinta – l’interruppe deciso lui - Non ti lascio andare laggiù da
sola»
Miss Parker sospirò, scuotendo
il capo rassegnata, quindi si avviò suo malgrado insieme a Jarod verso il
cimitero del Centro, con un bruttissimo presentimento che le appesantiva il
cuore.
Cimitero del Centro, Blue
Cove – ore 04:00 a.m.
Era una notte magnifica,
nonostante tutto. Il freddo era pungente ma il vento lieve, appena percettibile
e una luminosa cascata di stelle aveva invaso il cielo terso, offuscata solo da
una fulgida luna piena.
Il crepitio costante dei passi
lungo i sentieri ghiaiati era l’unico rumore a disturbare il silenzio, mentre
Jarod e Miss Parker, seguendo la luce delle loro torce, avanzavano cauti tra i
sepolcri, cui la notte conferiva un’aria lugubre e inquietante, come nel più
classico dei film horror.
«Posto romantico per una
passeggiata al chiaro di luna» esordì di punto in bianco lui, ironizzando
sull’atmosfera tetra che li circondava.
Lei sorrise, ma non disse
nulla. Era evidente che qualcosa la turbava e che non si trattava del fatto di
trovarsi in un cimitero nel pieno della
notte…e tutto questo gli era insopportabile. Detestava non capire ciò che stava
succedendo e soprattutto detestava essere certo che lei gli nascondesse la
verità. Forse quello non era né il luogo né il momento più adatto per chiarire
le cose tra loro, però il desiderio di sapere ormai era troppo forte.
«Allison…»
«Ancora non capisco perché mia
madre non ci abbia parlato della cappella nel suo dischetto – lo interruppe
brusca Miss Parker, affrettandosi a portare la conversazione su di un argomento
neutro, prima di sentirsi porre domande alle quali non voleva rispondere -
Avremmo risparmiato un sacco di tempo e di ricerche inutili»
«Probabilmente ancora non
sapeva che la cappella fosse collegata alla lista – osservò Jarod,
rassegnandosi suo malgrado a rimandare il discorso – Se ben ricordi, la lettera
a Padre Christophe portava la data di un giorno prima della sua morte, però il
DSA era già stato inciso da tempo»
«D’accordo, ma perché ha
spedito il dischetto a Padre Christophe e il biglietto con il messaggio a
Margaret? Così ha praticamente diviso a metà le informazioni in suo possesso»
«Credo l’abbia fatto per
sicurezza – ipotizzò ancora lui – Se il Centro avesse trovato Padre Christophe
prima di te avrebbe scoperto solo parte del suo segreto, lo stesso se avesse
catturato mia madre»
«Ma io avrei potuto non
incontrare mai Margaret»
«Evidentemente tua madre era
certa del contrario»
«E come poteva esserlo?»
«Forse qualcosa le
diceva che in futuro sarebbe andata così»
«Già» borbottò Miss Parker
seguitando a camminare.
Dio solo sapeva quanto anche
lei in quel momento desiderasse conoscere il futuro!
La sagoma scura della vecchia
cappella, col suo piccolo campanile diroccato, apparve finalmente di fronte a
loro, stagliandosi contro il disco iridescente della luna come un’immagine
spettrale dalla parvenza a dir poco sinistra.
I tacchi scricchiolavano sul marmo
logoro e umido dei gradini mentre entrambi salivano la breve scalinata che
conduceva all’ingresso, fino al vecchio portone dai cardini arrugginiti,
che si aprì facilmente, anche se con un
cigolio spaventoso, non appena Miss Parker vi appoggiò la mano. Jarod non mancò
di notare l’assenza di ragnatele sui battenti, mentre l’arcata e le bifore
cieche che adornavano la facciata ne erano piene. Il posto era abbandonato da
anni ma qualcuno era stato lì di recente, pensò prima di seguire la donna
all’interno.
La luce della luna filtrava
debole attraverso le variopinte vetrate gotiche sui muri laterali, illuminando
i vecchi banchi di legno divorati dai tarli e coperti da una spessa coltre di
polvere.
Jarod e Miss Parker avanzarono,
guardandosi attorno, fino all’altare di marmo, quindi, seguendo le indicazioni
ricevute, trovarono sulla sinistra l’ampia nicchia con il dipinto descritto da
Sydney, di autore sconosciuto, che con vibranti e poderose pennellate dai
vividi colori, raffigurava Dante e Virgilio aggirarsi in un inquietante inferno
mitologico, circondati dalle anime dei dannati e dal loro eterno tormento.
La luce delle torce illuminò
ogni centimetro della tela, facendo risaltare le tinte vigorose, i rossi
vermiglio e i blu notte, le pose plastiche e i volti espressivi delle figure,
quindi si spostò verso il basso, fino all’iscrizione del messaggio di
Catherine.
«Impressionante – commentò Miss
Parker dopo qualche minuto – Ma cos’ha a che fare questo con quel che
cerchiamo?»
«Bè, se dovessi analizzare la
cosa dal punto di vista simbolico – esordì Jarod osservando l’opera con aria
critica – potrei azzardare che l’inferno rappresenta il Centro»
«Già. Mentre Dante e Virgilio
potreste essere tu e Sydney»
«Quanto alle anime dannate
abbiamo una lunga lista di possibili candidati – aggiunse ironico lui – Però
non credo sia questo ciò che tua madre voleva dirci»
«Forse è il dipinto stesso che
nasconde qualcosa – ipotizzò Miss Parker sfiorando con le dita prima la
superficie della tela poi la cornice e infine la lastra di marmo con
l’iscrizione, alla ricerca di un nascondiglio o di un improbabile meccanismo
segreto che ne rivelasse uno – Ah è assurdo!»
«Temo che questo quadro non
nasconda niente – convenne deluso lui – Vieni, diamo un’occhiata in giro»
Dopo una breve ispezione, fu
subito evidente che la chiesetta offriva ben poco da esplorare, fatta eccezione
per una porta sul lato destro dell’altare, che si apriva su di una scalinata a
chiocciola stretta e buia, la quale conduceva probabilmente ad un sotterraneo.
Fu lì che i due decisero di dirigere i loro passi.
Una volta scesi i ripidi
gradini, Jarod e Miss Parker si ritrovarono in un ambiente tetro e polveroso,
dal soffitto assai basso, retto da una serie di archetti a volta, infestati da
fittissime ragnatele. Una sorta di cripta, inspiegabilmente illuminata dalla
luce soffusa di alcune candele.
«Credevo che questo posto fosse
abbandonato da anni» disse incuriosito lui.
«A quanto pare non è così –
mormorò lei, sempre più angosciata dal suo brutto presentimento – Meglio tenere
gli occhi aperti»
«Già…non mi stupirei se qualche
fantasma si aggirasse da queste parti!»
«I fantasmi non usano candele -
Un momento: il luogo tetro e quelle parole…stava accadendo davvero, tutto si
stava svolgendo esattamente come nel suo incubo! - Oh mio Dio..!»
«Cosa..?»
«Attento!» gridò istintivamente
Miss Parker lanciandosi di peso su Jarod e piombando a terra insieme a lui
giusto una frazione di secondo prima che il frastuono di uno sparo echeggiasse
nella stanza e una pallottola sfrecciasse sibilando insidiosa sulle loro teste.
«Ma che diavolo..?!» esclamò
allibito il simulatore.
«Avanti vieni fuori! – urlò
Miss Parker ignorando la domanda – Dimmi chi sei!»
«Si può sapere con chi stai
parlando?»
Un rumore di passi, un respiro
pesante. Poi un misterioso uomo vestito di nero uscì finalmente dalla penombra,
reggendo ancora in mano la pistola.
Jarod e Miss Parker quasi non
credettero ai loro occhi quando riconobbero il suo volto arcigno.
«Tu?!»
«Sì, proprio io»
«Non è possibile. Io ti ho visto morire proprio coi miei occhi»
«Nessuno muore mai al Centro,
ormai dovresti saperlo Miss Parker – replicò compiaciuto il Dott. Raines con la
sua voce rauca, seguitando a tenere entrambi sotto tiro – Ma immagino che anche
stavolta tuo padre si sia ben guardato dal dirti la verità»
«Mio padre lo sa?!»
«Certo. E’ stato lui ad
inscenare la mia morte e ad imprigionarmi – spiegò Raines con un ghigno
beffardo - Ma qualcuno di cui si fida troppo è stato lieto di aiutarmi a
fuggire e a nascondermi proprio sotto al suo naso, fingendo di darmi la caccia»
«Lyle» intuì Jarod.
«Esattamente. Lyle non è
soddisfatto del ruolo secondario che svolge attualmente al Centro, così ha
tradito suo padre ed è passato dalla mia parte per ottenere di più – confermò l’altro
– Eh…il ragazzo è piuttosto ambizioso, immagino che prima o poi vorrà fare le
scarpe anche a me»
«Quindi sei tu il progetto di
cui mio padre e Lyle si occupavano in gran segreto – intervenne Miss Parker –
Però non capisco cosa possa volere da te mio padre»
«Davvero non lo immagini?»
«Il segreto di Catherine –
indovinò ancora Jarod – Mr. Parker è convinto che tu sappia di che si tratta,
ma si sbaglia, non è vero?»
«Non proprio – precisò Raines
con malcelata stizza, punto sul vivo - Io so della lista da molto prima che la
stessa Catherine ne venisse a conoscenza»
«Ma ancora non hai idea di dove
si trovi, perché Matumbo non ha mai voluto rivelartelo, giusto? – seguitò ad
incalzarlo l’altro – Che tormento dev’essere stato per te sapere che Catherine
aveva trovato ciò che cercavi da tempo. Il segreto che tanto ti premeva
conoscere era lì, a portata di mano, ma non ti è stato possibile arrivarci
perché hai dovuto ucciderla, dico bene?»
«Matumbo mi ordinò di farlo
prima che potessi convincere Catherine a confidarsi con me – replicò il dottore
con crudele impassibilità – Credo avesse intuito quale fosse il mio piano e
dandomi quell’ordine a cui non potevo disobbedire mi costrinse a mandarlo a
monte…temporaneamente»
«Giusto, solo temporaneamente –
continuò Jarod in tono pungente - Hai dovuto aspettare parecchio perché
qualcuno svelasse il segreto di Catherine, ma finalmente è successo. E’ per
questo che te ne stai qui, nascosto nell’ombra ad osservare le mosse di tutti,
servendoti di Lyle come spia. Ma lui è all’oscuro di tutto, non è vero? O
meglio, forse ha qualche sospetto, che ti sei ben guardato dal confermargli,
perché hai capito che noi sappiamo cosa conteneva il DSA e speri che le nostre
ricerche ti portino fino alla lista, grazie alla quale potrai finalmente uscire
allo scoperto e controllare il Centro, raggiungendo così quel che è sempre
stato il tuo unico scopo»
«I miei complimenti Jarod, hai
perfettamente inquadrato la situazione – si congratulò Raines sogghignando
sarcastico, mentre seguitava a puntargli contro la pistola – Avevo deciso di
ucciderti e di usare il senso interiore di Miss Parker per arrivare alla lista,
ma ripensandoci, quando dirigerò il Centro, le tue doti straordinarie mi
sarebbero molto utili per il nuovo progetto»
«Non contare su di me» rifiutò
secco il simulatore.
«Nuovo progetto? – esordì a
quel punto Miss Parker - Allora anche Cox stava lavorando per te»
«Ma certo – asserì soddisfatto
il dottore - Cox sta solo mettendo in pratica ciò che io ho ideato: il
programma più ambizioso che il Centro abbia mai realizzato, in cui i simulatori
non erano che il primo passo»
«Oh li conosciamo bene i tuoi
programmi – replicò sprezzante la donna – Prima ti sei divertito a rapire
bambini, inseminare donne inconsapevoli, addirittura rubare embrioni. Poi hai
giocato a fare dio e hai pasticciato col loro DNA e adesso vuoi sostituirti a
madre natura, per creare nientemeno che una nuova razza di superuomini»
«Proprio così - asserì
entusiasta Raines - Degli esseri eccezionali, dotati di forza ed intelligenza
straordinarie…»
«…che intendi sfruttare al
massimo per realizzare i tuoi subdoli piani» terminò sdegnato Jarod.
«Esatto, obbediranno solo a me,
perché sarò io personalmente ad occuparmi di loro»
«Già, come ti sei occupato di
Ethan: facendolo finire al manicomio!» l’apostrofò duramente Miss Parker.
«Mirage non fu che un
esperimento non del tutto riuscito – commentò il dottore con noncuranza – Con
Baby Parker, grazie alla manipolazione del DNA andremo molto oltre. Ma la vera
innovazione sarà l’ibrido che otterremo da Gemini e Euclid»
«Innovazione?! Stai
parlando di esseri umani come se fossero elettrodomestici…é disgustoso!»
«No, è progresso Miss Parker –
ribatté sempre più infervorato l’altro – Ma non mi aspetto che tu capisca. Tu
sei proprio come tua madre…ecco perché farai la stessa fine»
Così dicendo, Raines alzò
minaccioso il braccio destro e diresse la sua arma contro la donna,
accingendosi a fare fuoco.
Quei pochi secondi durarono
un’eternità…istanti di panico per Miss Parker, che pur nascondendo la paura
dietro una maschera di ghiaccio, pensava freneticamente ad una possibile via di
fuga…attimi di frustrante attesa per Jarod, che col fiato sospeso stava
calcolando al centesimo il momento giusto per balzare su Raines e disarmarlo…e
intanto il dito premeva sempre più sul grilletto…
«Fermo!» tuonò all’improvviso
la voce di Ethan, seguita da un rapido martellare di passi lungo la scala e
dalle voci concitate di una squadra di agenti, che in pochi istanti, ad armi
spianate, occuparono la cripta.
«Getti subito la pistola!»
intimò uno di loro a Raines.
«Ethan!» esclamò sollevato
Jarod.
«State bene?» chiese l’altro
avvicinandosi ai due.
«Sei arrivato giusto in tempo»
rispose Miss Parker.
«Sapevo che avresti avuto
bisogno di me» replicò Ethan, sorridendo con aria complice alla sorella.
«Ti conviene arrenderti Raines
– intimò quindi Jarod all’uomo ancora armato - Anche perché ciò che ti preme
tanto controllare ormai non esiste più»
«Che stai dicendo?!» domandò l’altro
guardandosi attorno incredulo: che ci facevano lì tutti quei poliziotti?
«E’ la verità – di rimando Miss
Parker – La polizia ha fatto irruzione al Centro un paio d’ore fa. Cox, Lyle e
mio padre sono già in manette, Matumbo è all’estero, ma già lo stanno
cercando…manchi giusto tu»
«Ma non fatemi ridere – replicò
Raines sfrontato, ma con una sottile nota d’inquietudine nella voce – Se anche
fosse, sapete bene che tutto si concluderà con un nulla di fatto, perché…»
«Non se troveremo la lista – lo
interruppe deciso Jarod – E tu sai che la troveremo, vero? Lo hai detto tu
stesso, ho delle doti straordinarie»
Trattenendo a stento l’ira e la
frustrazione per l’ennesimo e a quel punto definitivo fallimento del suo piano,
Raines serrò la mascella, la sua bocca ridotta ad una sottile fessura, il volto
sfigurato da una crudele smorfia carica d’odio. Qualcuno doveva pagare per
questo.
«Però non potrai usare le tue
doti da morto!» sibilò infatti, di nuovo pronto a fare fuoco su Jarod.
Ma Miss Parker fu più rapida di
lui e con uno scatto bruciante, lo colpì violentemente, gettandolo a terra e
disarmandolo, quindi, prima che Raines potesse arrivarci, si avventò sulla
pistola e la puntò decisa verso di lui.
«Coraggio, fai una mossa. Dammi
una sola ragione per sparare, non aspetto altro – lo minacciò con aria torva -
Non vedo l’ora di vederti morto, maledetto assassino e stavolta mi accerterò
personalmente che tu lo sia davvero!» aggiunse sfiorando pericolosamente il
grilletto.
«Signora, butti quell’arma» le
ordinò allora uno degli agenti, tenendola sotto tiro.
Miss Parker lo ignorò,
continuando a puntare sullo spaurito Dr. Raines uno sguardo terrificante, che
esprimeva tutta la sua rabbia, la sua inesauribile sete di vendetta. Il
carnefice di sua madre, l’uomo la cui smisurata malvagità aveva causato tanta
sofferenza a lei stessa e alle persone che amava era oramai alla sua mercé: non
doveva fare altro che muovere un dito per porre fine alla sua miserabile
esistenza…e desiderava disperatamente farlo.
«Parker…no» cercò di
dissuaderla Jarod, avvicinandosi a lei.
«Perché no? Lui non ha esitato
un attimo prima di uccidere mia madre a sangue freddo»
«Jarod ha ragione – intervenne
persuasivo Ethan – Non puoi commettere un omicidio»
«Eliminare questo bastardo non
sarebbe un omicidio, ma un atto di giustizia»
«Sai che non è così – replicò
Jarod sfiorandole il braccio teso – E sai anche che ucciderlo non ti restituirà
tua madre, né ti farà sentire meglio»
«Bé, quanto a questo non ci
giurerei» mormorò la donna con amaro sarcasmo.
«Ma non pensi alle conseguenze?
– insistette l’altro sempre più in ansia. Non era affatto certo di riuscire a
dissuaderla dal compiere quel gesto sconsiderato – Vuoi passare il resto della
tua vita in prigione?»
«Non m’importa»
«Bé importa a me! – sbottò lui
allarmato, dopo quell’assurda affermazione – Andiamo Parker…abbiamo quasi
raggiunto il nostro scopo, il Centro non esiste più e non appena avremo trovato
la lista saremo finalmente liberi. Non rovinare tutto proprio adesso»
Il braccio di Miss Parker vacillò
impercettibilmente, come la sua determinazione a vendicarsi. Forse Jarod aveva
ragione, ma la sua sete di rivalsa era così forte…
«Se premi quel grilletto sarà
stato tutto inutile, perché le nostre vite saranno distrutte e Raines avrà
vinto – disse ancora lui, toccando lievemente la sua mano tremante – Avanti,
dammi la pistola»
Sospirando rassegnata, Miss
Parker abbassò finalmente il braccio e lasciò che Jarod le togliesse di mano
l’arma, per consegnarla ad uno degli agenti, mentre altri due prendevano tempestivamente
in consegna un uomo ormai sconfitto, che usciva di scena col capo chino e gli
occhi bassi, ridotto all’ombra di quel che era stato il malvagio e autorevole
Dr. Raines.
«E anche questa è fatta»
commentò soddisfatto Jarod, quando la cripta fu di nuovo deserta.
«Già – annuì Miss Parker – Ma
ora andiamocene da questo posto – aggiunse poi - Bisogna informare gli altri
che qui non c’è traccia della lista»
«Sì, ma prima io e te dobbiamo
parlare» la fermò lui risoluto.
«Parlare di cosa?» chiese lei con
falsa indifferenza, ben sapendo quel che l’aspettava.
«Per esempio del tuo strano
comportamento negli ultimi giorni»
«Non ti capisco»
«Bè, nemmeno io capivo – esordì
ironico Jarod, fissandola dritto negli occhi – Prima mi dici che tra noi è finita
e fai di tutto pur di allontanarmi da te, poi inspiegabilmente insisti per
entrare tu nell’ufficio di Matumbo al posto mio, quindi ti fai quasi ammazzare
da Lyle per tenermi alla larga dal Centro - seguitò avvicinandosi sempre più a
lei - Per non parlare di come mi hai salvato la vita meno di dieci minuti fa…e
per inciso, come sapevi che quella pallottola era diretta a me?»
«Continuo a non capire dove
vuoi arrivare» replicò imbarazzata Miss Parker cercando di allontanarsi, ma lui
glielo impedì.
«Tu sostieni di non amarmi, ma
scusa se te lo dico Parker, non credi di aver rischiato un po’ troppo per
qualcuno di cui non t’importa niente…in quel senso?»
«Ah, sta zitto!» borbottò
indispettita la donna, quindi gli volse le spalle e si allontanò per non vedere
il solito sorriso sornione dipingersi sul suo volto.
Come sempre, Jarod aveva capito
tutto.
Il Centro, Blue Cove –
Ingresso - ore 07:00 a.m.
Quando Ethan, Jarod e Miss
Parker raggiunsero gli altri nella hall, la situazione era decisamente più
tranquilla rispetto a un paio d’ore prima. Il tetro palazzo era semi-deserto,
presidiato dalla polizia, mentre solo gli agenti della scientifica si
aggiravano ormai per gli uffici, esaminando archivi e computers in cerca di
prove.
«Niente..?» chiese deluso Frank,
cogliendo l’espressione costernata dei loro volti, non appena li vide arrivare.
«No purtroppo – replicò Miss
Parker – A quanto pare la tela non ha nulla a che fare col biglietto di mia
madre»
«Maledizione! – imprecò il
poliziotto – Senza quella lista l’intera operazione andrà a monte»
«Eppure dev’esserci un nesso,
la frase si trova proprio sotto al dipinto» disse Ethan.
«E nella Divina Commedia –
esordì a quel punto Jarod con aria pensierosa, mentre dall’ipotesi che gli
ronzava in testa già da un po’, iniziava a prendere corpo una teoria - Sydney,
hai detto di averne una copia?»
«Sì, è nel mio ufficio –
confermò il dottore – A dire la verità fu proprio Catherine a regalarmela»
A quelle parole, un guizzo
balenò nello sguardo di Jarod.
«Devo vedere quel libro» disse
avviandosi risoluto verso l’ascensore, diretto nella stanza di Sydney.
«Non si tratta di un libro,
ma di un’opera complessa, articolata in tre cantiche: Inferno, Purgatorio e
Paradiso – spiegò questi poco dopo, prelevando tre volumi finemente rilegati in
pelle da una vetrinetta – Ognuna di queste è suddivisa in canti, numerati in
sequenza dalla prima alla terza cantica, per un totale di cento» aggiunse
porgendo i tre testi al simulatore.
«Non per svilire le tue
capacità, ma temo che ti ci vorrà un bel po’ per esaminare a fondo quei tre
mattoni» osservò scettica Miss Parker.
«E noi non abbiamo più tanto
tempo» le fece eco Frank.
«Se ho ragione non sarà
necessario leggerli tutti – replicò enigmatico Jarod - Sydney, sai dove si
trova il passo citato nel biglietto?»
«Sì, mi pare sia l’inizio del
terzo canto…ma cos’hai in mente?»
L’altro non rispose, ma prese a
sfogliare il primo volume finché non trovò il punto in questione.
«Terzo canto…versi uno, due e
tre…e se fosse questo il messaggio di Catherine?»
«Che intendi dire?» chiese
perplesso Frank.
«Se questi numeri fossero
delle…coordinate riferite al Centro?»
«Del tipo sottolivello tre,
settore uno, schedario due, eccetera…» chiarì Miss Parker, iniziando a capire.
«E’ impossibile, il
sottolivello tre è un parcheggio» osservò Broots con aria saccente.
«Che mi dici allora del livello
tre?» domandò Jarod.
«Il terzo piano? Bé…ci sono gli
uffici amministrativi, degli archivi…aspettate – disse il tecnico avvicinandosi
al computer, per poi digitare rapido qualcosa sulla tastiera – Ecco, questa è
la planimetria del livello tre»
Tutti fissarono costernati le
decine di uffici, sale e archivi apparsi sul monitor.
«Ci vorrebbero giorni per
ispezionare a fondo ogni locale» commentò Ethan.
«E noi abbiamo solo poche ore»
aggiunse scoraggiato Frank.
«Concentriamoci sul settore
uno» insistette Jarod.
Broots ingrandì la zona, quindi
osservò: « E’ quasi interamente occupato dalla sala riunioni e dalle toilettes.
«Accidenti» borbottò Miss
Parker, esprimendo la delusione di tutti.
Silenzio, carico d’incertezza e
nervosismo, di speranze che lentamente scemavano in delusione e sconforto.
«Aspetta un momento – esordì ad
un tratto il simulatore – Questa sala è stata costruita solo dieci anni fa»
«E’ vero – confermò Sydney –
Quindi non è a questo che Catherine si riferiva»
«Ci occorre sapere com’era il
livello tre prima che lei morisse – disse ancora Jarod rivolto a Broots –
Dobbiamo scoprire cosa c’era nel settore uno quando scrisse quel biglietto»
«Credo ci siano delle vecchie
planimetrie da qualche parte – replicò l’altro facendo di nuovo volare svelto
le dita sui tasti – 1960…1966…eccola! 1970» esclamò prima di ingrandire il
settore uno.
«Quello sembra un bunker» disse
Frank notando le pareti assai spesse del vecchio locale.
«Ora ricordo – esordì Sydney –
Quello era il cavò. Il Centro ci custodiva grosse somme in contanti, per
gestire operazioni finanziarie illecite suppongo. Con l’avvento della rete e
dei trasferimenti on line è diventato obsoleto, quindi è stato smantellato –
spiegò ancora – Mi sembra contenesse anche delle cassette di sicurezza»
«Forse Matumbo teneva nascosta
lì la lista, magari nella cassetta numero 23 e Catherine lo aveva scoperto»
ipotizzò Broots.
«Ma ora il cavò non c’è più e
noi siamo di nuovo daccapo – commentò stancamente Miss Parker, massaggiandosi
le tempie – Che facciamo Jarod?»
Senza rispondere, lui si
avvicinò al computer, esaminando intento sul monitor prima la vecchia
planimetria poi quella attuale.
«Jarod?» ripeté la donna.
«C’è qualcosa che non quadra –
si decise infine a dire il simulatore – Guardate, la lunghezza della sala
riunioni è quotata in 24 metri, mentre ognuna delle tre stanze adiacenti è
lunga 9 metri. Infatti il cavò era lungo 27 metri» precisò mostrando a tutti la
vecchia planimetria.
«I casi sono due – disse allora
Frank – O chi ha disegnato quella pianta non era un gran progettista, oppure
esiste una stanza adiacente la sala riunioni che non compare sulla nuova
planimetria»
In pochi minuti il gruppo
raggiunse il livello tre e prese ad esaminare la parete est della sala
riunioni, scoprendo che uno dei raffinati pannelli in radica disposti lungo
l’intero perimetro della stanza nascondeva una porta, naturalmente chiusa a
chiave, che tuttavia non fu difficile forzare.
Dietro di essa non trovarono
che uno stanzino spoglio, senza porte né finestre, né mobilio, fatta eccezione
per una sedia ed un tavolo, sul quale erano collocati solo una lampada ed un
modernissimo computer.
«Ho idea che la nostra lista
sia lì dentro – esordì Jarod con un sorrisetto compiaciuto – Ora serve solo un
esperto che la tiri fuori in fretta…qualcuno che conosca a menadito i
sofisticati sistemi di sicurezza del Centro» aggiunse guardando allusivo
Broots, ma questi sembrò non capire.
«Broots! – lo esortò allora
spazientita Miss Parker - Non startene lì impalato con la faccia della mucca
che guarda passare il treno…MUOVITI!!!»
Il Centro, Blue Cove –
Stanza nascosta – ore 09:30 a.m.
«L’hard disk di questo computer
contiene soltanto files in formato GIF, cioè immagini» annunciò Broots agli
altri in trepidante attesa, dopo aver lavorato sulla macchina per quasi due ore
.
«Immagini di cosa?» chiese Miss
Parker.
«Ecco i files si chiamano Vasarely,
Noland, Gorky, Albers, Pollock…e l’elenco è ancora lungo. Sono tutti nomi di
artisti del Novecento ed ogni file corrisponde ad una delle loro opere – chiarì
il tecnico - Sono…sono migliaia e…è pazzesco, ma credo che ognuna di queste
immagini sia uno stego, cioè un file che nasconde un’informazione
segreta, vale a dire un nome della lista di cui parlava tua madre»
«Insomma si tratta di un
codice, come pensavamo»
«Sì, ma il più complesso che
abbia mai visto – precisò l’altro con un misto di ammirazione e stizza nella
voce - Non mi basterebbero i prossimi duecento anni per decodificare
quest’affare»
«Andiamo, ci sarà pure un
modo!»
«Purtroppo Broots ha ragione
Parker – intervenne Jarod con aria grave - Sono stato io ad inventare questo
codice, quando ero ancora un ragazzino»
«Cosa?!»
«Non ricordo un incarico di
questo tipo» affermò Sydney.
«Mi fu affidato direttamente
dal Triumvirato – spiegò il simulatore – E mi fu tassativamente proibito farne
parola con chiunque, perché era in gioco la sicurezza nazionale»
«Sfruttare un ragazzino
facendogli credere di lavorare per una giusta causa…che vigliacchi!» commentò
sdegnato Frank.
«Altro che sicurezza nazionale.
Matumbo sfruttò il tuo lavoro per mettere al sicuro il suo segreto» gli fece
eco Broots.
«E ha raggiunto lo scopo –
riconobbe amaramente Jarod a denti stretti – Soltanto lui può farci accedere a
quelle informazioni criptate»
«Sempre che riusciamo a
trovarlo entro le prossime ore, vale a dire prima che tutti gli arresti di
stanotte vengano invalidati, altrimenti sarà tutto inutile» aggiunse
scoraggiato Frank.
«Purtroppo, anche se
riuscissimo a trovarlo, non credo che vorrà collaborare. E questo codice è
praticamente impossibile da decifrare senza la chiave»
«La chiave hai detto?»
domandò Miss Parker, sentendo un improvviso un campanello d’allerta nella
mente.
«Sì, qualcosa che combini i
milioni di 0-1 che compongono ogni immagine in modo diverso, così da ottenere
il messaggio nascosto, nel nostro caso un nome»
«Insomma una password» chiarì
Broots vedendola ancora perplessa.
«Dire password è limitativo –
spiegò ancora Jarod - Potrebbe essere qualsiasi cosa: un numero, una lettera,
una parola, una combinazione alfanumerica…persino un’altra immagine»
«La chiave in un’immagine… »
ripeté assorta Miss Parker per poi scambiare con Ethan uno sguardo d’intesa.
«Prova a cercare un file di
nome Doom» esordirono i fratelli all’unisono rivolti a Broots.
Jarod li squadrò entrambi
sorpreso: «Sapete qualcosa che io non so?»
«Forse…»
La ricerca non durò che pochi
secondi, ma a tutti parvero dilatarsi, prolungarsi all’infinito.
«Hei avevi ragione Miss Parker!
– esordì infine il tecnico elettrizzato – C’è un solo file di nome Doom e
corrisponde a questa immagine – aggiunse mostrando alla donna il dipinto
astratto che ben conosceva - Ora provo ad utilizzarla come chiave d’accesso per
aprire gli stego – un’altra manciata di istanti lunghi come ore - Che mi prenda
un colpo…funziona! - esclamò euforico Broots continuando la decodifica - Guarda
che nomi..! Guarda questo…ho persino votato per lui alle ultime legislative!»
«Bé, agente Dawson, a quanto
pare concluderai in bellezza la sua carriera – esordì a quel punto Jarod,
rivolgendo all’altro uno sguardo soddisfatto - Ecco le prove che stavi
cercando»
«Non le avrei mai trovate senza
il vostro aiuto…grazie…grazie anche a lei, Miss Parker»
«Ne faccia buon uso»
«Ci può scommettere – promise
Frank - Faccio subito spiccare un mandato di cattura internazionale per tutti
gli appartenenti all’organizzazione»
«E’ un buon inizio» replicò la
donna, guidando tutti fuori dall’angusto stanzino e incamminandosi verso
l’uscita.
Non vedeva l’ora di andarsene
per sempre da quel maledetto edificio.
«Aspettate un momento – esordì
Frank rivolto a Miss Parker e Sydney - A
dire la verità fermare il Centro non è l’unico motivo che mi ha spinto
ad arrivare fin qui. C’è un’altra ragione molto più importante: sto cercando
mio figlio…io devo sapere se è ancora vivo»
«Frank… - disse titubante Jarod
- Io non ti ho detto tutta la verità a proposito di tuo figlio»
L’altro lo guardò smarrito,
allora il simulatore cercò lo sguardo di Miss Parker, chiedendole tacitamente
aiuto.
«Sig. Dawson suo figlio è vivo
– a quelle parole, Frank iniziò a tremare dall’emozione, mentre gli occhi gli
si velavano di lacrime a lungo trattenute - Ma…ecco…forse non è proprio la
persona che lei si aspetta di incontrare»
«Che significa?!» mormorò
esasperato l’altro, la voce rotta dall’inquietudine.
«Sydney sai dov’è Angelo?»
chiese Jarod.
«Nella sua stanza credo.
Perché?»
«Vieni Frank – disse poi
pacato, prendendo l’uomo sottobraccio – E’ tempo che tu conosca una persona»
Nuova casa del Maggiore
Charles, New Orleans - tre settimane
dopo - ore 12:30 p.m.
La monovolume presa a noleggio
accostò silenziosa davanti al vialetto d’ingresso della bella villetta, quindi
il motore si fermò.
«Sei sicura di non voler
entrare?» domandò dispiaciuto Ethan, anche se già conosceva la risposta.
«No, è meglio di no – replicò
infatti Miss Parker – E poi il nostro aereo per new York parte tra un paio
d’ore e noi non vogliamo certo perderlo, vero Sean?» aggiunse poi rivolgendo un
tenero sorriso al bambino, che dal sedile posteriore pareva ascoltare con
interesse le loro voci, insieme al suo coniglietto di peluche.
Scuotendo il capo rassegnato,
Ethan scese dall’auto e aprì il portabagagli per scaricare la sua borsa.
Anche Miss Parker uscì
dall’abitacolo e sbirciò oltre la siepe per vedere un’ultima volta le persone
radunatesi allegramente attorno alla griglia fumante. Oltre a Jarod e ai suoi
genitori, c’erano Emily, Jay e Kimberly con la sua famiglia, Broots insieme
alla piccola Debbie, Sydney con Michelle e Nicholas, Frank Dawson e Angelo,
ormai inseparabili…e tutti sembravano essere felici. Era bello vederli così e
pensare che un po’ era anche merito suo.
«A loro dispiacerà…soprattutto
a Jarod» tentò ancora di persuaderla Ethan.
«Salutalo tu per me» disse Miss
Parker volgendosi verso il fratello.
«Allison…»
«Non devi preoccuparti Ethan.
Io e il piccolo Sean ce la caveremo» lo rassicurò guardando con affetto il
bambino che li fissava entrambi incuriosito, quasi stesse seguendo il filo del
loro discorso.
«Adottare Sean è stato molto
bello da parte tua, ma…»
«Non potevo permettere che
crescesse in un istituto – lo interruppe categorica lei – So che non sarà
affatto facile. Sean non è un bambino come tutti gli altri, le sue doti
eccezionali potrebbero creargli grossi problemi se non imparerà a conviverci.
Ma io lo aiuterò e soprattutto farò
l’impossibile perché abbia ciò che finora gli è stato negato: una vita normale
e il calore di una famiglia, anche se dovrò farlo da sola»
«Tu non sarai mai sola Allison
– ribatté Ethan prendendole affettuosamente le mani – Forse noi non siamo quel
che si dice tradizionalmente una famiglia, ma potrai sempre contare su di me,
anche se saremo lontani»
«Lo so - sussurrò la donna,
abbracciando calorosamente il fratello – Ma adesso vai, ti stanno aspettando»
Ethan si staccò con rammarico
da lei, le diede un leggero bacio sulla guancia e s’incamminò lungo il vialetto,
accolto da festosi saluti e allegre risate.
Miss Parker sorrise a sua
volta, poi volse le spalle alla casa…per sempre.
Una parte della sua vita, forse
la più lunga e dolorosa, si era definitivamente conclusa. Il Centro era
distrutto, coloro che lo avevano creato e sostenuto sarebbero stati processati
e condannati per i loro crimini, mentre le vittime di tante angherie potevano
infine vivere in pace.
Anche lei era finalmente libera
di andarsene, per incominciare una nuova vita lontano da Blue Cove, lontano il
più possibile dal suo passato da dimenticare…lontana dalla tentazione di
seguire il suo cuore e restare con Jarod, pur sapendo che il suo era un amore
impossibile. Ecco perché aveva venduto tutto, casa, proprietà, titoli, ecco
perché si stava dirigendo a New York, da dove avrebbe poi proseguito per
Parigi. Sì, Parigi, dall’altra parte dell’oceano. Era sufficientemente lontano.
Sua madre era stata felice lì tanto tempo prima, persino lei lo era stata,
anche se solo per poche ore e forse lo sarebbe stata di nuovo insieme al
piccolo Sean.
A dire il vero tutta quella
libertà, cadutale addosso così all’improvviso dopo anni di prigionia, la
spaventava un poco. Essere per la prima volta padrona della propria vita era
eccitante e al tempo stesso inquietante. E poi l’attendeva un compito assai
difficile: ne era davvero all’altezza? Infondo non aveva la più pallida idea di
come si facesse a fare la madre…e se avesse fallito?
Ah basta! Non aveva più tempo di
pensare alle sue paure, c’era qualcuno di cui doveva occuparsi, si disse
risoluta aprendo la portiera posteriore per controllare premurosa che il
bambino fosse sistemato bene sul sedile. Poco importava la sua inesperienza,
avrebbe imparato tutto quel che c’era da imparare. Aveva aiutato lei
quell’esserino così piccolo e indifeso eppure straordinario a venire al mondo,
lei lo stava stringendo tra le braccia quando aveva strillato la prima volta,
lei lo aveva cullato per calmarlo. Mai e poi mai avrebbe permesso a qualcuno di
fargli ancora del male.
«Staremo bene insieme io e te,
vedrai» gli sussurrò e il piccolo incredibilmente le sorrise, stringendo i suoi
minuscoli ditini attorno al suo indice, quasi avesse capito il senso della sua
promessa.
«Su, è ora di muoversi» disse
poi Miss Parker richiudendo lo sportello posteriore e apprestandosi a risalire
al posto di guida ma…
«Te ne vai senza nemmeno
salutare?»
Oh no…era proprio la sua voce
quella. Si era inventata ogni tipo di scusa per sfuggirgli, per poterlo evitare
durante le ultime tre settimane, visto che non se la sentiva proprio di
affrontarlo. E men che meno se la sentiva in quel preciso istante, anzi,
avrebbe di preferito di gran lunga sparire senza dargli spiegazioni, ma a quel
punto non aveva altra scelta.
«Questo è il tuo momento, il
tuo gran giorno – si decise a dire voltandosi lentamente verso Jarod - E
io...insomma, non voglio intromettermi»
«Ma non dire sciocchezze!»
l’apostrofò lui sorridendole mentre si avvicinava.
«E poi rischio di perdere l’aereo»
seguitò visibilmente tesa la donna, indietreggiando per poi aprire la portiera.
Meglio mantenere le distanze…e
filarsela prima possibile!
«Allora prendine un altro –
insistette lui appoggiandosi col braccio all’auto e richiudendo lo sportello -
Anzi, non partire affatto» aggiunse fissandola intensamente con quei suoi
espressivi occhi scuri.
Il suo profumo, il suo
respiro…era così vicino…troppo vicino, si disse Miss Parker temendo che lui
potesse sentire quanto le batteva forte il cuore.
«Jarod…»
«Andiamo Parker, ci sono
proprio tutti – le sussurrò - Manchi solo tu»
«No, ti ringrazio – rifiutò
secca lei scostandosi - Credo proprio che sarei di troppo»
«E perché mai? Se questo gran
giorno finalmente è arrivato il merito è anche tuo»
«Già, ed è stata colpa mia se è
arrivato solo adesso»
«Ma no che non è stata colpa
tua» affermò convinto Jarod avvicinandosi di nuovo a lei.
«Ah no? - obiettò sarcastica
Miss Parker – Forse dovresti ripensare a quel che è successo negli ultimi
cinque anni»
Lui sospirò costernato. «E tu
dovresti smetterla di biasimare te stessa - le disse - Io non l’ho mai fatto»
«Bè, avresti dovuto»
«Per quale motivo? – ribatté
lui caparbio – So che non hai mai voluto farmi del male. Non ho mai visto
crudeltà nei tuoi occhi, solo tanta tristezza. La stessa tristezza che c’era
nei miei – aggiunse prendendole dolcemente il volto tra le mai – Io e te siamo
legati, Allison. Lo saremo sempre. E io non potrei provare per nessun’altra ciò
che sento per te…non andartene ti prego» mormorò, quando le sue labbra
sfioravano ormai quelle frementi di Miss Parker.
«Ma perché non vuoi capire?! –
sbottò di colpo lei allontanandolo. Che stava facendo?! Non doveva ascoltarlo,
o avrebbero finito col soffrire tutti e due, si disse furiosa per la propria
debolezza – Tra noi non può funzionare»
Jarod provò a dire qualcosa ma
lei non lo lasciò parlare.
«So che adesso pensi davvero
ciò che hai detto. Sei convinto che quel che è stato non ha importanza e credi
sul serio di avermi perdonata, ma il passato non si può cancellare»
«Allison…»
«No, ascoltami. Quello che ho
fatto a te e alla tua famiglia è stato…è stato orribile, imperdonabile. E se
restassi, un giorno arriveresti a rinfacciarmelo, ne sono sicura e…»
«Tu ne sei sicura?!»
intervenne allibito lui. Ma che stava dicendo?!
«…e io non potrei sopportarlo,
non…»
«Basta così! – l’interruppe a
quel punto Jarod, mettendole un dito sulle labbra – Tu hai stabilito che tra di
noi non può funzionare e secondo te io dovrei semplicemente accettare la tua
decisione…bè scordatelo! – l’assalì risoluto, bloccandola contro la vettura -
Adesso zitta e stammi a sentire»
Indispettita da una tale
irruenza, Miss Parker tentò di protestare, ma non le riuscì.
«Tanto per cominciare, io non
ho proprio niente da perdonarti»
Lei fu ancora sul punto di
ribattere ma l’altro seguitò imperterrito.
«Tu piuttosto non riesci a
perdonare te stessa, anche se non capisco perché. Io ti ho sempre considerata
una vittima, proprio come me. Non eri che una bambina quando tutto questo ebbe
inizio»
«Ma poi sono cresciuta» osservò
tristemente lei.
«Sì, senza l’amore di tua
madre, con un padre freddo e calcolatore che non ha mai capito, anzi ha sempre
ignorato quanto avessi bisogno del suo affetto – le disse più dolcemente Jarod
– Lui ha sfruttato la tua devozione, il tuo disperato desiderio di compiacerlo
e ottenere il suo amore solo per plagiarti, per indurti a fare ciò che non
volevi»
«Lo so - ammise amaramente Miss
Parker dopo qualche istante - Infondo credo di averlo sempre saputo. Ma purtroppo
ho iniziato ad agire di conseguenza quando ormai era troppo tardi e gli ho
permesso di fare del male a tante persone…a te, a Tommy, alla tua famiglia e
questo non riesco proprio a perdonarmelo»
«Volevi solo che tuo padre ti
amasse, non puoi fartene una colpa – lei fece per replicare, ma lui continuò –
Devi smetterla di pensare a come avresti potuto cambiare il passato. Oramai non
ha più senso, puoi solo farti del male. Lasciati tutto alle spalle e pensa al
futuro…al nostro futuro»
Miss Parker affondò nei suoi
occhi assorti uno sguardo carico d’incertezza. Avrebbe tanto voluto farlo,
però…
«Io ti amo Jarod - gli confessò
- Non sai quanto. Ma temo che il passato finirà per dividerci prima o poi»
«Non succederà» le promise lui
con una semplicità disarmante, rubandole finalmente un flebile sorriso.
«Come lo sai?» gli chiese ormai
fortemente tentata di restare.
«Lo so perché anch’io ti amo e
non riesco proprio ad immaginare la mia vita senza di te, ora che finalmente
posso averne una – rispose lui cingendola e attirandola a sé – Non posso sapere
cosa ci accadrà in futuro, ma sono certo che niente potrà dividerci, se non
saremo noi a volerlo…e in ogni caso, io voglio correre il rischio»
Lei seguitava a fissarlo
rapita, senza dire una parola. E se avesse avuto ragione? Forse valeva la pena
di correre il rischio, infondo non aveva senso rinunciare a lui solo perché
aveva paura che potesse finire.
«E tu Allison..? – le sussurrò
cercando insistentemente la sua bocca - Cos’è che vuoi veramente?»
Non aveva certo bisogno di
pensarci su per rispondere.
«Voglio te».
(scritto da Kay)