"Quell'estate
del '47 (Summer of '47)" (2.4)
Un titolo
romantico e dal fascino deliziosamente retrò per una puntata pervasa dal
gusto di altri tempi, immersa in atmosfere fumose da “Casablanca”.
Un ottimo episodio, finalmente lo posso dire senza remore, degno del
miglior Roswell.
Partiamo dall’ambientazione: perfetta la ricostruzione della città degli
anni ’40, con abiti e pettinature curati nel dettaglio, auto d’epoca
tirate a lucido, brillantina e divise sfavillanti. Tutti gli ingredienti
indispensabili per una puntata indimenticabile. Gli spoilers questa volta
hanno dato onore al merito e non credo che qualcuno possa dirsi deluso dal
risultato.
A questo proposito una menzione particolare merita il locale dove si
muovono i militari e dove si snoda la vicenda, tra ventilatori quasi
assopiti che girano stancamente tentando invano di dissipare il velo di
fumo che caratterizza, anche nell’immaginario popolare condizionato dai
kolossal dell’epoca, i bar americani di metà secolo.
I personaggi ci sono tutti: la giornalista d’assalto (interpretata
simpaticamente da Maria) che tenta lo scoop della sua vita; due militari
amici-rivali che si destreggiano tra la tentazione di una carriera facile,
l’amore per la patria, e una questione più grande di loro che non arrivano
a comprendere completamente; i superiori autoritari e intolleranti che non
mancano mai; un’infermiera timida e intraprendente (Liz) che si trova
imprigionata in una storia più grande di lei; segreti di stato carpiti a
un prezzo altissimo; documenti top-secret sulla cui veridicità e
autenticità si potrebbe discutere per altri cento anni.
L’interpretazione iniziale di Michael, nei panni di sé stesso, che dà il
benservito prima a Maria, poi a Liz e infine all’anziano militare mi aveva
lasciato sulle prime un po’ perplessa, lo confesso.
Pur essendo in linea col suo carattere la strafottenza ostentata appariva
comunque poco credibile. In realtà subito dopo assistiamo ad un Michael
via via sempre più interessato ai racconti dell’uomo, fino ad assumere,
sul finale, un atteggiamento di amore quasi filiale nei confronti di chi,
senza saperlo, gli aveva salvato la vita ed era ora in procinto di perdere
la propria…
Quindi definirei tenero e commovente il rapporto che si instaura con
l’uomo che, giunto alla fine della propria esistenza, trova finalmente le
risposte che ha cercato per quarant’anni e riesce a dare un significato
alle cose incredibili alle quali aveva assistito. Mi ha colto di sorpresa
l’improvvisa decisione di Michael di rivelare la propria identità dando
prova dei suoi poteri, facilmente spiegabile però in relazione al grado di
riconoscenza e affetto che ormai lo lega all’uomo.
Ho apprezzato molto il continuo passaggio dal passato al presente,
cinematograficamente sottolineato dalla persistenza di elementi comuni: la
porta che si apre, la birra servita dal barman, i personaggi seduti sul
cofano dell’auto.
Questa tecnica della continuità tra passato e presente richiama alla mente
un kolossal di qualche anno fa, in cui il relitto della nave veniva fatto
riemergere e rivivere nell’immaginario del pubblico, per poi tornare a
sprofondare nelle profondità dell’oceano, col suo carico di storie e vite
umane perdute.
Un’ottima scelta, direi, da parte della regia, sempre presente ma in modo
sapiente e discreto, appena percettibile. Una specie di “occhio
invisibile” che segue con amorevole cura le proprie creature…
Grandiosa la scena del confronto finale tra i due militari, quando il
nostro “Max” accusa il pugno da parte di “Michael”, quasi a sanare quella
situazione rimasta in sospeso nella prima serie quando era stato Max,
nelle vesti del capo, a sferrare un pugno a Michael per ricondurlo alla
ragione.
Una specie di “regolamento dei conti”…Apprezzabile anche la scena della
finta sbornia, simulata suo malgrado da “Max” per incastrare l’amico e
scoprire quali sarebbero state le sue mosse. Un tradimento doc, oseremmo
dire…non esente tuttavia da comprensibili rimorsi di coscienza.
Ho amato anche gli effetti speciali, che vanno dal frammento metallico
(che riprendeva la propria forma anche dopo essere stato manipolato) alla
comparsa degli alieni rappresentati, secondo la migliore tradizione
Hollywoodiana, nelle vesti di esseri di luce, dai lineamenti appena
percettibili, che richiamano alla mente le eteree creature di Spielberg
degli anni ’70.
Grande l’interpretazione di Brendan Fehr, intorno al quale stavolta ruota
l’intera vicenda, che lo vede praticamente sempre sotto i riflettori,
nella Roswell del passato così come in quella del presente. Le
intemperanze iniziali sfumano in un apprezzabile atteggiamento di scuse
che non può non sciogliere anche un iceberg, soprattutto partendo dal
presupposto di un carattere orgoglioso e forgiato da lunghi anni di
dolorosa solitudine.
“Isabel”, infine, ha avuto questa volta un ruolo minore ma ottimamente
interpretato: l’abbiamo vista infatti nella veste inedita della “femme
fatale”, una giovane vedova dallo sguardo languido e carico di allusioni,
una creatura modellata da una società ansiosa di contatti umani e di
comprensione nei confronti di un mondo circostante che appariva impazzito,
tra gli orrori della guerra, lontana, per la verità, ed eventi
incomprensibili. I personaggi si muovono infatti tra spie e misteriose
sparizioni di individui considerati scomodi, misteriosi hangar popolati di
soldati in fermento e uffici imbottiti di documenti segreti e lettere di
dimissioni già pronte.
Un Roswell del tutto inedito, quindi, ma che ritrova nel finale il suo
spirito più tipico: restiamo infatti col fiato sospeso nell’apprendere che
gli alieni non sono quattro, come abbiamo sempre creduto, bensì otto. Non
dubitiamo che presto la storia prenderà, per l’ennesima volta, una
direzione ancora inedita e sorprendente. Non ci resta che attendere… |