Roswell.it - Fanfiction

SFORTUNATE COINCIDENZE


Riassunto: Il passaggio nelle vicinanze del sistema solare di qualcosa dall’apparente origine artificiale causa uno strano fenomeno. Gli strumenti della NASA ne registrano la traccia risalendo fino alla sorgente, situata da qualche parte nel New Mexico...

Data di stesura: dal 2 febbraio al 17 marzo 2002.

Valutazione: adatto a tutti.

Diritti: Tutti i diritti dei personaggi appartengono alla WB e alla UPN, e il racconto è di proprietà del sito Roswell.it.

La mia e-mail è ellis@roswellit.zzn.com


Liz si agitò nel sonno, i lunghi capelli incollati al viso coperto di sudore, e infine spalancò gli occhi con un ansito. Trattenne per un attimo il fiato, il cuore che batteva forte nel petto, poi si guardò intorno cercando di capire dove fosse. La sveglia segnava le due del mattino e dalle tendine di pizzo alla finestra filtrava la debole luce dei lampioni che illuminavano la strada secondaria su cui dava il lato sud della casa. Vide il giovane sdraiato al suo fianco e sorrise. “Max! Oh, Max, sei tu... sei... davvero tu...“ Allungò una mano verso di lui e gli sfiorò delicatamente il braccio. Emise un profondo sospiro di sollievo poi richiuse gli occhi e si volse sul fianco dandogli le spalle. La pancia si era ingrandita un bel po’, nelle ultime settimane, e sembrava che Shiri, la notte, prediligesse il lato destro perché non appena si sdraiava sentiva tutto il peso spostarsi, e sapeva che l’unico modo per riuscire a dormire era assecondarlo girandosi su quel fianco.
Come sempre sensibilissimo ai suoi stati d’animo, Max dovette rendersi conto della sua inquietudine perché di lì a poco sentì il suo braccio scivolarle sullo stomaco. A quel tocco delicato anche il piccolo essere che stava crescendo dentro di lei si placò e la calma tornò a regnare nella stanza.
Quando si svegliò di nuovo Liz scoprì che erano passate solo tre ore, ma la cosa non la disturbò affatto. Perché quella volta non era stato un incubo a svegliarla, bensì i teneri baci di Max sulla sua spalla e le lente carezze sensuali con cui la stava solleticando. Coprì quella mano calda con la propria sorridendo poi girò il viso di lato in un silenzioso invito a baciarla sulla bocca, cosa che il giovane fece prontamente. Per non pesare sul loro bambino Max aderì alla schiena di Liz e la strinse forte a sé circondandola con entrambe le braccia prima di darle mille piccoli baci dietro l’orecchio e sul collo. - Ti amo, Liz, ti amo con tutto il mio cuore... - bisbigliò teneramente contro la sua guancia.
A quelle parole la ragazza sorrise con aria sognante. - E io amo te, Max... - rispose pianissimo, poi si appoggiò sul gomito e con un certo sforzo si girò verso di lui. - Tienimi sempre così, ti prego... - aggiunse raggomitolandosi contro il suo petto.
- Hai fatto ancora dei brutti sogni? -
- Sì... - Liz annuì serrando leggermente le labbra. - Ho sognato che tu... oddio, non so come spiegarlo... ma... era come se... se tutto questo non fosse reale e... allo stesso tempo... tu eri davvero tu... Scusami, non riesco ad essere più chiara... So solo che ho rischiato di perderti e... e questa è una cosa che mi fa impazzire!... -
- Anch’io impazzirei se tu non fossi più con me... Oh, Liz, ne abbiamo passate così tante in questi anni, e il futuro non sarà mai generoso con noi... Io... ti ho trascinato in tutto questo... A volte vorrei non averti mai coinvolto nella mia vita... -
Lei gli serrò le braccia al collo stringendoglisi contro, incurante dei movimenti di protesta nella sua pancia. - Non dirlo, Max, non dirlo mai più! -
Il giovane lasciò che la dolcezza di quel corpo tiepido sciogliesse il suo dolore poi la costrinse gentilmente a girarsi di nuovo dandogli le spalle e si adagiò contro di lei. - Mi dispiace, Liz, non volevo farti soffrire... - disse piano.
- Io soffro sempre quando parli in questo modo... quando dici che non avremmo dovuto stare insieme... Noi... non possiamo lottare contro il destino... questo l’ho imparato a mie spese... - Sorrise rilassandosi nel suo abbraccio. - E il destino ha unito le nostre vite. Che noi lo volessimo o meno, non lo credi anche tu? -
- Sì, hai ragione - Max la premette maggiormente a sé. - Hai ragione... - ripeté sfiorandole i capelli con le labbra. - La mia vita... è sempre stata nelle tue mani... E tu l’hai custodita con più cura di quanto meritasse... -
- Mio signore, a volte sai essere davvero irritante. -
Il giovane avvertì il riso nella sua voce e le diede un piccolo bacio sulla nuca. - Dormi, adesso, è ancora molto presto... -
- Sì, mio signore... - Liz sorrise scivolando nel sonno senza neppure accorgersene mentre Max rimase a vegliarla finché i raggi del sole entrarono di prepotenza ad annunciare il nuovo giorno.
Allora la ragazza tirò indietro le coperte e si sollevò lentamente a sedere. - Non si direbbe proprio che sono solo al quarto mese... - borbottò osservandosi il pancione.
Max le fece scorrere il dorso della mano sulla schiena. - Quando ti ho guarito, quel giorno al Crashdown, ho dato il via a dei cambiamenti, nel tuo corpo, che queste gravidanze stanno accentuando sempre di più. Ricordi quello che disse la proiezione dei navigatori di...? -
- Sì, sono l’aliena - lo interruppe lei. Si stirò con evidente piacere prima di infilare la vestaglia abbandonata ai piedi del letto. - Capito, gente? Io sono nata a Roswell, New Mexico, ma che importanza volete che abbia? Anche Max, e Michael e Isabel sono nati lì, ma loro sono... normali! -
- Questione di punti di vista, non credi? - Il giovane si mise in ginocchio dietro di lei e le massaggiò le reni. - Credo che Shiri nascerà prima di quanto pensi... Su Antar il periodo della gravidanza dura meno di un terzo di quello umano, e tu ti stai... - sorrise mentre cercava la parola giusta, - adattando al mio mondo d’origine... -
- Ne sono davvero felice! - Si appoggiò contro di lui ed alzò una mano per sfiorargli il volto. - L’unica cosa positiva è che non mi sono più ammalata, non ho avuto un raffreddore o un mal di gola neanche quando abbiamo fatto quel tuffo in piena notte... ma naturalmente il prezzo da pagare è che ormai nessuno dovrà esaminare il mio sangue. -
- Già... - Max depose un leggero bacio sul suo palmo poi la sospinse in avanti. - Forza, diamoci da fare o arriveremo in ritardo! Oggi ho l’esame di biologia molecolare alla prima ora, e poi un test di analisi matematica: ho bisogno di fare una megacolazione o non avrò la forza di arrivare alla pausa per il pranzo! -
Sbuffando Liz si alzò e andò nella cameretta di Jason per occuparsi di lui mentre Max si lavava e vestiva prima di darsi da fare in cucina.
Qualche minuto più tardi, osservando l’attenzione con cui il bimbo seguiva ogni movimento del padre mentre lavorava ai fornelli, la ragazza si mise a ridere divertita. - Credo che fra un po’ si rifiuterà di mangiare latte e biscotti e vorrà uova strapazzate e pane tostato, sai? Del resto, ha già messo un bel po’ di denti, questo coniglietto!... -
Max si avvicinò al tavolo deponendovi due piatti fumanti. - Forse dovrei chiedere a mia madre di venire per qualche giorno. E’ vero che Jason non è un bambino come gli altri, ma sicuramente lei ne sa più di noi su quello che può mangiare alla sua età... -
Mentre dava un morso ad un’invitante fetta di pane appena spalmata con della marmellata di pesche Liz si strinse nelle spalle. - Beh, se vuoi farla venire per me non ci sono problemi, anche se non credo che potrà aiutarci molto. Come hai detto tu, Jason è un bambino speciale... -
Quasi a voler confermare le sue parole il piccolo prese con entrambe le manine la ciotola di plastica colma a metà di latte e la sollevò portandosela alla bocca senza far colare neppure una goccia.
- Vuoi ancora dei biscotti, tesoro? - chiese Max tendendo la scatola verso di lui.
- Sì, grazie, papà. - La voce argentina di Jason fece sorridere Liz con fare pensoso. - E’ passato da un borbottìo quasi inintelligibile alla pronuncia di frasi complete praticamente da un giorno all’altro. E’ così che succede fra la tua gente, Max? -
Il giovane scosse la testa e si affrettò a terminare quello che aveva nel piatto per poter rimettere in ordine la cucina. - Non lo so. Non ho mai avuto a che fare con bambini così piccoli, e del resto crescere un figlio è qualcosa che anche su Antar si impara con l’esperienza diretta... - Guardò il figlio intingere diligentemente il biscotto nel latte e sorrise intenerito. - Ed è un’esperienza meravigliosa. - aggiunse piano.
Liz finì di mangiare e sollevò il bimbo dalla sedia deponendolo poi a terra. - Vieni, andiamo a lavarci i denti! - disse prendendolo per mano.
Una volta in bagno aprì il rubinetto del lavandino poi prese il figlio in braccio e cominciò a strofinargli i dentini con il dito. - Ecco, adesso sei tutto pulito, vedi? - Gli indicò l’immagine riflessa nello specchio e rise con lui. - Ora torna da papà mentre io mi faccio una doccia velocissima, o arriveremo davvero tardi! -
Un quarto d’ora dopo erano davanti alla porta di Joan Darwin, una simpatica donna sui quarant’anni che aveva organizzato un asilo infantile a carattere familiare nella sua grande casa dotata di un giardino curatissimo e con un angolo adibito a spazio giochi. Sposata da sei anni, aveva scoperto di non poter avere figli e così si era inventata quel sistema per potersi dedicare ugualmente ai bambini. Liz aveva trovato una volta un foglietto pubblicitario attaccato nella bacheca di un grande centro commerciale ed era andata con Max a vedere di cosa si trattasse. Joan Darwin aveva fatto loro un’ottima impressione così, ormai da gennaio, Jason passava tutte le mattine in compagnia di altri quattro bimbi e, al termine delle lezioni, o lei o Max andavano a riprenderlo. Fortunatamente i Darwin distavano solamente due isolati da loro, così riuscivano a rispettare gli orari dei corsi senza alcuna difficoltà.
Forse la donna si era sorpresa nel vedere come Jason, pur avendo meno di un anno, fosse capace di camminare e parlare come gli altri bambini, che erano un poco più grandi, ma non aveva fatto commenti e si era presa cura di lui con molto affetto. Del resto il bimbo era splendido, aveva grandi occhi verde nocciola con lunghe ciglia scure, le fossette sulle guance e folti capelli castani, un carattere allegro e socievole e una mente fin troppo sveglia che gli aveva consentito di adattarsi al nuovo ambiente in meno di una settimana. Gli altri bambini giocavano volentieri con lui ed erano ancora troppo piccoli per sorprendersi quando, di tanto in tanto, una macchinina o un pastello cambiavano colore tra le sue dita.
Quel giorno, dopo essere passata a prendere Jason, Liz tornò a casa e preparò un pranzo veloce per loro due. Max era rimasto a mangiare alla mensa del campus perché doveva seguire dei corsi anche nel pomeriggio, così lei lo aveva lasciato in compagnia di Isabel e se n’era andata.
Dopo aver rigovernato andò a sdraiarsi sul letto con il figlio, che si addormentò subito, mentre lei si accinse a studiare gli ultimi capitoli di un voluminoso libro di fisica dei quanti. Verso le quattro e mezza girò soddisfatta l’ultima pagina e diede una dolce pacca sul sederino di Jason. - Sveglia, tesoro, è ora di fare merenda! -
Aveva appena acceso il bollitore del tè quando sentì la porta di casa aprirsi e delle voci risuonare nell’ingresso. - Max, Isabel, sto preparando il tè, lo volete anche voi? - chiese cercando le tazze nel pensile a lato della finestra.
- Sì, grazie. - Max entrò in cucina e le si avvicinò per darle un veloce bacio sulle labbra.
Isabel invece andò accanto a Jason, seduto su una coperta intento a giocare con un trenino di legno, e lo strinse dolcemente a sé. - Ciao, coniglietto! -
- Ciao, zia... - Il bimbo le sorrise mostrandole con orgoglio il suo giocattolo. - Ti piace? Me lo ha regalato papà! -
- E’ bellissimo! - Isabel ammirò doverosamente il tesoro del piccolo e sentì la gola serrarlesi per l’emozione. Invidiava Max e Liz per il loro tenero Jason, e aspettava con la loro stessa ansia l’arrivo di Shiri. Cercava di non pensare mai al bambino cui aveva impedito di nascere, ma a volte sentiva un profondo dolore per quella perdita e si domandava se, tutto sommato, avesse fatto la cosa giusta. Un giorno ne aveva parlato con Max e il giovane era riuscito a trovare le parole per confortarla, per spiegarle che in quel momento, in quella situazione, era stata in effetti l’unica scelta possibile. Non buona, non giusta. Solo possibile. Inevitabile, quasi, date le circostanze. Ma adesso lei stava insieme a Morgan, si amavano, e non c’era più lo spettro dell’FBI a perseguitarli. Ora potevano decidere di avere un figlio loro, se lo desideravano. E lei lo desiderava... Cercò di scuotersi dalla malinconia e si raddrizzò tenendo Jason in braccio. - Come procede la gravidanza? Max dice che ormai potrebbe succedere da un giorno all’altro... -
- Beh, a giudicare dai calci che tira direi proprio di sì! - Liz portò in tavola la zuccheriera ed il latte. - E devo confessare che ho un po’ paura... Quando è nato Jason Michael è stato bravissimo, e sicuramente Max se la saprà cavare altrettanto bene, ma... -
- ... ma saresti contenta di averlo nelle vicinanze... - Max prese la scatola dei biscotti dalle mani di Liz e la fissò negli occhi. - Ti capisco. Se non altro lui ti ha già aiutato con Jason, mentre io... - Scrollò la testa distogliendo lo sguardo da lei. - Scusa, ti avevo promesso che non ne avremmo più parlato... Comunque stai tranquilla, l’ho chiamato poco fa e ha detto che verrà con Maria sabato e si fermerà fino alla nascita di Shiri. -
- Oh, Max, grazie! - Liz lo abbracciò contenta e nascose il viso nell’incavo della sua spalla. - Non devi essere geloso di lui, però, sai? Io voglio che sia tu a controllare che vada tutto bene, solo che lui... -
- Shh, lo so... non preoccuparti... - Il giovane la strinse a sé e chiuse gli occhi. Non voleva ricordare quei giorni, non poteva. Era troppo doloroso, e si sentiva in colpa per tutto quello che era stato. Nonostante le parole generose di Liz, lui avvertiva in fondo al cuore che, se avesse voluto, avrebbe potuto risparmiarle molta sofferenza e sapeva che non sarebbe mai riuscito a perdonarsi per quello che le aveva fatto. Le carezzò dolcemente i capelli. “Liz, amore mio...” La cullò con tenerezza poi sorrise. - Questa bambina è davvero impaziente! - Nel dire così pose una mano sul suo ventre e sentì un altro calcio. - Adesso siediti, al tè ci penso io... - La sospinse sulla sedia più vicina poi le diede un bacio su una tempia. - Riposati, perché credo proprio che fra non molto non sarà più possibile! -
A quelle parole Liz sgranò gli occhi sorridendo ad Isabel. - Aiuto... -
Dopo aver rimesso tutto in ordine i tre ragazzi si spostarono nel soggiorno, dove si trattennero per un poco a chiacchierare, poi Isabel porse al fratello il libro che aveva lasciato sul tavolino davanti al divano. - Ti prego, non voglio distrarti più del dovuto! Mi dispiacerebbe molto se domani non facessi uno splendido esame solo perché non ti ho permesso di finire di ripassare... -
Max prese il volume con una smorfia. - Gentile come sempre, Isabel! -
La ragazza si mise a ridere poi estrasse dalla borsa un libro ed un quaderno di appunti. - Tranquillo, come vedi ho anch’io qualcosa da fare! Del resto, se quest’estate voglio lavorare presso il laboratorio di ricerca dell’università di Las Cruces devo avere degli ottimi voti in fisica nucleare e matematica. -
- Hanno accettato la tua richiesta?!? - esclamò Liz con entusiasmo.
- Sì. Ma ho saputo che qualcuno ha inviato il proprio curriculum al centro di ricerche biochimiche di El Paso... -
- Beh, ci ho provato. Però sto ancora aspettando la loro risposta. Max, invece, è stato già contattato -
- Vedrai, prenderanno anche te! - Max tirò gentilmente una ciocca di capelli alla ragazza poi si mise il libro sulle ginocchia e s’immerse nello studio.
L’ora di cena era passata da un pezzo quando si decisero a mettere via i libri. Isabel telefonò per ordinare delle pizze mentre Liz preparava della minestrina per Jason.
L’indomani Liz, che aveva lezione nella tarda mattinata, accompagnò Max in macchina poi proseguì per il centro perché doveva andare in banca a ritirare un nuovo libretto degli assegni. Portò con sé Jason, che adorava andare in giro con la madre, e fece tutto il percorso dal parcheggio alla banca rispondendo alle mille domande del bimbo. Quando infine entrarono nello spazioso locale dalle pareti di vetro fumé il piccolo si guardò intorno con muto stupore. Non era mai stato prima in un posto del genere e osservò tutto con grande attenzione. Per questo fu l’unico a notare l’ingresso dell’uomo che indossava un pesante giubbotto di lana a scacchi e una borsa di tela a tracolla, ma non si rese conto del pericolo che rappresentava per tutti loro. Come poteva un bambino della sua età realizzare che quella che teneva stretta tra le dita, seminascosta dal risvolto del giaccone, era un’arma?
Quando l’uomo gridò le sue minacce Liz si girò di scatto verso di lui serrando convulsamente la manina del figlio, che sollevò la testa per guardarla con aria interrogativa.
- Avanti, tirate fuori tutti i soldi che avete! - Il malvivente mosse il braccio in un lento arco mostrando la pistola e si avvicinò alla prima delle tre casse. - Svelta! - Attese che l’impiegata mettesse il denaro nella borsa che aveva gettato sul ripiano poi indietreggiò fino alla cassa successiva senza mai perdere di vista gli scarsi clienti di quell’ora mattutina. Quando anche la terza cassa venne vuotata girò sui tacchi e si avviò verso l’uscita ma attraverso la porta a vetri vide arrivare dei poliziotti. Uno degli impiegati doveva aver premuto il pulsante dell’allarme silenzioso e ora stavano venendo a controllare. Ma lui non si sarebbe fatto prendere, no di certo! Tese una mano e afferrò il colletto della giacca della persona più vicina a lui.
Sentendosi tirare all’indietro Liz emise un grido soffocato. “- Oddio, Jason! Jason, ti prego, pensa a nonno Phillip! Nonno Phillip! Va’ da lui! -” Lasciò andare la mano del bimbo per cercare di liberarsi della presa ferrea che la stava trascinando via e gemette. - Jason, nonno Phillip! - disse con voce rotta, terrorizzata nel vedere che il piccolo la seguiva invece di rimanere dov’era. - Vai dal nonno, ti prego! - balbettò contorcendosi inutilmente, poi l’uomo le diede un violento strattone mandandola a sbattere contro la porta. Stordita dal dolore Liz si ritrovò ad essere trascinata in mezzo al marciapiedi fino ad un’auto malridotta, al cui interno venne spinta senza troppi complimenti.
Nel vedere la madre portata via il primo pensiero di Jason era stato di andare con lei ma poi aveva obbedito al suo ordine e si era concentrato sulla figura del nonno. Nella confusione che seguì la fuga del rapinatore nessuno si accorse della sua scomparsa, ma il padre di Max, nel vederlo apparire davanti a sé, trasalì violentemente sulla sua poltrona e si portò una mano al cuore. - Jason! Vuoi farmi venire un infarto? - Si chinò a prendere il piccolo in braccio. - Fortuna che sono solo, in questo momento!... Cinque minuti prima e sarebbe stato davvero un bel guaio! Ma insomma, non te l’hanno insegnato quei benedetti ragazzi che certe cose non le devi fare? - Lo strinse affettuosamente a sé e si avviò alla porta. - Vieni, andiamo a casa. Tua nonna impazzirà dalla gioia nel vederti... -
In effetti Diane Evans si prese subito cura del nipotino, mentre il marito andava a telefonare a Max per chiedergli spiegazioni.
Il giovane, che stava uscendo in quel momento dall’aula di biologia, rimase molto sorpreso nel sentire il padre e lo pregò di tenere Jason fino al giorno dopo. - Michael e Maria vengono qui ad Albuquerque, e possono riportarlo loro. Io... scusa ma devo salutarti. Voglio chiamare Liz e sentire cosa è successo... Grazie, papà, e salutami la mamma. Ciao... - Come ebbe riattaccato compose il numero della ragazza ma sentì solo la voce meccanica della segreteria telefonica. Non sapendo cosa pensare andò in cerca della sorella per avvertirla che, invece di tornare a casa, sarebbe andato a cercare Liz. Isabel, non capendo il motivo della tensione che gli segnava il viso, annuì lentamente e rimase a guardarlo mentre usciva quasi correndo dall’edificio.
Mentre camminava a passo svelto verso la fermata dell’autobus vide passare un taxi. Fece allora un cenno all’autista e diede l’indirizzo della banca dove Liz era andata quella mattina. Quando scese davanti alle porte di cristallo antiproiettile sentì il cuore battergli all’impazzata nel vedere un paio di poliziotti confabulare tra di loro. Si avvicinò esitante e sentì che stavano parlando di una rapina avvenuta poco prima. Cercando di non farsi prendere dal panico entrò e si guardò lentamente intorno. C’erano diversi clienti, e gli impiegati erano tutti riuniti in un angolo mentre il direttore della banca parlava con un ispettore di polizia. Liz non si vedeva da nessuna parte. Andò allora verso il gruppo degli impiegati e chiese se avessero visto la ragazza. - Doveva ritirare un libretto degli assegni... Si chiama Liz, Liz Parker... Evans... - aggiunse guardandoli ansioso. - Non è... non è molto alta, ha i capelli scuri lunghi fino alle spalle... Ha vent’anni... -
Una delle cassiere annuì all’improvviso. - Sì! Sì, dev’essere la ragazza che quel delinquente ha preso come ostaggio! Aveva una giacca di pelle e un vestito jeans. Sembrava... incinta? -
A quelle parole Max impallidì. - Sì, è lei. La prego, sa in che direzione sono andati? -
- No, mi dispiace. - La donna scosse desolata il capo. - Le conviene parlare con l’ispettore, lui potrà senz’altro aiutarla... -
Max la fissò senza vederla, le labbra serrate per la preoccupazione. “Liz...” Girò bruscamente su se stesso e raggiunse l’uomo indicatogli. - Mi scusi, io... ho appena saputo che mia moglie è l’ostaggio con cui è fuggito il rapinatore. Ho bisogno di sapere qualcosa, dove sono andati, con quale macchina... La prego, mi aiuti! -
L’ispettore fece un cenno di saluto al suo interlocutore e rivolse tutta la sua attenzione a Max. - Sua moglie? -
- Sì, era venuta in banca, stamane, e una delle impiegate mi ha confermato che è lei che... - Si portò una mano tra i capelli, incapace di proseguire.
- Venga con me. Sono stati predisposti dei posti di blocco e forse li hanno già fermati... - Uscì dalla banca e si diresse verso la propria auto. Prese il microfono collegato alla centrale e sparò una serie di domande, poi interruppe la comunicazione e gli fece cenno di salire. - Andiamo, sembra che siano all’imbocco della statale! -
La vettura partì sgommando, seguita da altre due auto di pattuglia, e di lì a poco raggiunsero il punto in cui gli agenti avevano bloccato il fuggiasco.
Sembrava una situazione di stallo, una di quelle scene che di solito si vedono in televisione, con tante macchine, luci lampeggianti, uomini armati appostati dietro gli sportelli per non essere facili bersagli, ma la cosa terribile era che si trattava della realtà. Quei poliziotti erano davvero preparati a far fuoco, e il rapinatore stringeva febbrilmente contro di sé Liz tenendole una pistola puntata alla tempia. - Fermi! State indietro o l’ammazzo! Giuro che l’ammazzo! -
Max si fiondò fuori dell’auto ancor prima che fosse del tutto ferma e corse verso di loro ma venne fermato da un agente. - Mi spiace, non può andare oltre! Torni indietro, questo non è posto per i curiosi! -
Il giovane si divincolò infuriato. - Quella laggiù è mia moglie! E io non me ne andrò senza di lei! -
L’agente lo riagguantò per la manica. - Si fermi, maledizione! E’ pericoloso! - Aveva appena finito di pronunciare quelle parole quando l’uomo spinse con rabbia l’ostaggio lontano da sé ed alzò le mani in segno di resa.
Liz cadde a terra battendo forte la schiena e sentì un dolore lancinante al basso ventre. Gemette portandosi le mani sulla pancia mentre si metteva d’istinto sul fianco. - Sta’ buona, Shiri, ti prego... Questo... non è il momento... sta’ buona... - La piccola scalciava a più non posso premendo con una forza incredibile. Il viso rigato di lacrime, Liz cercava inutilmente di calmarla carezzandosi con dita tremanti e chiuse gli occhi sforzandosi di respirare piano.
- Liz... - Max, non appena il malvivente aveva lasciato andare la ragazza, era corso da lei incurante dei tentativi degli agenti di fermarlo, e ora era in ginocchio al suo fianco. La prese con delicatezza tra le braccia sollevandola contro il proprio petto e fece scivolare una mano sul suo ventre per accertarsi che la bambina stesse bene. Le diede allora tanti piccoli baci sulla fronte cullandola piano. - Shh, amore, è tutto a posto... -
- Stava... stava per nascere... - La voce di Liz uscì soffocata perché teneva il viso premuto contro la sua spalla, ed il giovane accennò un sorriso. - Ora è di nuovo tranquilla... Ha capito che deve aspettare ancora un po’... Vieni, Liz, torniamo a casa... - Le passò un braccio sotto le ginocchia e si alzò in piedi. - Jason è con mio padre. Michael lo porterà domani... - disse sottovoce mentre camminava verso l’ispettore.
- Bene... - Liz si aggrappò più forte a lui e sospirò. - E’ un bravo bambino... -
- Già. - Max si fermò davanti all’uomo.
- Vuole che chiami un’ambulanza? -
- No, la ringrazio. Io... vorrei andare a casa. Non ha bisogno di noi, vero? -
- No. Sua moglie non può dirci nulla di più di quello che ci hanno detto gli altri testimoni, quindi vada pure. Buona giornata... - Si portò due dita alla fronte come saluto e tornò ad occuparsi del prigioniero.
Il giovane annuì e si diresse verso un bar poco distante. - Adesso ti riposi un poco mentre io telefono per farci venire a prendere da un taxi. Dove hai lasciato la macchina? -
- A tre isolati dalla banca. Max, sei sicuro che Shiri stia bene? -
- Sì, tesoro, l’ho controllata, sta bene. Tu, piuttosto, stai ancora tremando... -
- Anche tu. Ti sento... -
Max varcò l’ingresso del locale e l’aiutò a sedersi ad un tavolo libero poi fece segno alla cameriera di portare del caffè. - Vedi, dopo che mio padre mi ha detto che Jason era andato da lui ho cercato più volte di chiamarti ma tu non hai mai risposto. Sapevo... sentivo... che non ti era accaduto qualcosa di... irreparabile... ma... non mi rispondevi... - Scrollò leggermente le spalle. Credo... di essere ancora spaventato a morte... - aggiunse con un sorriso che sembrava più una smorfia.
Liz gli coprì una mano con la propria. - Come hai detto prima, ormai è tutto a posto. Abbiamo solo bisogno di un po’ di tempo per digerirlo... -
Il giovane abbassò gli occhi sulla fede che brillava all’anulare di Liz. - Sì, certo... - mormorò prima di stringerle la mano con la sua. Lasciò andare le dita della ragazza solo quando la cameriera si avvicinò col bricco del caffé, allora estrasse dalla tasca interna del giubbotto il cellulare e compose il numero della stazione dei taxi.
Quando furono di nuovo a casa Max depose Liz sul letto e sedette al suo fianco. Lei gli sorrise poi si addormentò ed egli le rimase accanto per tutta la mattina, tenendole sempre la mano e carezzandole di tanto in tanto i capelli. Il pensiero del pericolo che aveva corso continuava a sconvolgerlo. Avrebbe voluto sfogare la sua rabbia contro quel mascalzone, avrebbe voluto prendere Liz e Jason e nascondersi su un’isola deserta dove nessuno avrebbe potuto far loro del male. Ma sapeva che non era possibile, e che quel genere di paura era semplicemente il prezzo da pagare per vivere insieme a chi si ama. Con una certa esitazione toccò il ventre teso della sua compagna e percepì le sensazioni che stava provando Shiri. Calore, pace, un velo di impaziente curiosità. La piccola era ormai pronta e presto avrebbe cominciato a spingere per nascere. Tutto sommato era contento del prossimo arrivo di Michael. Sapeva che, nonostante il suo aiuto, Liz avrebbe sofferto ed il solo pensiero lo faceva star male. Aveva bisogno del sostegno di Michael, aveva bisogno di tutto l’aiuto che lui e Maria potevano dargli. Quando si trattava di Liz tendeva a perdere il senso della ragione, e la presenza di qualcuno in grado di mantenere il sangue freddo era assolutamente necessaria!...
Verso le tre la ragazza si svegliò e scoprì Max addormentato accanto a lei. Intenerita, gli mise una mano sulla guancia e lo osservò a lungo. Il suo Max... la sua vita... Sorrise e si spinse il più possibile vicina a lui. Amava il calore del suo corpo, amava il profumo della sua pelle, a dire il vero amava tutto di quel meraviglioso alieno... Chiuse di nuovo gli occhi concentrandosi sul suo lento respiro. “Max, cosa farei senza di te?” Sentì un piccolo calcio e fece una smorfia. “Ok, Shiri, ho capito, vuoi che mi alzi e mangi qualcosa, vero?” Si sollevò su un gomito poi scivolò piano giù dal letto e andò in cucina a preparare il pranzo. - Mio piccolo tesoro, penso che avrai il carattere più deciso e ostinato che si possa immaginare! Ma per adesso ti perdono e ti accontento, soprattutto perché sto davvero morendo di fame... -
Stava finendo di apparecchiare la tavola quando sentì arrivare Max. - Ciao, ti ha svegliato il profumo delle polpette? - lo prese in giro.
- Sì. E il non trovarti accanto a me - Le andò vicino per baciarla poi l’aiutò a mettere il cibo nei piatti.
- Come ti senti? -
- Molto meglio, grazie. Shiri si è tranquillizzata e credo che Michael arriverà in tempo per aiutarci... - Liz si aggiustò una ciocca dietro l’orecchio mentre scostava la sedia. - Ti confesso che sono un po’ spaventata... Sembra stupido perché in fin dei conti ho già avuto un bambino, ma... è più forte di me -
Max le prese una mano e se la portò alle labbra. - Non è stupido, amore mio, è... naturale... Io... ti ho già riportata indietro altre volte eppure... sono spaventato... Credo che... che sia inevitabile... - Si premette il palmo contro la guancia abbassando le palpebre. - Perché ti amo più della mia vita... -
La ragazza trattenne per un attimo il fiato, commossa, poi espirò lentamente. - E io amo te, e ti amerò sempre -
- Grazie.... - Il giovane depose un altro bacio sul palmo della sua mano e cercò il suo sguardo. Grazie... - ripeté con voce sommessa.
Mangiarono in silenzio poi insieme rimisero a posto la cucina e andarono in soggiorno a guardare la televisione. Max sedette ad un’estremità del divano e Liz si sdraiò posandogli la testa in grembo. Nessuno dei due aveva voglia di studiare, e così trascorsero un paio d’ore seguendo distrattamente un vecchissimo film in bianco e nero.
Per cena Max preparò due bistecche e un’enorme ciotola di insalata. Erano ancora a tavola quando arrivarono Isabel e Patricia.
Le due ragazze, non vedendo né Max né Liz, si erano preoccupate, soprattutto perché Isabel aveva ben impresso in mente il viso tirato del fratello, quella mattina.
Liz fu molto contenta della loro visita e si affrettò a preparare del caffè fresco mentre forniva una versione piuttosto succinta di quanto le era capitato in banca.
Vedendo che Isabel stava per dare il via alle domande, Max alzò una mano per fermarla. - Alto là, piccola! Non è un argomento piacevole, e preferiamo finirla qui, ok? -
- Ok - La giovane si arrese con un’alzata di spalle e un sorriso. - L’importante è che Liz e la bambina stiano bene. -
- Ed è così, Isabel, grazie... - Liz sedette di nuovo sorseggiando con cautela il caffè bollente.
- Dov’è Jason? Sta già dormendo? - Patricia si guardò intorno incuriosita. - Pensi che possa andare a salutarlo? -
- Ehm... veramente... veramente sarebbe meglio di no... Lui... si è agitato, sai, era con me in banca, e... ehm... stasera aveva un po’ di febbre così... si è addormentato non appena l’ho messo a letto... -
- Ho capito, sarà per un’altra volta! -
Patricia credette senza alcun problema alle parole di Liz, ma Isabel, sapendo che il bambino aveva lo stesso tipo di sangue del padre, capì subito che si trattava di una frottola. Guardò di soppiatto il fratello e ne ebbe la conferma. Max era tranquillo, sereno. A Jason non era successo nulla, altrimenti né lui né Liz sarebbero stati così socievoli, di questo ne era certissima. Ma con Patricia presente non poteva indagare più a fondo e quindi lasciò perdere, almeno per il momento.
Mentre l’accompagnava alla porta, molto più tardi, Max sfiorò con affetto il braccio della sorella. Michael arriva domattina intorno a mezzogiorno. Jason è con lui... -
- Perché...? -
- Non ora... Ti spiegherò tutto domani. -
- D’accordo. Buona notte - Lo abbracciò stringendolo forte, poi pose delicatamente una mano sulla pancia di Liz. - Buona notte, cara, buona notte, Shiri... -
Liz le sorrise con gratitudine. - Buona notte, Isabel. -
Rimasti soli, i due giovani si avvicinarono alla finestra che dava sulla strada per seguire con lo sguardo Isabel e Patricia allontanarsi nella notte. Max teneva entrambe le braccia incrociate sul petto di Liz, appoggiata contro di lui. - Come va? -
- Bene. Bene, davvero... - La ragazza chiuse per un attimo gli occhi. - Sono solo stanca... Io... comincio a credere che domani sarà la grande giornata... -
- Shiri? -
- Mm... - Liz sospirò. - Ho paura. -
Max appoggiò il mento sulla sua testa. - Hai buoni motivi per aver paura... Fare un figlio non è certo la cosa più semplice del mondo, anche se io sarò accanto a te per tenere lontano il dolore... Sono... sono desolato per tutto questo... Non lo trovo... giusto... -
- Già, a voi uomini il divertimento e a noi donne i guai... Cosa vuoi farci, è così dalla notte dei tempi... E su Antar funziona allo stesso modo? -
- Io... credo di sì... - Il giovane la baciò sui capelli e sorrise suo malgrado. - In questo, gli alieni sono molto simili agli umani... -
Max rimase sveglio tutta la notte, la schiena appoggiata contro una pila di cuscini e Liz abbandonata nel sonno contro il suo torace. Amava sentire il suo peso, il suo calore, il profumo dei suoi capelli. Amava tutto di lei, ed era felice del fatto che avesse accettato di sposarlo. Perché sapeva che sarebbe stato perduto senza il suo amore, la sua forza. Aveva sempre saputo che Liz era parte della sua anima. Lo sapeva da quando l’aveva vista per la prima volta nel cortile dell’asilo. Lui avrebbe fatto l’impossibile per scacciare le sue paure, per consolarla, per proteggerla. Perché era Liz. Con delicatezza poggiò la guancia sulla sua testa, lo sguardo perso nel buio.
La ragazza si svegliò poco dopo l’alba. Stretta fra le braccia di Max aveva dormito tranquillamente, e sospirò soddisfatta muovendosi contro di lui. - Grazie per aver tenuto a bada i brutti sogni... - disse piano, la voce impastata dal sonno. Sorrise sollevando il volto per incontrare il suo sguardo, poi tese il braccio e gli passò le dita tra i capelli.
Il giovane raccolse l’invito chinandosi a baciarla con passione sulle labbra. Avrebbe voluto poterla stringere forte a sé ma si costrinse a staccarsi da lei e le mise una mano sul ventre. - Non vedo l’ora che questa bambina nasca! - mormorò fissandola negli occhi.
- Anch’io... - Liz gli accarezzò il torace con un’espressione di rimpianto, poi si raddrizzò con cautela e scese dal letto.
Mentre la ragazza si dirigeva in bagno Max andò a preparare la colazione.
Michael e Maria arrivarono puntualissimi e Jason corse subito dalla madre, ansioso di rivederla. Sia i nonni sia gli zii, come chiamava i due ragazzi, gli avevano detto che stava bene ma lui aveva sentito la sua paura quando quell’uomo cattivo l’aveva portata via e voleva controllare da sé che davvero fosse lì, a casa.
Quando Liz si mise in ginocchio per abbracciarlo sentì gli occhi riempirsi di lacrime nel sentire il flusso di emozioni che il bimbo riversò su di lei. Il suo amore, la sua preoccupazione, il sollievo di rivederla. - Oh, Jason, sei così... così caro... - Gli diede un bacio sulla fronte e lo strinse forte. - Ti voglio tanto bene, tesoro... -
Finalmente rassicurato, il piccolo si staccò da lei e si volse in direzione del padre per volare tra le sue braccia tese.
Michael sorrise udendo il gridolino di gioia che Jason emise mentre Max lo sollevava da terra, poi tornò serio e guardò preoccupato l’amico. - Vero che si è trattato di una situazione di emergenza, però non credo che Jason dovrebbe usare così i suoi poteri... Tuo padre poteva non essere solo, oppure qualcuno, alla banca, poteva averlo visto scomparire all’improvviso! Dovete stare più attenti, o finiremo tutti nei guai... -
- Hai ragione, Michael, ma ti assicuro che in quel momento non sono riuscita a pensare ad altro che a farlo allontanare da lì... Scusami... - Liz si rialzò con calma e Maria le si avvicinò per abbracciarla. Non dargli retta, Michael sta attraversando uno dei suoi periodi di paranoia. Da quando lavora con Morgan gli capita molto di frequente... -
- Sì, scherza pure, ma quando Pierce è riuscito a mettere le mani su Max eri spaventata a morte come tutti noi! -
- E’ vero, hai ragione - Maria si voltò a guardarlo. - Ma resta il fatto che non possiamo vivere sempre nel terrore! -
- Sentite, ragazzi, io sono molto contenta che siate venuti, però se continuate su questo tono giuro che scappo di casa! Vi assicuro che sono già spaventata a sufficienza... - Liz si sedette faticosamente sul divano, e Maria si accomodò accanto a lei prendendole una mano tra le sue. - Hai ragione, Liz, scusaci... Sono davvero mortificata... Come ti senti? -
- Male. Shiri sta scalciando a più non posso - La ragazza fece un respiro profondo. - Ti dispiace dare una mano a Max per il pranzo? Credo... credo di non avere la forza di stare in piedi un solo minuto di più... -
Maria si alzò di scatto. - Ma certo! Michael, che ne dici di andare intanto a prendere asciugamani, lenzuola pulite, e tutto quello che può servire per il grande momento? -
- Ok. Jason, ti va di aiutarmi? -
- Sì! - Il bambino tese le braccia verso Michael, che lo prese da Max e lo depose in terra dopo avergli dato un bacio sulla punta del naso. - Vieni, piccolo principe, andiamo ad organizzare l’arrivo della sorellina! -
Era ormai quasi tutto pronto a tavola quando il campanello suonò. Muovendosi con calma Liz andò ad aprire e sorrise davanti all’aria tesa di Isabel. - Ciao. Come vedi, non ti sei persa niente!... -
La ragazza la seguì in soggiorno. - Non capisco proprio come tu faccia a scherzarci su! -
- Purtroppo non c’è altro che possa fare... - Liz si portò una mano alla schiena scuotendo la testa. - E comunque manca davvero poco... -
Nonostante tutto il pranzo si svolse in un’atmosfera piacevole, anche se Liz non volle mangiare nulla, poi andarono in giardino per chiacchierare e bere il caffè. Jason si mise a giocare con il trenino di legno e Maria descrisse alcune audizioni cui aveva partecipato senza molto successo.
Ad un certo punto Liz fece una smorfia e si alzò dalla graziosa poltroncina di vimini su cui era seduta. - Credo... credo che ci siamo... - disse con voce tremante.
Come spinti da molle invisibili scattarono tutti in piedi. Per un attimo ci fu una grande confusione poi Max prese Liz per mano e la condusse in camera da letto seguito da Michael ed Isabel, mentre Maria rimase a far compagnia a Jason.
Appena la ragazza si fu seduta al centro del letto Max si curvò su di lei e le mise le mani sul ventre concentrandosi. - Per adesso è tutto ok. Sta cominciando a scendere... -
Michael sorrise a Liz e le prese la mano. - Coraggio, fra non molto avrai la tua piccola Shiri tra le braccia! -
Lei si sforzò di ricambiare il sorriso ma una forte fitta le strappò un gemito.
- Ci siamo... - Max strinse le labbra, lo sguardo intenso rivolto a qualcosa che nessuno, all’infuori di lui, poteva vedere. Poi ansimò. - Aspetta! Aspetta, Liz, non spingere... Ferma... Rilassati... -
- Cosa c’è? Max, cosa sta succedendo? -
- Non preoccuparti, cerca solo di rilassarti... Io... devo concentrarmi... - Nel seguire i movimenti della figlioletta non ancora nata il giovane aveva avvertito la sua improvvisa sofferenza e adesso doveva aiutarla. La tensione fece indurire i suoi lineamenti. Shiri aveva il cordone ombelicale avvolto intorno al collo e le contrazioni che la sospingevano verso il basso minacciavano di farla soffocare da un momento all’altro. Doveva intervenire con delicatissimi tocchi per farla ruotare fino a liberarla e poi rimetterla nella giusta posizione.
Liz serrò convulsamente la mano di Michael. Non osava domandare altro a Max, ma controllare il respiro per mantenersi calma le stava diventando quasi impossibile. Cercò con lo sguardo Isabel e la pregò in silenzio di aiutarla.
La ragazza fece un piccolo cenno di assenso col capo e socchiuse gli occhi cercando di entrare nella mente del fratello senza disturbarlo tuttavia lui la sentì e s’irrigidì. “No, Isabel, non adesso!”
Senza volerlo Isabel fece un passo indietro mentre interrompeva il contatto mentale con Max, poi si accostò al letto. - Mi spiace, Liz, non mi ha dato il tempo di capire... - disse a voce molto bassa gettando un’occhiata preoccupata al giovane.
Max era ricoperto di sudore. Agire sui movimenti della bambina e allo stesso tempo controllare il corpo di Liz perché non ne sollecitasse l’espulsione richiedeva tutte le sue forze e la fatica si stava facendo sentire. Quando infine avvertì che Shiri non correva più alcun pericolo diminuì gradualmente la pressione esercitata sui muscoli interni della ragazza. Trasse allora un respiro profondo per riprendere fiato. - Adesso puoi spingere... - mormorò con voce soffocata.
Liz non aspettava che il suo ordine. Gettò la testa all’indietro e, gridando per dare sfogo alla paura ed al sollievo, spinse finché sentì l’esclamazione di Isabel. Allora si rilassò di colpo e allungò una mano a coprire quelle di Max. - Grazie... - sussurrò incontrando il suo sguardo.
- Ehi, possiamo vederla anche noi? - Maria si affacciò in quel momento sulla soglia della stanza. Tra le braccia reggeva una grande bacinella piena di acqua tiepida mentre Jason, accanto a lei, osservava intimidito la scena.
Max si raddrizzò lentamente e prese tra le mani il corpicino della bimba. Con un dito toccò l’estremità del cordone ombelicale causandone l’immediato distacco poi depose la piccola tra le braccia della madre. - Sì, certo - disse piano prima di voltarsi verso di loro. Con un sorriso andò a prendere la bacinella e la sistemò in fondo al letto poi aiutò Liz ad avvicinarvisi e rimase incantato a guardarla mentre, con tenerezza infinita, lavava la nuova nata.
- E’ bellissima... - Maria sorrise emozionata e si appoggiò a Michael. - Allora? Come se l’è cavata Max? -
Il giovane si mordicchiò pensoso le labbra. - Temo che se non ci fosse stato lui questa volta le cose sarebbero andate decisamente male. - rispose piano.
La ragazza spalancò gli occhi sorpresa. - Cosa intendi dire? -
Michael si strinse nelle spalle. - Non so cosa sia successo, però l’importante è che Shiri stia bene. -
In quel momento sentirono suonare il campanello.
Max alzò di scatto la testa ed Isabel gli sorrise comprensiva. - Ci penso io... - mormorò uscendo.
Grande fu la sua sorpresa nel trovarsi davanti i genitori.
- Scusa, tesoro, forse non avremmo dovuto presentarci così, senza preavviso, ma quando tuo padre ha detto che Michael e Maria sarebbero venuti ad Albuquerque ho pensato che... che fosse perché Liz...? - Guardò la figlia con fare interrogativo, e lei annuì. - Sì, Liz ha appena partorito. Venite, sono tutti da lei... -
Al loro ingresso Max si voltò sorridendo. - Ciao! Siete venuti a conoscere Shiri? -
- Beh, a dire il vero... sì. Spero di non disturbare... -
- Assolutamente no. Max, mi dai l’asciugamano? - Liz prese il morbido telo di spugna preparato per l’occasione e tamponò dolcemente la bimba prima di avvolgerla in una copertina di cotone. - Ecco, vi presento Shiri Evans! -
Diane Evans si avvicinò emozionata ed osservò con attenzione la piccola. - E’ davvero splendida... -
- Vuoi prenderla in braccio? -
- Sei sicura? -
- Certo! Anzi, ne approfitto per farmi una doccia... - Liz affidò la bambina a Diane e scese lentamente dal letto.
- Hai bisogno di una mano? - chiese Maria andandole accanto.
- No, grazie, ho solo bisogno di rilassarmi un po’ sotto un bel getto d’acqua calda! -
- Ok. Intanto io metto a posto qui... Ragazzi, su, andate in soggiorno e lasciatemi fare ordine! - Con il suo solito modo di fare sbarazzino Maria cacciò tutti e, con l’aiuto di Isabel, ripulì la stanza a tempo di record.
- Senti, Maria, tu e Michael pensate di sposarvi? - chiese Isabel di punto in bianco.
La ragazza fece una spallucciata. - Vuoi sapere se Michael si è deciso a chiedermelo? Beh, sai che ti dico? Secondo me ha deciso di farmi diventare matta! Comincio a credere che dovrei fare qualcosa di drastico per smuoverlo! -
- E cosa vorresti fare? -
- Ancora non lo so. Ma dammi il tempo di pensarci e vedrai che qualcosa troverò. Mi sono davvero stancata di pesare ogni parola che dico... Se Michael pensa che il matrimonio significhi intrappolarlo a vita, vuol dire che non ha capito niente di me e quindi non merita che sprechi il mio tempo con lui! - Maria diede un ultimo ritocco al lenzuolo pulito e sospirò. - In queste cose non c’è alcuna differenza tra umani e alieni, ma solo tra uomini e donne, direi... -
Isabel sorrise suo malgrado e si avviò con lei verso il soggiorno ma fu bloccata a metà strada da Jason, che le si aggrappò alla cintura dei pantaloni. - Zia Isabel, vieni a giocare in giardino con me? -
- Sì, certo, tesoro, andiamo... - La ragazza si lasciò condurre fuori dal bimbo, seguita dallo sguardo del padre.
- Jason è cresciuto moltissimo in queste ultime settimane, e parla come un adulto. - osservò Phillip Evans.
Max si abbandonò contro lo schienale del divano con un profondo sospiro. - Sì, cambia un poco ogni giorno... -
Diane lo studiò preoccupata. - Ti senti bene, caro? Sei pallido e coperto di sudore... -
Il giovane chiuse un attimo gli occhi. - Sono solo stanco. Il parto è stato... più complicato del previsto... -
- Eppure Liz mi è sembrata in ottima forma mentre faceva il bagnetto a Shiri! Anzi, mi sono stupita di vederla darsi da fare in quel modo subito dopo aver messo al mondo un figlio... -
- Beh, almeno c’è qualcosa di buono nell’avere un partner alieno! - Maria si lasciò cadere su una sedia e sorrise rivolgendosi a Max. - Comunque tua madre ha ragione: una doccia non ti farebbe proprio male, e potresti controllare che Liz non si sia trasformata in un pesce. Sai quanto ami stare sotto l’acqua... -
A quelle parole il giovane si rabbuiò. Il corpo di Liz aveva subito alcune trasformazioni che gli consentivano di reagire immediatamente a forti stress, però era pur vero che aveva partorito da meno di un’ora! Con un movimento felino si alzò e uscì dalla stanza. - Ci vediamo più tardi... -
Pochi minuti dopo stava davanti al box della doccia e guardava Liz con espressione attenta. - Tutto bene? -
Lei gli sorrise passandosi le mani tra i capelli mentre l’acqua le scorreva sul volto. - Sì. Finalmente mi sento pulita... Dovresti lavarti anche tu, hai la maglietta ancora intrisa di sudore... - Tese un braccio per aprire di più il pannello semitrasparente. - Dai, spogliati e vieni: qui dentro c’è spazio per tutti e due! -
Ricambiando il sorriso Max si sfilò le scarpe da ginnastica e i vestiti poi entrò nella doccia e chiuse gli occhi reclinando la testa all’indietro per ricevere il getto in faccia.
- Va meglio, vero? - gli chiese Liz sfiorandogli il torace.
Lui riabbassò il capo e le prese il viso tra le mani. - Sì, adesso sì... - mormorò chinandosi leggermente su di lei per baciarla.
La ragazza gli si appoggiò contro passandogli le braccia intorno al collo e gli restituì il bacio.
Rimasero sotto l’acqua per quasi venti minuti, poi Michael bussò alla porta del bagno e la spalancò senza dare loro il tempo di rispondere. - Ehi, sbrigatevi ad uscire di lì o vi verranno le branchie! Di là hanno cominciato a preparare la cena, e sarebbe gentile da parte vostra unirvi a noi... -
- Michael! Vattene immediatamente! - La secca esclamazione di Max fece sorridere il ragazzo. Certo, Altezza, ai tuoi ordini!... - rispose andando via fischiettando.
Liz si morse imbarazzata il labbro inferiore e chiuse il rubinetto. - Odio quando gli altri hanno ragione e io ho torto... - mormorò.
- E in che cosa avresti torto? - le chiese Max incuriosito.
- Sono in bagno da più di mezz’ora. Ho abbandonato completamente a loro stessi i tuoi genitori e tutti gli altri. Non è una cosa bella da fare ai propri ospiti... -
Il giovane la circondò con le braccia e le diede un bacio sulla tempia. - Hai appena partorito. Hai il diritto di fare tutto quello che vuoi -
- Non mi tentare... -
Max rise sommesso poi uscì dalla doccia, prese un grande asciugamano verde chiaro e glielo avvolse intorno. - Fai con calma, a loro ci penso io. -
Pochi minuti dopo, con i capelli ancora umidi ma vestito di tutto punto, Max si presentò in soggiorno. Come si è comportata la piccolina? -
- Oh, è stata davvero brava! - Diane diede uno sguardo affettuoso alla nuova nipote, che dormiva placida in braccio al marito, e sfiorò con una carezza la guancia di Max. - Sono così felice per te, sai? Hai l’amore di una ragazza speciale come Liz e due bellissimi bambini... -
- Sì, lo so. - Le fece quel piccolo sorriso quasi timido che lo faceva sembrare terribilmente giovane e vulnerabile, poi si avvicinò alla portafinestra che dava sul giardino.
- Jason ha una vera e propria adorazione per Isabel... - fu il commento di Phillip Evans.
“Perché condivide con lei il potere di entrare nei sogni, e questo può creare un legame molto profondo...” Max non osò pronunciare ad alta voce la sua riflessione. Non voleva turbare i genitori rivelando tutto di sé e di Isabel, nonché di Michael. Per il bene di tutti, alcune cose dovevano restare segrete.
Jason si accorse subito del padre e depose con cura la macchinina con cui stava giocando prima di correre verso di lui, scoppiando a ridere felice quando il giovane lo sollevò tra le braccia e girò vorticosamente su se stesso.
Isabel si alzò in piedi passandosi una mano sui pantaloni per togliere i fili d’erba rimasti attaccati poi entrò in casa, seguita a ruota dal fratello.
Nel frattempo Maria aveva terminato di apparecchiare la tavola e stava dando una mano a Michael nel recuperare sedie sufficienti per tutti, quando la porta d’ingresso si spalancò con violenza lasciando intravedere un nugolo di uomini armati e completamente vestiti di nero.

- Allora? -
- E’ arrivata la conferma, signore. L’emissione ha avuto origine dalla Terra. Dal New Mexico, per l’esattezza -
L’uomo si lasciò andare con un sospiro contro lo schienale imbottito della poltroncina e prese il fascicolo che il capitano alle sue spalle gli stava porgendo.
Si trovavano in una piccola sala riunioni della base Norad, uno dei luoghi più sicuri e tecnologicamente avanzati degli Stati Uniti. Tra i vari compiti del nutrito staff militare che vi lavorava c’era la sorveglianza degli spazi aerei oltre l’atmosfera terrestre, dato che, pur con la fine della guerra fredda, intorno al pianeta continuavano a ruotare satelliti spia, piattaforme missilistiche, e detriti di dimensioni tali da richiedere un costante monitoraggio, ed in questo si faceva talvolta ricorso anche alle risorse della Nasa. Per fortuna capitava molto di rado che qualcosa di davvero anomalo apparisse sugli enormi monitor della sala di controllo principale, e di solito si trattava di fenomeni celesti come sciami di meteore dall’orbita pericolosamente vicina oppure tempeste solari di forte intensità. Ma tre giorni prima avevano ricevuto una strana richiesta dall’ente spaziale americano. Il telescopio Hubble, nella sua consueta attività di osservazione dello spazio profondo, aveva trasmesso alcune fotografie piuttosto insolite. L’accurato studio dello spettro luminoso dei minuscoli oggetti aveva rivelato che non si trattava di corpi celesti, e la particolare rotta seguita sembrava suggerire piuttosto un’origine artificiale. Vero che altre volte era successo che gli astronauti in missione nello spazio avessero avvistato strani fenomeni di cui nessuno aveva ufficialmente dato notizia ai mass media, ma non era mai capitato che, in concomitanza di tali casi, si fosse riscontrata una rilevante perturbazione nel campo elettromagnetico terrestre. La Nasa aveva continuato a tenere d’occhio quegli oggetti, di cui non era riuscita ad individuare l’esatta natura, finché, al momento del passaggio più ravvicinato alla Terra, era comparso un raggio luminoso. Il raggio era rimasto sospeso nel vuoto interstellare solo una frazione di secondo, dissolvendosi nel momento in cui gli oggetti non identificati avevano superato il pianeta.
Gli scienziati avevano studiato con molta cura la sequenza di foto e l’unica registrazione che avevano potuto avere dell’improvvisa emanazione di energia, giungendo alla conclusione che, probabilmente, il raggio era stato originato dalla superficie terrestre. L’unico modo per averne la conferma era rivolgersi all’alto comando militare statunitense, e così il tutto era finito nelle mani del generale Howard e del suo stato maggiore.
E quel giorno era giunta la risposta: l’incredibile, brevissima, violenta irradiazione di energia era partita dalla Terra. Forse sollecitata dal passaggio degli oggetti inquadrati dal telescopio Hubble. E forse rappresentava l’inizio di un’attività di qualche genere.
La cosa più preoccupante, poi, era che l’esatto punto di origine si era rivelato il New Mexico, lo Stato dove nel 1947 era caduto un disco volante di cui tutti, ma proprio tutti, si erano affannati a coprire le tracce. Anni di bugie, falsificazione di rapporti, distruzione di prove, e ora sembrava che tutto dovesse ricominciare.
Il generale Howard studiò attentamente la relazione della sezione scientifica del Norad, poi fece un cenno al suo aiutante perché gli mettesse a disposizione il telefono con la linea riservata.

Il Black Range era una zona bellissima, desolata e selvaggia, e nessuno si rese conto del via vai di furgoni carichi di attrezzature e della presenza di militari che presidiavano con discrezione tutta l’area. Non fu trovata alcuna traccia di emissione di nessun genere, ma la cosa insospettì, più che tranquillizzare, le squadre di ricerca. Perché gli strumenti segnalavano solo un’enorme bolla di vuoto all’interno di una delle pareti rocciose. Ci erano volute tre settimane per controllare tutta la catena montuosa, e solamente in quel punto non si registrava nulla. Neppure la normale radioattività terrestre.
Seguendo le indicazioni rilevate dalle mappe confrontate con i dati della Nasa, la ricerca si spostò nella zona desertica delle estreme propaggini delle Sacramento Mountains. Forse era soltanto una coincidenza, ma Roswell si trovava a poche miglia ad est di quel settore, e Howard aveva incaricato alcuni uomini di verificare tutto quello che, negli ultimi cinquant’anni, vi era capitato d’insolito.
Quando il generale si trovò davanti gli esiti di entrambe le ricerche un profondo sospiro uscì dalle sue labbra.
Il presidente degli Stati Uniti, messo al corrente di tutto durante una interminabile riunione nella sala ovale, dovette convenire con i presenti che qualcosa di molto strano era successo, e stava succedendo, nel New Mexico. L’accurata indagine svolta negli archivi dell’FBI aveva dato risultati molto inquietanti e il presidente diede la sua autorizzazione a procedere.

- Ho visto un mucchio di facce nuove, in questi ultimi giorni... - mormorò Jim Valenti sorseggiando una bevanda dallo stravagante colore violetto. - Non so, c’è qualcosa che mi disturba... -
Morgan mosse il bicchiere che teneva in mano facendone ruotare il contenuto mentre con aria distratta osservava i numerosi clienti del Crashdown, affollato come succedeva sempre all’ora di pranzo. - Che cosa, esattamente? - chiese a voce bassa, quasi noncurante, per non attirare l’attenzione dei presenti.
- Una sensazione. Stare accanto ai nostri amici insegna a sviluppare una specie di... di sesto senso... Il tuo socio non si è accorto di niente? -
- Mah... Da qualche settimana mi è sembrato un po’ più nervoso del solito, ma forse è per l’imminente parto di Liz. Lui e Maria sono andati ad Albuquerque proprio stamattina... -
- Davvero? Ah, ora capisco perché erano all’incrocio dell’imbocco della statale! Mi è anche sembrato di vedere Jason, in macchina con loro... -
- Jason? - L’uomo corrugò la fronte perplesso. - E quando è arrivato a Roswell? Chi ce lo ha portato? Non certo Isabel, o sarebbe passata da me! -
- Non so che dirti... Vogliamo ordinare? - aggiunse accennando alla cameriera che si era fermata accanto al loro tavolo.
- Sì, certo. Un doppio space-burger, una porzione di anelli di Saturno e caffè -
- Per me un’insalata marziana e una fetta di torta al cocco. So che Amy ne ha consegnate due proprio stamattina! -
- Infatti. Bene, sceriffo, a tra poco... - La ragazza sorrise gentilmente e si allontanò.
- Allora, cosa ne pensi? -
Morgan si portò il bicchiere alle labbra gettando un’occhiata a un uomo che stava entrando proprio in quel momento. - FBI, e militari. Per quanto facciano, li riconosci sempre... -
- Maledizione! - Valenti finì con un unico sorso la sua bibita e scosse piano la testa. - Che cosa diamine stanno cercando? L’ultimo evento particolare di questa città è stato il matrimonio di Max e Liz!... -
- E se fosse proprio questo il motivo della loro presenza qui? -
- Oddio, non voglio neanche pensarlo! -
- Sì, certo, significherebbe la fine di tutto... ma non possiamo non tenerne conto solo perché è un’ipotesi spaventosa... -
- Mi si è chiuso lo stomaco - Lo sceriffo fece una smorfia e si passò una mano sul viso. - Spero proprio che il tuo sospetto sia sbagliato... Ti rendi conto di cosa potrebbe succedere? -
- Sì, ne ho una vaga idea... - Morgan serrò le labbra ricordando quello che gli aveva raccontato una volta Isabel, poi scrollò la testa per scacciare il pensiero molesto. - Ok, quando torno in ufficio chiamo subito Michael -
Non appena la cameriera tornò con le ordinazioni i due uomini si misero a mangiare in fretta, ansiosi di finire e lasciare il locale.
Coltrane non si sedette nemmeno, prese subito il cellulare e compose il numero di Michael. Come gli aveva spiegato il ragazzo, la memoria dell’apparecchio veniva mantenuta accuratamente vuota per non fornire involontari indizi a chiunque ne fosse mai venuto in possesso, così aveva imparato a memoria i numeri dei cinque giovani e dello sceriffo e alla fine di ogni telefonata ne cancellava automaticamente la registrazione.
Lasciò che gli squilli si susseguissero per un tempo infinito prima di rinunciare. “Perché non risponde? Forse Isabel...” Provò anche quel numero, ottenendo tuttavia lo stesso risultato. Sentendo un brivido corrergli lungo la schiena si avvicinò alla scrivania, prese da un cassetto le chiavi della macchina e corse fuori. Per prima cosa passò ad avvertire Valenti, poi prese la strada che lo avrebbe portato ad Albuquerque.
Fece molta fatica a rispettare il limite di velocità e quando finalmente giunse a destinazione parcheggiò con tale veemenza che i pneumatici stridettero sull’asfalto. Fece di corsa il breve tratto di strada che lo separava dal vialetto che conduceva alla casa di Liz e Max e quasi si scontrò con i coniugi Parker, fermi a pochi passi dalla porta d’ingresso, socchiusa. Sentì il sangue gelarglisi nelle vene vedendo la serratura spaccata e i vetri infranti. Senza dire una parola alla coppia inebetita accanto a lui si avvicinò fino ad aprire del tutto la porta ed entrò. L’interno dell’abitazione era completamente distrutto. Non era rimasto niente di integro, e ovunque, sul divano, sulle pareti, per terra, c’erano macchie di sangue. Deglutendo a fatica avanzò fra i detriti cercando di non calpestare il sangue e fece un rapido sopralluogo. La camera da letto principale era nelle stesse condizioni del soggiorno, mentre il bagno e l’altra stanza erano in ordine. In cucina qualcuno si doveva essere preoccupato di spegnere il gas perché c’erano diverse pentole sui fornelli, evidentemente i ragazzi erano stati sorpresi mentre stavano preparando da mangiare.
Tornò tremando sui suoi passi e studiò ancora una volta quello che rimaneva dell’accogliente soggiorno, poi lo sguardo gli cadde su una sottile catenella d’oro. “E’ l’orecchino di Isabel!” Lo riconobbe subito. Erano orecchini lunghi, che si infilavano nel lobo rimanendo liberi, senza fermagli a bloccarli. Glieli aveva regalati lui stesso il giorno di San Valentino, quando era andato a trovarla proprio lì, ad Albuquerque. Lo strinse con forza portandosi la mano alla bocca e scivolò in ginocchio. Scosso da singhiozzi secchi, convulsi, curvò la fronte sulle gambe e rimase a lungo incapace di fare altro che piangere senza lacrime. Si raddrizzò solo quando sentì i Parker avvicinarsi esitanti.
- Che cosa... che cosa è successo? - chiese Jeff Parker sottovoce.
In silenzio Morgan aprì la mano e tornò a guardare l’orecchino.
- Chi è stato? - domandò ancora l’uomo.
Stavolta Coltrane diede segno di averlo udito. - Qualcuno che cercava dei bravi ragazzi, e li ha portati via -
- Che cercava...? - Nancy si voltò sgomenta verso il marito. - Anche Liz? Ma lei... E Jason? Dov’è il bambino? - Fissava di nuovo la schiena di Morgan, un’espressione preoccupata sul viso segnato dalla paura.
A quelle parole il giovane si volse lentamente. - Anche Liz? - ripeté sottolineando la prima parola. Cosa intende dire? -
Davanti alla sua espressione cupa la donna sembrò ritrarsi su se stessa poi, appoggiandosi al marito, rialzò il mento con fare deciso. - Ieri mattina due uomini si sono presentati al Crashdown poco prima dell’orario di apertura. Volevano parlare con noi di nostra figlia e... e di Max. Erano dell’FBI, ci hanno mostrato il loro tesserino... -
- Che cosa gli avete detto? - chiese Morgan serrando le mascelle.
- Niente. O almeno niente che non sapessero già. Abbiamo soltanto confermato che Max è in grado di guarire la gente, come ha fatto con Liz ed Isabel -
- Hanno proprio detto che Max è un guaritore? -
Davanti alla sua insistenza l’uomo si mosse a disagio. - Beh, no, non esattamente... Hanno... hanno detto che uno degli amici di Liz aveva delle capacità... insolite... - precisò.
- E voi gli avete fornito tutti i dettagli! Dio, non posso crederci! - Il giovane abbassò lo sguardo sul pavimento sporco ed emise un lento sospiro. - Forse sarebbe accaduto lo stesso, un giorno o l’altro, ma voi... voi siete responsabili di tutto quello che è successo qui, oggi... Voi avete firmato la condanna a morte di Liz, Max, Michael e Maria, e di Isabel... e del piccolo Jason... - finì in un soffio.
- Come?!? Che diavolo sta dicendo? - scattò Jeffrey Parker.
- Liz non vi aveva avvertito di non parlare con nessuno del potere di Max? - disse Morgan, duro.
- Sì, ma... -
- Ma quelli erano agenti dell’FBI! - lo interruppe la moglie. - Non si può mentire all’FBI! E’... illegale! -
- Anche quando è in gioco la vita di tanti innocenti? La vita della vostra stessa figlia? - Le ultime parole furono pronunciate con tono sprezzante, poi Coltrane girò sui tacchi e se ne andò senza più voltarsi indietro.

Intontita dal dolore Liz non riusciva a staccare lo sguardo dal braccio insanguinato che fuoriusciva dal telo bianco steso sulla barella. Il braccio di Max. Max che poco prima l’aveva stretta a sé sotto la doccia, baciandola e amandola con la stessa passione con cui l’aveva baciata e amata la prima volta. Max che aveva tentato di difenderla nonostante le numerose ferite da arma da fuoco che gli avevano dilaniato il corpo. Max che era crollato sotto l’ennesimo colpo mentre con una mano cercava di mantenere lo scudo protettivo di energia e con l’altra di guarirle la profonda lesione causata da una scheggia di legno, conficcatasi pericolosamente vicino all’arteria femorale. E ora lei era lì, unica sopravvissuta di quel terribile attacco. Qualcuno le aveva strappato dalle braccia Jason e Shiri, portandoli chissà dove, poi erano arrivati con le barelle e davanti a lei erano passati i corpi esanimi di tutti i suoi amici più cari, dei genitori di Max, ed infine del suo amore. Il solo coperto da un lenzuolo intriso di sangue. Questo voleva forse dire che gli altri erano semplicemente feriti, ma in quel momento lei riusciva soltanto a pensare che Max, l’altra parte di lei, era morto. Oh, sì, forse fra poche ore si sarebbe ripreso, il suo cuore avrebbe ricominciato a battere, ma non sarebbe mai più tornato da lei. I loro catturatori non glielo avrebbero permesso. Sapeva che quella era l’ultima volta che vedeva anche Maria e gli altri, lo sentiva. Avvertì un terribile vuoto dentro di sé e dovette farsi forza per non svenire. Aveva lottato ferocemente per liberarsi, ma quando aveva visto il braccio inerte di Max era crollata. Max... Con un gemito cercò di voltarsi per guardare la barella caricata sul furgone accanto a quello dove si stava dirigendo l’uomo che la teneva saldamente tra le braccia e fece un ultimo disperato tentativo di fuggire, ma venne colpita forte alla testa e perse i sensi.
Quando riaprì gli occhi si trovava in un lettino d’ospedale. Si guardò intorno confusa, poi ricordò quello che era successo e sorrise amaramente. “Sì, proprio un letto d’ospedale... Ma chissà dove...” Lente lacrime cominciarono a scivolarle lungo le guance e impiegò alcuni secondi per comprendere che era immobilizzata da cinghie strette ai polsi e alle caviglie, ma non provò nulla. Né paura, né dolore. Era al di là di tutto, completamente annientata. Chiuse di nuovo gli occhi e lasciò che la mente vagasse tra i ricordi della sua storia con Max.
Non si sorprese nel sentire ad un tratto la presenza di Isabel. La ragazza indossava un semplice camice azzurro e sedeva sul pavimento, con la schiena premuta contro la parete. “- Liz, non riesco ad entrare nella mente di Max... -”
Liz, che stava in piedi in un angolo della piccola stanza senza confini, accennò un sorriso triste. “ Non puoi perché è morto. O almeno non è ancora tornato in vita... Ma per noi è come se fosse morto, non credi? -”
“- Pensi che non riuscirà a liberarsi? Che nessuno di noi tornerà più libero? -”
“- Qualcosa del genere, sì... Isabel... hanno scoperto tutto... o non sarebbero mai arrivati a noi... Ormai... è finita... -”
“- Non riesco a contattare né Maria né Michael... e non ho ancora provato con Jason... Liz, tu... tu sei l’unica, finora, che mi abbia potuto sentire... Sei sicura che...? -”
“- Sì, Isabel... Hanno ucciso solo... Max... -”
Anche attraverso quel delicato rapporto mentale la ragazza poté avvertire l’infinita tristezza di Liz. Forse la sua salvezza stava nel fatto che non avesse visto cadere il fratello davanti ai suoi occhi, altrimenti sarebbe sicuramente impazzita dal dolore, ma Liz... lei... No, non voleva pensarci! Sapeva che per loro non c’era alcuna possibilità di uscita da quella terribile situazione, però c’era Jason, il piccolo Jason in grado di teletrasportarsi senza l’aiuto dei graniliti. Almeno lui poteva salvarsi. Lo comunicò a Liz, per infonderle un po’ di speranza. E infatti la ragazza sembrò trasfigurarsi. Il viso le s’illuminò in un sorriso dolcissimo. “- Oh, sì! Jason può salvarsi, e portare con sé Shiri... Isabel, ti prego, trovalo, e mandalo da me! Ti prego... -”
“- Certo, Liz. Lo farò, per te, per lui, e per Max. Sei stata una vera amica, Liz... -”
Riscaldata da quello scambio di pensieri e immagini Liz sorrise nel dormiveglia, poi tornò a sognare finché non sentì un peso affossare leggermente il materasso ed una manina sfiorarle il viso pallido e teso.
- Mamma? -
Spalancò allora gli occhi e si girò per incontrare lo sguardo verde nocciola di suo figlio. - Jason! Amore, sei riuscito a trovarmi? -
- Certo, mamma. La zia mi ha detto che mi cercavi, e io sono venuto subito. Mamma - l’espressione del bimbo si fece ansiosa, - volevo andare da papà ma non sono riuscito a sentirlo. Perché? Dov’è? -
Liz dovette mordersi le labbra per trattenere le lacrime. - Adesso lui... non c’è... Tesoro, noi non... non possiamo andare via da qui, ma tu... tu puoi farlo... - Lanciò un’occhiata alla piccola telecamera fissata al muro e puntata proprio su di loro. Lentamente un sorriso di trionfo le distese le labbra. - Ti ricordi il colonnello Anders? Thien Anders? -
- Sì - Sorrise con aria birichina. - Ha giocato molte volte con me... -
- Bene! Allora... allora tu devi andare da lui, e portare con te Shiri. Poi, un giorno, papà ed io verremo a riprenderti... -
- Non posso andare da nonno Phillip, invece? -
- No, tesoro, mi dispiace. Vedi, lui e nonna Diane... e le zie e zio Michael sono... sono molto occupati e... - La ragazza non poté trattenere un piccolo singhiozzo. - Devi andare da Thien Anders, Jason. E’ molto importante... Qui... è pericoloso... - Vide la porta aprirsi. Chi controllava i monitor doveva essersi accorto della presenza di Jason e veniva a prenderlo. Tornò a guardare negli occhi il bambino. - Jason, amore mio, devi andare, adesso! E abbi cura di Shiri! -
- Sì, mamma. Ciao... -
- Ciao - Stavolta lasciò che le lacrime le scorressero liberamente lungo le guance e sorrise davanti all’espressione stupefatta della guardia. “Loro... sono liberi, adesso...” pensò con il cuore straziato.

James Valenti ascoltò annientato il resoconto di Morgan, poi si prese la testa tra le mani. - E adesso come faccio a dirlo ad Amy? Lei... non sa niente... -
- E forse sarà meglio continuare a tenerla all’oscuro, non credi? L’FBI ha portato via pure Phillip e Diane Evans. Ho controllato, erano andati anche loro ad Albuquerque... -
- Ma come posso spiegare la scomparsa di Maria? Il fatto che non possa raggiungerla per telefono... Santo cielo, è un vero disastro... -
- Riusciremo a trovarli, Jim, vedrai! -
L’uomo si strofinò il viso con una mano, profonde rughe di tensione intorno agli occhi. - Forse, Morgan, forse... Ma non è detto che faremo in tempo... - Notando l’espressione interrogativa del suo giovane amico abbassò dolorosamente il capo. - Quando Max fu catturato da Pierce, lo liberammo dopo due giorni, ed era vivo per miracolo. Quella gente è feroce, credimi -
Sconvolto, Morgan si alzò e cominciò a camminare su e giù per il piccolo ufficio. - Ma deve esserci qualcosa che possiamo fare! -
- Sì, probabilmente sì. Solo che io non so da dove cominciare. Quella volta c’era Isabel, con noi, e lei poté entrare in contatto con Max e scoprire dove lo avevano portato, mentre adesso sono spariti tutti! Il vecchio ospedale militare non esiste più, e io non ho la più pallida idea di dove cercarli... -
Nei giorni che seguirono Morgan passò tutto il suo tempo a perfezionare il programma che gli consentiva di violare le banche dati governative, poi si mise a scandagliare ogni fonte che potesse aiutarlo a trovare qualche indizio.
Due settimane più tardi ricevette la visita del fratello David. L’uomo rimase sconvolto nel vedere come Morgan fosse deperito, doveva aver perso almeno cinque chili e si era lasciato crescere una barba ispida e incolta. Si accomodò su una delle due poltroncine situate davanti alla enorme scrivania coperta di attrezzatura informatica e attese con pazienza che desse segno di essersi accorto di lui. Alla fine si protese in avanti e batté la mano sull’unico spazio libero di tutto il ripiano. Ehi, fratellone, ci sei? -
Morgan sussultò al rumore improvviso e raddrizzò la testa, mostrando gli occhi iniettati di sangue e cerchiati di viola. - Cosa diavolo ci fai, qui? -
- Sono venuto a vedere come stavi. Ho sentito che da queste parti c’è stata un po’ di maretta, e così volevo sapere come ti vanno le cose... A dire il vero, non mi sembra che vadano molto bene... -
- Senti, io ho da lavorare. Ok, mi hai visto, ora puoi anche andartene! -
- E credi che a nostro padre basterà una semplice descrizione del tuo orribile stato? -
Il giovane premette una serie di pulsanti sulla tastiera del computer alla sua destra poi si abbandonò contro lo schienale. David aveva ragione. Thomas Coltrane, uno dei più ricchi uomini d’affari degli States, aveva insegnato ai propri figli a cavarsela da soli fin dall’adolescenza, permettendogli di sbagliare perché imparassero dai propri errori. Il risultato era evidente: sia lui sia David erano uomini sicuri di se stessi, fiduciosi delle proprie capacità, e Thomas Coltrane non aveva mai ritenuto di dover interferire nelle loro vite. Neppure quando Morgan aveva lasciato l’FBI per ritirarsi in una insignificante cittadina del sud ovest. Ma stavolta, probabilmente, le cose non sarebbero andate allo stesso modo. Il magnate amava moltissimo entrambi i figli, per quanto al di fuori della famiglia si mostrasse duro ed intransigente, e non sarebbe rimasto con le mani in mano a vedere il suo primogenito distruggersi a quella maniera. E David non avrebbe taciuto nulla al padre. Puoi sempre dirgli che ho l’influenza -
- Ti devo ricordare che tra i migliori amici di papà c’è il generale Howard? -
- Che diamine intendi dire? - Stavolta Morgan prestò la massima attenzione al fratello. Howard era al comando del Norad. Cosa diavolo c’entrava, in tutta quella storia?
David sorrise, soddisfatto di aver suscitato l’interesse di Morgan. Quando era stato richiamato a New York dal padre, preoccupato per il prolungato silenzio del figlio maggiore, aveva accettato volentieri il compito di scoprire cosa stesse succedendo. Messo al corrente dello strano colloquio del padre col generale Howard, si era messo a trafficare con i computer e, pur non possedendo la genialità del fratello, gli ci era voluto poco per scoprire il collegamento tra il Norad, le recenti operazioni segrete dell’FBI e Roswell. Ed Isabel Evans. La ragazza per cui Morgan aveva rinunciato ad una sicura carriera. La ragazza che amava ma che non aveva mai presentato al padre. Perché? Forse perché la bionda Isabel nascondeva un pericoloso segreto? Un segreto legato ad uno dei dossier più riservati di tutta l’Agenzia? - Norad, FBI, Roswell. Alieni? -
Le parole divertite di David fecero saltare i nervi al giovane, che con un balzo felino fece il giro del tavolo e lo afferrò per il bavero della giacca. - Che cosa ne sai? Dimmelo! Che cosa sai di tutta questa storia!?! -
David gli afferrò i polsi costringendolo a lasciarlo andare. - Sei impazzito, forse? Che ti salta in mente di aggredirmi in questo modo? - Si raddrizzò la cravatta e accavallò con eleganza le lunghe gambe. Sembra che la Nasa abbia sottoposto un quesito al Norad, e la risposta sia stata New Mexico. E’ qualcosa di grosso, visto che l’ordine è partito dalla Casa bianca. Diavolo, Morgan, in cosa ti sei cacciato? Howard sapeva della tua defezione dall’FBI, e ha ritenuto opportuno avvertire papà. Anche se, ad essere sincero, una mossa del genere, da parte sua, mi sembra davvero incredibile! Diavolo, non ci si può più fidare neppure del comandante di una delle maggiori basi difensive del mondo! -
Morgan si voltò di scatto dandogli le spalle. - E quando ha avvertito papà? - chiese sommesso.
- La settimana scorsa. Prima di venire qui ho fatto qualche ricerca, ho informato il vecchio, poi ho preso il primo volo per Roswell -
- Allora stai tranquillo: Howard non ha violato nessun segreto. Ormai l’azione è stata portata a termine... -
- Cioè? -
- Cioè i tuoi cari colleghi hanno commesso un delitto di cui dovranno pentirsi per tutta la vita! -
- Non... credo di capire... - disse David esitante.
- Ah, no? Beh, allora lascia che ti spieghi! - Morgan era furibondo. Con un violento gesto del braccio spazzò via tutte le carte. - Nonostante l’accurato intervento del servizio segreto, nel 1947, alcuni alieni sono sopravvissuti e vivevano tranquilli in questa città, senza fare del male a nessuno. Ma ora li hanno uccisi tutti! Li hanno massacrati come se fossero dei mostri, e invece erano solo ragazzi! -
Il giovane si alzò lentamente. - Isabel Evans? - chiese con voce sorda.
- Isabel... - Morgan tornò a sedere davanti ai suoi computer. - Io... devo trovarla... devo scoprire dove l’hanno portata... - Ormai la sua attenzione era di nuovo altrove e David s’infilò le mani in tasca osservandolo pensosamente. “La troverai, Morgan, la troverai... Papà ed io ti daremo tutto l’aiuto possibile...” A capo chino mormorò un saluto e se ne andò.

- Ecco, sta riaprendo gli occhi! -
Max ansimò, il corpo scosso da un violento tremito, e sollevò di scatto le palpebre. Per un istante rimase accecato dalla violenta luce bianca poi cercò di muoversi solo per scoprire di essere bloccato con delle cinghie.
- Avete visto? Non ci sono più i buchi lasciati dalle pallottole! Avanti, spingiamolo là dentro, voglio controllare con la risonanza magnetica se qualcosa è rimasto all’interno... -
Due infermieri sospinsero il lettino verso una macchina poco distante, poi premettero alcuni bottoni e una sezione del cilindro si aprì consentendo di mettere in posizione il paziente. Avevano apportato quelle modifiche per evitare di liberare dai legami i soggetti da studiare, e mai una volta si erano soffermati a pensare alla sofferenza di quelli che, dentro di loro, consideravano semplicemente cavie.
Quando l’esame fu terminato i medici studiarono attentamente i risultati poi, soddisfatti, fecero un altro cenno agli infermieri.
Di lì a poco Max scoprì che lo avevano portato nella stanza dove si trovava Liz. Con un sussulto sollevò la testa per quanto gli era possibile e i suoi occhi incontrarono quelli sorpresi della ragazza. Max! -
- Liz... - Il giovane si agitò nel tentativo di liberarsi ma qualcuno gli afferrò le spalle immobilizzandolo.
- Adesso vogliamo vedere come funziona su un essere umano - Il capo dell’équipe fece un segno all’infermiere rimasto accanto alla porta, che si avvicinò e puntò una pistola al petto di Liz premendo il grilletto senza tradire la benché minima emozione.
Con un urlo di dolore Max si arcuò tirando le cinghie, che gli penetrarono nella carne. - Liz! Maledetti, liberatemi! Liberatemi! -
Non appena poté muoversi scese dal lettino e, barcollando, si precipitò accanto al corpo insanguinato di Liz. “Amore!... Amore mio...” Si piegò su di lei e le posò le mani sul torace, guardando sconvolto il suo bel viso. “Liz...” All’improvviso fu sommerso dalle immagini provenienti dall’inconscio della ragazza, le immagini che, come succedeva ogni volta, rivelavano il profondo sentimento che nutriva per lui. Con un lamento strozzato scivolò in ginocchio. Aveva avuto così paura di non farcela, avendo dovuto usare molta energia solo pochi minuti prima per tornare egli stesso indietro... Non ebbe la forza di ribellarsi mentre lo sollevavano bloccandolo di nuovo sul lettino, e intanto la telecamera infissa nella parete continuava a registrare.
- Peccato non poter fare esperimenti con il bambino... Di sicuro avremmo scoperto qualcosa di nuovo, data la sua origine mista... -
- Già. Beh, non si può avere tutto dalla vita... - Con una risatina cinica il capo dell’équipe si diresse verso la porta. - Riposati, ragazzo, più tardi proveremo un’altra cosa... -
Max non lo udì nemmeno. Nella sua mente erano impresse a fuoco quelle parole, non poter fare esperimenti con il bambino... Perché? Cos’era successo a Jason? Santo cielo, una cosa alla volta, ti prego... Liz... Liz... Non si rese conto di aver pronunciato il nome ad alta voce finché udì la debole risposta della ragazza.
- Lui... è al sicuro... a casa... -
Pur incerto sul significato di quella frase, il giovane sentì un po’ di pace scendere nel suo cuore. “Al sicuro...” Sospirò, e scivolò nell’incoscienza sotto l’effetto del forte sedativo iniettatogli in quel momento da un infermiere.
Quasi non si rese conto dell’attimo esatto in cui avvertì la presenza di Isabel nella sua mente. L’immagine della ragazza appariva sfuocata, proprio come era successo quando si trovava rinchiuso nella stanza bianca, prigioniero di Pierce. Cercò di controbattere l’effetto disorientante delle droghe che gli avevano dato e chiese alla sorella se avesse notizie degli altri.
Isabel spiegò come fosse riuscita a contattare Liz e, per suo conto, Jason. “- Cosa possiamo fare? -”
Max tentò di schiarirsi le idee ma era difficile. “- Riesci ad entrare nella mente di Morgan? Abbiamo bisogno di un aiuto esterno... -”
“- Posso... posso provarci. Ma prima vorrei capire come stanno mamma, papà, Michael e Maria -” All’improvviso emise un gemito sommesso e si portò una mano alla testa. “- Oddio, mi sento così debole... -”
“- Isabel! Che cos’hai? -” Non ebbe risposta, e credette di capire. “Gli inibitori dei neurotrasmettitori...
Accidenti, devono averli usati per tenerci a bada...” Mosse i polsi cercando di modificare la struttura molecolare delle cinghie, ma inutilmente.
Era notte fonda quando gli infermieri sospinsero di nuovo il lettino di Max nella stanza a lui destinata. Il giovane aveva il respiro affannoso. Era stato sottoposto ad una serie infinita di test e analisi, a volte anche molto dolorosi, ma aveva fatto ricorso a tutta la sua forza per resistere senza mai emettere un lamento. Non aveva alcuna idea su cosa fare per poter liberare se stesso e gli altri, però non si sentiva rassegnato. In attesa, ma non rassegnato. E non voleva cedere davanti ai suoi aguzzini. Era sopravvissuto agli orrori delle prigioni di Zoltar, non si sarebbe lasciato distruggere da un manipolo di scienziati privi di scrupoli. Doveva solamente avere pazienza...
Ad un tratto sentì di nuovo la sorella. Si affrettò a spiegarle la storia degli inibitori e l’avvertì di tenere sotto costante controllo lo stato dei suoi poteri per essere in grado di usarli non appena ne fosse rientrata in possesso. “- E riferiscilo anche a Michael, è importante... -”
“- Max, io... sono molto preoccupata per lui... Sono riuscita a contattarlo solamente per qualche istante, e mi è sembrato che stesse davvero male... -”
Il giovane sembrò riluttante a confidarsi con lei, poi decise che era giusto dirle quello che aveva scoperto. “- Sono... sono entrato nella sua mente, poco dopo che tu te ne sei andata... Stanno... facendo dei confronti... come reagisce il tuo organismo alle cure standard, e... come reagisce il suo senza... nessun tipo di cura... -”
A quella spiegazione Isabel si portò una mano alla bocca. “- Tutto questo... è orribile! -”
“- Sì -”
Ci fu un breve silenzio, poi la ragazza sembrò scuotersi. “- Liz mi aveva detto che eri morto... -”
“- Non... non esattamente. Sì, il mio cuore aveva cessato di battere, ma il cervello ha continuato a funzionare... -”
“- Oddio... Sai, io... comincio a non poterne davvero più... La nostra vita è... è spaventosa! Non riusciamo mai ad avere un po’ di pace... di felicità... Quando sembra che tutto stia andando bene... accade qualcosa di bruttissimo... Sono... sono davvero stanca, Max... -”
“- Isabel, non devi cedere. La vita non è mai come uno la vorrebbe... Sì, forse a noi capitano problemi maggiori che agli altri ma... ma nessuno ha una vita del tutto tranquilla... Sarebbe... noioso, non credi? -” Accennò un sorriso, quasi incongruo venendo da qualcuno legato ad un lettino, tuttavia ottenne l’effetto desiderato. Isabel gli sorrise in risposta. “- Ti voglio bene, Max. Sei una persona davvero meravigliosa... -” Si chinò su di lui e gli diede un bacio sulla guancia.
“- Arriverà il momento in cui saremo tutti e tre contemporaneamente in possesso dei nostri poteri, liberi dall’effetto degli inibitori, e allora potremo agire... -”
“- Questo vuol dire che hai già qualche brillante idea? -” gli chiese speranzosa.
“- Non ancora, ma abbi fiducia... -”
“- Sempre, Max, sempre! -”

Isabel inspirò a fondo prima di aprire gli occhi e guardarsi intorno con espressione assente. Parlare con Max le aveva fatto bene, si sentiva più forte, serena. Adesso sapeva che, nonostante tutto, c’era ancora una speranza di salvezza. In fondo, non per niente lui era il sovrano di un intero pianeta... Un piccolissimo sorriso le stese le belle labbra e si girò sul fianco perché la telecamera non le inquadrasse il volto: non voleva che i suoi guardiani si insospettissero.
Circa un’ora più tardi venne un infermiere e le fece alcune iniezioni, dopodiché scivolò nel sonno. Ma era riuscita a contattare Michael e a riferirgli il messaggio di Max. Finalmente qualcosa si stava muovendo...

Non appena ne aveva avuto la possibilità Max aveva monitorato i suoi genitori e si era tranquillizzato sulle loro condizioni. In effetti i coniugi Evans sembravano solo spaventati. Durante il sanguinoso assalto della squadra speciale dell’FBI avevano ricevuto ferite leggere, di cui i medici si erano presi immediatamente cura. Per caso aveva assistito ad una parte di interrogatorio cui era stato sottoposto suo padre, ed era rimasto colpito dall’abilità con cui l’uomo, da ottimo avvocato qual era, aveva saputo rispondere alle numerose domande senza tuttavia dire nulla d’importante. Sua madre, invece, era apparsa molto provata ma non poteva fare niente per aiutarla. Soltanto Isabel aveva il potere di interagire con le persone nei sogni e, se veniva bloccata con la stessa frequenza con cui bloccavano lui, di sicuro sarebbe trascorso parecchio tempo prima che potesse contattarla e rassicurarla.
Michael, invece, dopo aver ricevuto l’avvertimento della ragazza, si era ritirato in se stesso. Tutti i suoi pensieri erano concentrati su Maria e non degnava mai di uno sguardo gli infermieri che, a turno, andavano a prelevargli il sangue. Nella lotta a casa di Max aveva ricevuto due pallottole, una nella coscia sinistra e una nel torace. Quest’ultima si era incastrata in una costola, e i medici avevano deciso di lasciargliela dentro. Se solo ne avesse avuto la forza si sarebbe messo a ridere quando un infermiere aveva verificato che le cinghie che lo immobilizzavano al letto fossero ben strette. Al diavolo, riusciva a malapena a controllare il respiro per non sentire troppo dolore!... Tuttavia, dopo un tempo infinito passato nel rifugio delle sue fantasticherie sulla ragazza amata, decise di averne abbastanza dei continui buchi che gli facevano con quei maledettissimi aghi, e cominciò a fare qualche piccolo esperimento col colore dei leggeri pantaloni da ospedale che si era ritrovato addosso. Odiava quei pantaloni, odiava l’elastico sottile che ne stringeva la vita molto bassa, odiava l’odore dei suoi liquidi organici. Diamine, eppure aveva fatto la pipì solo una volta, poco dopo il suo primo risveglio, e avrebbe voluto uccidere l’infermiere che gli aveva sistemato la padella! Il non aver mai ricevuto alcun tipo di alimentazione gli aveva risparmiato il ripetersi di quella scena penosa, ma il sentore pungente era rimasto come sospeso nell’aria e poteva avvertirlo tutto intorno a sé, molto più di quello ferroso del sangue. Giurò a se stesso che, non appena fosse tornato libero, si sarebbe infilato sotto una doccia e non ne sarebbe uscito prima di un’ora! Da quel momento smise di pensare a Maria e si concentrò esclusivamente sui suoi poteri. Riconquistarne il pieno possesso era l’unico modo che aveva, che tutti loro avevano, di andarsene da quel posto maledetto! Magari con qualche bell’azione plateale tipo lo sbriciolamento del Palazzo del Governo di Zoltar...

Sola nella sua minuscola stanza, a sua volta legata al lettino duro e stretto che sembrava essere la dotazione standard di quello strano ospedale, con indosso un corto camice celeste, Maria dormiva per la prima volta di un sonno tranquillo. Dopo essere stata curata per la ferita ricevuta alla spalla, aveva subìto una quantità incredibile di analisi. Una volta aveva provato il desiderio di fare qualche domanda all’infermiere che le stava cambiando la medicazione, ma poi si era resa conto che sarebbe stato del tutto inutile e aveva rinunciato. E un giorno, inaspettatamente, aveva sognato Isabel. O meglio, Isabel si era intrufolata in uno dei suoi orribili incubi e le aveva parlato di Michael, di Max, di quello che stava succedendo e dei loro piani di fuga. Beh, certamente erano dei piani un po’ troppo vaghi per i suoi gusti, ma già il sapere di non essere sola e che prima o poi avrebbe riabbracciato il suo amore le diede la forza di reagire. Da quel momento non ebbe più paura di addormentarsi, perché sapeva che forse, al risveglio, avrebbe trovato Michael accanto a lei.

“- Max, ci siamo! Michael non ha recuperato un granché ma se aspettiamo ancora dubito che le cose miglioreranno... -”
“- D’accordo. Sono pronto -” Inspirando lentamente Max si concentrò e attinse alle forze dei due ragazzi per richiamare a sé i graniliti. Fece diversi tentativi ma non riuscì a sintonizzarsi ed emise un gemito di frustrazione. Poi avvertì chiaro il pensiero di Michael. “- Ehi, di’ un po’, grande capo, hai disattivato i codici di protezione? -”
“- I codici! Che stupido... Me n’ero completamente dimenticato... -”
Il legame mentale che Isabel aveva creato fra di loro non permetteva anche una connessione visiva, che avrebbe richiesto un ulteriore dispendio di energia, ma lei poté percepire lo stesso la mortificazione del fratello. “- Ok, va tutto bene. Adesso prova di nuovo, e fai presto, perché non ci resta molto tempo! -”
Stavolta il giovane non ebbe alcuna difficoltà a raggiungere i comunicatori, che in un istante si ritrovarono nelle sue mani. “- Ce li ho! -” esclamò esultante. Grazie alla loro potenza riuscì ad entrare in contatto con i suoi genitori, Liz e Maria e li avvertì di quello che stava per fare perché si tenessero pronti, poi mise in atto il piano che aveva preparato insieme alla sorella e a Michael.
L’addetto di turno nella sala di controllo non si rese conto della presenza dei due oggetti ovoidali tra le dita di Max perché in quel momento tutta la sua attenzione era concentrata sull’immagine di Isabel, o meglio della generosa porzione di gambe lasciata scoperta dal corto camice. Poi l’intero impianto di telecamere saltò, mandato in cortocircuito da una violenta scarica di energia. Mentre afferrava il walkie-talkie per avvertire la sicurezza, i tre ragazzi si liberarono delle cinghie.
Sfruttando l’incredibile energia racchiusa nei graniliti Max non ebbe alcuna difficoltà a rintracciare Isabel, la cui stanza si trovava in un corridoio parallelo a quello dove si trovava lui, e la condusse con sé da Michael. Il giovane sorrise sollevato nel vederli entrare. Lo sforzo fatto per aiutare l’amico lo aveva sfinito, e così fu Max stesso a scioglierlo dai legacci prima di posargli una mano sul petto per guarirlo. Da lì si precipitarono poi a liberare Liz e Maria, le cui stanze erano poco distanti, e infine giunsero da Diane e Phillip Evans.
Nei pochi minuti che impiegarono per ritrovarsi di nuovo tutti insieme gli uomini della sicurezza si erano lanciati al loro inseguimento e Max fu costretto più di una volta a far ricorso ai suoi poteri per potersi difendere.
Purtroppo non era stato possibile programmare la fuga nei dettagli perché avevano dovuto approfittare della prima occasione in cui si erano trovati contemporaneamente liberi dall’effetto degli inibitori, così si limitarono a dirigersi verso l’uscita. Che era due piani più in alto, ed immetteva in un vastissimo atrio pieno di gente in divisa e mezzi di trasporto.
- Dove accidenti siamo? - mormorò Maria sbigottita.
Mentre sirene d’allarme cominciavano a risuonare stridule e un drappello di soldati accorreva verso di loro Max tese le braccia affinché Michael ed Isabel si unissero a lui, poi creò una cupola protettiva che li circondò mettendoli al riparo da ogni forma di attacco.
- Stallo, mio signore e padrone... - mormorò Michael osservando le dure espressioni degli uomini che li tenevano sotto mira.
Liz si avvicinò spaventata a Max. Avrebbe voluto che lui l’abbracciasse, la confortasse, ma sapeva di non poterlo distrarre: la vita di tutti loro dipendeva da quella cupola... Girò su se stessa e vide i signori Evans che la guardavano sgomenti.
- Liz, tesoro, dove sono i bambini? - chiese piano Diane.
La ragazza accennò un coraggioso sorriso. - Non sono qui. Loro... loro si trovano lontano, al sicuro... Io e Max andremo a riprenderli quando tutto questo sarà finito... - Aveva gli occhi lucidi per le lacrime trattenute.
- Vieni qui, cara... - La donna allargò le braccia e lei vi si rifugiò grata mentre Maria la guardava con un po’ d’invidia.
Intanto una piccola folla aveva accerchiato lo scudo luminoso mentre i tre alieni continuavano a studiare l’ambiente in cui si trovavano.
“- Isabel, Michael, voi teneteli sotto controllo. Io cerco di capire dove siamo -” Max cominciò a monitorare tutto intorno a sé fin quando si ritrovò nella mente di un soldato addetto al controllo delle aree esterne. “Il deserto... Ma allora...” “- Michael, siamo in mezzo al deserto: questo ti dice qualcosa? -” Il tono vagamente ironico del giovane venne percepito senza difficoltà dall’amico.
“- Mojave. L’area 51. Diavolo, siamo nel nulla! -”
“- Già. Isabel, possiamo procedere? -”
La ragazza annuì. “- Sì, ci sono! -”
Allora Max fissò l’ufficiale che gli stava davanti. - Voi non avete alcuna intenzione di conoscerci davvero. Tutto quello che vi interessa è studiarci come se fossimo delle cavie. Ci avete perseguitati come criminali, ma niente vi dà il diritto di trattarci così. Tutto questo deve finire. Adesso -
L’uomo, alto, asciutto, capelli brizzolati e penetranti occhi grigi, fece per parlare ma non ne ebbe il tempo. In una frazione di secondo la cupola di energia e le persone in essa racchiuse si dissolsero nel nulla.

Grazie all’energia dei graniliti Isabel aveva potuto recuperare la piena padronanza dei suoi poteri e ne aveva approfittato per cercare di contattare Morgan, mentre Michael continuava a tenere d’occhio la situazione.
Per fortuna il giovane aveva confermato di trovarsi in un posto sicuro, così Max si concentrò su di lui teletrasportando se stesso e tutti gli altri.
Non appena vide Morgan alzarsi di scatto dalla poltrona su cui sedeva, Isabel si slanciò tra le sue braccia ed egli la strinse con forza, quasi incredulo di riaverla con sé.
Anche Liz, nel frattempo, era corsa da Max, ansiosa di toccarlo, di sentire il suo calore. Il ricordo del suo corpo coperto da un lenzuolo macchiato di sangue era ancora troppo vivido, e il pensiero di quello che sarebbe potuto succedere la sconvolgeva. Riuscì a malapena a trattenere un gemito di sollievo quando lui le circondò la vita premendola contro di sé.
Michael, invece, si era avvicinato a Maria e le aveva dato un piccolo bacio sulla fronte prima di passarle un braccio intorno alle spalle ed osservare con attenzione i due uomini che stavano entrando in quel momento.
- Chi siete, e come siete arrivati fin qui? - domandò con tono sorpreso il più giovane, sulla cinquantina, dall’aria vagamente familiare, poi i suoi occhi attenti notarono l’impronta argentata sul torace di Michael e la sua espressione divenne pensosa.
Al suono di quella voce Morgan trasalì e sfiorò con fare protettivo la schiena della sua compagna. Papà, ti presento Isabel - disse a bassa voce mentre lei alzava il viso sorpresa poi, di scatto, si girava per fronteggiare i nuovi venuti.
Thomas Coltrane chinò un poco la testa. - Lieto di conoscerti - Studiò il corto camice azzurro che la ragazza indossava e i suoi piedi nudi, poi fece un rapido esame degli altri ospiti. Sembrava una fuga di massa da un ospedale psichiatrico...
Fu Phillip Evans a riprendersi per primo. Si avvicinò all’uomo con la mano tesa e si presentò. - Sono il padre di Isabel - aggiunse a mo’ di spiegazione. - Mia moglie Diane, mio figlio Max e sua moglie Liz, Maria DeLuca e Michael Guerin - disse poi facendo un gesto col braccio verso gli altri.
- Sono Thomas Coltrane, e questi è il generale Francis Howard, del Norad -
A quelle parole Liz si voltò verso di loro conficcando involontariamente le unghie nella schiena di Max.
Morgan sentì il sussulto di Isabel e sorrise. - Stai tranquilla, tesoro, mio padre lo conosce da molto tempo e si fida di lui. Non tornerete nell’area 51, te lo posso assicurare... -
- Come sai che eravamo lì? -
- Mio figlio ha passato un’intera settimana davanti ai suoi computer per scoprirlo. Ma a quanto pare non avete avuto bisogno del suo aiuto per liberarvi -
- Al contrario! E’ stato grazie a lui che siamo riusciti ad arrivare qui. Il problema è che... - La ragazza tornò a guardare il viso segnato dalla stanchezza di Morgan - continueranno a darci la caccia finché vivremo... Non c’è salvezza, per noi... - Una lacrima le scivolò lungo la guancia e premette la fronte contro la sua spalla.
- No, Isabel, troveremo una soluzione, vedrai... Non lascerò che ti portino di nuovo via... né che facciano del male a tuo fratello e agli altri... - Il giovane la cullò dolcemente contro di sé guardando il padre con espressione implorante. - Ti prego, aiutaci... -
Coltrane osservò il figlio e i suoi amici poi scambiò una rapida occhiata con il generale Howard. - Non sarà semplice. Stiamo parlando di alieni, di esseri provenienti da un altro mondo, e né l’FBI né le forze armate saranno disposti a ritirarsi in buon ordine... -
- Questo lo sappiamo già - Max strinse più forte le braccia intorno a Liz. - Da quando abbiamo avuto a che fare con la sezione speciale dell’FBI la nostra vita è stata in pericolo. Quello che non intendo più tollerare è che cerchino di uccidere anche persone che hanno la sola colpa di amarci. Mia moglie aveva appena partorito quando quegli uomini hanno fatto irruzione in casa nostra! Noi non abbiamo mai fatto del male a nessuno, se non per difenderci! -
- Adesso dov’è il neonato? - domandò esitante l’uomo del Norad.
- In salvo, spero. Lontano dalle vostre mani... -
Il generale serrò le mascelle. Max Evans aveva ragione. I vertici militari si erano fiondati sulle loro prede come avvoltoi, troppo presi da quell’incredibile verità per soffermarsi a riflettere che, in fin dei conti, si trattava di ragazzi. Provenienti da chissà quale pianeta, dotati di poteri speciali, ma pur sempre ragazzi. E il figlio del suo amico Thomas era fidanzato con una di loro... Accidenti a tutto, quella era una situazione davvero ingarbugliata! Il suo sguardo si posò sulla giovane abbracciata ad Evans e avvertì un improvviso senso di vergogna.
- Francis, puoi fare qualcosa? -
L’uomo fissò un attimo l’amico e scosse piano la testa. - Cercherò di parlare col presidente. Purtroppo non ti posso assicurare nulla, dipende tutto da lui... -
- Voglio esserci anch’io -
Il tono deciso di Coltrane fece sorridere Howard suo malgrado. - Sì, immagino che la tua presenza non farà male. Ti informerò appena possibile... - Si volse a guardare quel gruppo di persone semisvestite e sentì un leggero rossore salirgli alle guance. - Io... spero davvero di potervi aiutare - mormorò, poi accennò un vago gesto di saluto con la mano e se ne andò.
Thomas Coltrane si avvicinò allora al figlio. - Penso che i tuoi amici gradiranno riposare un poco... - disse piano.
A quelle parole Isabel sorrise imbarazzata e si raddrizzò scostandosi leggermente da Morgan. - Sì, ha... ha ragione... - Il suo sguardo corse a Max e poi di nuovo all’uomo davanti a lei, che le indicò la porta a doppio battente da cui era entrato qualche minuto prima. - Allora ti prego di accomodarti. Fate pure come se foste a casa vostra... Morgan, ci pensi tu? -
- Certo, papà. E grazie... - Il giovane sorrise riconoscente poi prese Isabel per mano e la condusse fuori dell’ampio salone. - Le stanze degli ospiti sono sull’altro lato della casa, mentre la mia camera è al piano di sopra. Vuoi venire da me? -
- Sì, certo - La ragazza si volse un attimo verso i genitori. - Scusatemi, io... io vado con lui... - Le labbra le si stirarono in un sorriso stanco e andò ad abbracciarli. - Sono così felice di vedervi di nuovo... Mi dispiace che abbiate dovuto soffrire per causa nostra... - mormorò.
- Non preoccuparti, tesoro, tu e Max non avete nessuna colpa! - Diane Evans strinse forte la figlia prima di lasciarla andare. - Vedrai, finirà tutto bene... -
- Io... lo spero, mamma, lo spero davvero... - Isabel abbracciò poi il padre e tornò accanto a Morgan, che fece strada agli altri lungo gli ampi corridoi dell’enorme villa in cui era cresciuto prima di ritirarsi nella propria stanza insieme a lei.
Quando furono soli nella luminosa camera loro assegnata, Max e Liz si lasciarono quasi cadere sul letto matrimoniale, orientato verso una finestra che si affacciava sul bellissimo giardino che circondava per tre lati la casa.
- Io... non credevo che ti avrei rivisto... - Liz si girò verso il marito accoccolandosi contro di lui. Stringimi forte... -
Max se la serrò al petto per un lunghissimo istante prima di prenderle il viso tra le mani e sollevarlo leggermente verso di sé. - Ti amo - La baciò con passione, a lungo, poi le tolse il camice e si sfilò i pantaloni coprendola con il proprio corpo e fece l’amore con lei.
Ancora sconvolta per tutto quello che avevano passato, Liz si abbandonò alla sua tenerezza, al suo calore, e lo ricambiò con altrettanta forza. Quando finalmente il cuore tornò a batterle con regolarità scoppiò in un pianto sommesso e nascose il viso tra le mani voltandogli le spalle.
In preda alla medesima angoscia Max l’avvolse con le sue braccia. - Li ritroveremo, amore mio, stai tranquilla... - sussurrò, gli occhi colmi di lacrime.
Anche Maria e Michael si erano subito sdraiati sul letto, stravolti dalla stanchezza. La ragazza aveva poggiato la testa sul petto del giovane e una mano sull’impronta ancora ben nitida sul suo fianco. - Ti senti bene? - chiese a voce così bassa che lui la sentì a malapena.
- Sì - Michael le circondò la schiena con entrambe le braccia e chiuse gli occhi. - Maria... -
- Mm? - Lei si sistemò meglio contro di lui godendo appieno di quel momento di pace assoluta.
- Ti va di sposarmi? -
- Cosa?!? - A quelle parole la ragazza si raddrizzò su un gomito e lo fissò esterrefatta. - Ho capito bene? Mi hai chiesto, in un modo alquanto brusco, devo dire, ma va bene lo stesso..., di sposarti?!? -
Michael fece una piccola smorfia e reclinò la testa sui suoi capelli. - Sì. Voglio che tu sia mia. Per sempre. E non permetterò mai più a quei maledetti bastardi di portarti via da me! Voglio... voglio che tu sappia che ti amo con tutto il cuore e che... sei una parte fondamentale della mia vita... -
- Questo lo sapevo già... - Maria depose un piccolo bacio sul suo petto e sorrise. - Ma mi fa piacere sentirtelo dire!... -
- Allora? -
- Allora cosa? -
- Mi sposi o no? -
La ragazza avvertì la sua tensione e gli prese il mento con due dita per costringerlo a guardarla negli occhi. - Michael? -
- Cosa? - Lui la fissò trattenendo il respiro. Era così bella, coi lunghi capelli biondi in disordine e le labbra ben disegnate tese in un accenno di sorriso...
- Me lo avresti mai chiesto se non avessimo rischiato di venire uccisi in quell’orribile laboratorio? -
- Non lo so... -
- Oh, Michael! - Maria gli diede un piccolo pugno nello stomaco togliendogli il fiato. - Ti meriteresti un no come risposta! Ma non sono molti i ragazzi dello spazio, e quindi mi vedo costretta a dirti di sì! Sì, sì, sì, sì! - Si tese in avanti per baciargli la bocca e tremò nel sentire la sua immediata reazione. Dopo che Liz e Max avranno ritrovato i loro bambini... - aggiunse in un sussurro.
- Sì - Michael fece scivolare una mano lungo la sua schiena premendola poi nell’incavo della colonna vertebrale. - Rimani così, per favore... -
- Certo, come vuoi. - Maria lo guardò perplessa poi appoggiò la guancia contro la sua spalla cercando di muoversi il meno possibile. Michael si era addormentato profondamente.
Nella stanza di Morgan Isabel non aveva avuto il tempo di dire una sola parola. Il giovane le aveva tolto il camice non appena si era richiuso la porta alle spalle, coprendole la bocca con la propria, poi l’aveva sospinta gentilmente facendola indietreggiare fino al letto e l’aveva sorretta mentre ve l’adagiava sopra. Aveva fatto a lungo l’amore con lei, ansioso di sentirla con il proprio corpo, di sapere che era viva, che stava bene...
Isabel, agitata dalle stesse emozioni, rispose con identico ardore e poi giacque ansante su di lui.
- Com’è successo? - domandò ad un tratto Morgan.
La ragazza chiuse per un attimo gli occhi rivivendo l’orrore di quei momenti. - Liz aveva appena dato alla luce la sua bambina... Poi sono arrivati i miei genitori, e stavamo preparando la cena quando... quando quegli uomini hanno sfondato la porta di casa e... - Rabbrividì e scivolò di lato rannicchiandosi un poco. - Hanno cominciato a sparare all’impazzata, ferendoci tutti. Max è corso da Liz per proteggere lei e i bambini ma... -
- Ma...? -
Isabel si morse le labbra. Non poteva continuare, era stato tutto così spaventoso...
- Tesoro, devi parlarmene... Dopo starai meglio, credimi... -
- Meglio, dici? - Isabel si mise a sedere serrandosi le ginocchia al petto. - Lo sai che cos’hanno fatto? Hanno sparato a Liz davanti a mio fratello per vedere come faceva a guarirla, hanno lasciato che le ferite di Michael si infettassero per confrontare le sue reazioni con le mie, che invece venivo bombardata di medicine, e ancora non so perché si siano degnati di curare Maria e i miei genitori... E non oso pensare a cosa ne sarebbe stato di Jason e Shiri, se non fossero riusciti a scappare... -
- Come hanno fatto? -
- Jason è uno di noi -
La risposta, gelida, fece fremere Morgan, che si sollevò e mise una mano sulla spalla di Isabel. Cosa vuoi dire, con questo? Tu lo sai che puoi fidarti di me! Jim Valenti mi ha dato tutto l’aiuto possibile ma con l’FBI di mezzo c’era poco che potesse fare... E comunque, lo sai chi vi ha traditi? Sai chi ha rivelato ogni cosa a quei maledetti bastardi della sezione speciale? I Parker! -
- No! No, ti sbagli!... - Isabel si girò di colpo verso di lui. - Come puoi dire...? -
- Li ho trovati lì, davanti alla casa di tuo fratello! - Il giovane le afferrò le mani per costringerla ad ascoltarlo. - A Roswell erano arrivati un sacco di agenti, e Jim era preoccupato. Non riuscendo a contattarvi sono andato ad Albuquerque e ho trovato... ho trovato tutto distrutto, sangue ovunque, e... e i Parker. Certo, non avevano idea di quello che avrebbero scatenato, ma sono stati loro a dire agli uomini dell’FBI che Max aveva dei poteri particolari, a condurli da voi!... Non mi sono staccato dal computer per due settimane per scoprire qualcosa, e poi è arrivato mio fratello, mandato da mio padre, con la notizia che la Casa bianca era coinvolta nella storia! Capisci cosa significa, tutto questo? Ti rendi conto di quello che ho passato non sapendo se ti avrei mai più rivista? - Con la punta del pollice le sfiorò l’anello che portava all’anulare sinistro. - Tu sei la donna che sto per sposare, maledizione! -
- E io cosa dovrei dire, eh? Ho visto cadere a terra i miei genitori, i miei amici! Liz mi ha detto che Max era morto, e poi ha spedito i suoi bambini su un pianeta distante anni luce dalla Terra! - Rabbrividì convulsamente e chinò la testa. - Quando finalmente sono riuscita ad entrare in contatto con mio fratello ho cominciato a sperare che, forse, ce l’avremmo fatta... Lui... lui a volte è stato duro, con me, quando eravamo soltanto degli adolescenti... Lui... voleva proteggermi... - Inspirò a fondo per calmarsi. - Non appena è stato possibile, abbiamo unito la nostra forza e ci siamo liberati. Non ce l’avrei mai fatta, senza di lui... -
- Isabel... Accidenti, io sono solo un essere umano, ma ti amo! Non pensi che vorrei essere io a prendermi cura di te? Perché sei sempre sulla difensiva? Perché continui a pensare che potrei fare del male a te e agli altri? Perché fai l’amore con me e poi mi volti le spalle? Perché... ami tanto tuo fratello?... - La voce di Morgan si abbassò fino a diventare un bisbiglio, e il giovane allentò la presa liberando le mani di Isabel. - E’ così, vero? - domandò a fior di labbra.
- Lui è mio fratello. Io... l’ho amato come si può amare una persona che sa tutto di te, che ti è sempre stata accanto e ti ha aiutata a crescere. Noi due, e Michael, siamo sempre stati molto uniti. Eravamo uguali, e diversi da tutti gli altri. Poi Max ha messo la sua e la nostra vita nelle mani di Liz, e da allora sono successe... tante cose... Ma io sono diventata donna con te, Morgan, e questo deve pur voler dire qualcosa, non credi? Io ti amo, ti amo in un modo diverso, però Max è parte di me! Te l’ho già detto altre volte, ho cercato di spiegarti... -
- Sì, è vero. E ti credo. Solo che a volte... a volte mi sembra che tu mi ami con il cuore e con il corpo ma non con la mente... -
- Cosa intendi dire? -
- Che, razionalmente, per te verrà sempre prima Max. Io... sono un ripiego... -
- No! - Isabel si curvò verso di lui, infine consapevole del male che gli aveva causato. - No, Morgan, tu non sei un ripiego! Tu sei l’uomo cui ho affidato la mia vita... Oddio, io non volevo ferirti... - Abbassò lo sguardo imbarazzata. - Io... ti amo, davvero... -
- Ma quando hai bisogno di aiuto vai da tuo fratello -
Davanti a quell’accusa Isabel tacque e fece per scendere dal letto però venne bloccata da Morgan, che la prese gentilmente per un polso. - D’accordo, ti capisco. Lui è come te, e questo significa che tra voi c’è un legame speciale, che non ho nessun diritto di spezzare. - Abbassò ulteriormente la voce. - Ma vorrei che tu tenessi sempre presente che io sono qui. Pronto ad aiutarti in qualsiasi momento. Vorrei svegliarmi ogni mattina e trovarti accanto a me... Vorrei... vorrei che tu mi sposassi... oggi, subito... -
Isabel chiuse per un istante gli occhi. - Morgan... - Con un piccolo gemito si chinò in avanti abbracciandolo e cercando la sua bocca.
Il giovane ricambiò il bacio e si lasciò scivolare lentamente all’indietro, stringendola forte per assaporare tutto il calore della sua pelle di seta. - Ti amo, Isabel, non dubitarne mai -
- Mai. E io amo te, davvero. -
- Allora... va bene? -
- Va bene, cosa? -
- Mi sposi oggi, subito? -
Isabel rispose al suo sorriso con un piccolo bacio poi tornò a fissarlo negli occhi chiari. - Prima... prima vorrei che Max e Liz ritrovassero i loro bambini... -
- Sì, certo, hai ragione. Adesso vieni qui... -
La ragazza si sdraiò quasi completamente su di lui e posò la testa nell’incavo della sua spalla scivolando in un sonno tranquillo.
Morgan le sfiorò a lungo la schiena prima di addormentarsi a sua volta, sentendosi di nuovo in pace col mondo. Isabel era tornata a casa...

- Ehi! - L’uomo fece d’istinto un passo indietro quando il bambino si materializzò dal nulla accanto a lui. - Come diamine sei arrivato fin qui? - Si voltò a guardare le persone che gli stavano intorno. Qualcuno ha visto da dove sia entrato? - chiese.
Tutti i presenti fecero un segno di diniego, tranne il colonnello Thien Anders, che era ancora seduto al suo posto ed aveva spalancato gli occhi sorpreso nel vedere il piccolo apparire al suo fianco.
Il bimbo lo fissò in silenzio e l’uomo socchiuse le palpebre con fare pensoso. - Sei... sei per caso... Jason? - domandò a voce bassa. Poi, davanti al suo cenno di assenso, si mordicchiò le labbra scuotendo la testa e si alzò in piedi. - Rodhya, - disse rivolto all’uomo più vicino a lui. - ho bisogno di parlare con questo giovanotto. Ti spiace se aggiorniamo la seduta a domani? -
- No, certo. Tienimi informato, d’accordo? -
- Sì, stai tranquillo... Bene, ragazzo, vieni con me, adesso! - Si curvò per prendere in braccio prima il piccolo fagotto che stringeva teneramente al petto e poi il bimbo stesso. Col suo passo sciolto e veloce lasciò la sala riunioni e fece cenno a Lou Krentz, che lo aveva aspettato fuori nel corridoio, di
seguirlo.
Quando si ritrovarono a casa di Anders, questi si diresse nel piccolo salotto di ricevimento e contattò la moglie pregandola di rientrare il prima possibile, poi indicò una poltrona al suo capo dello staff e si sedette a sua volta. Tra le braccia teneva ancora il neonato mentre Jason, che lo aveva seguito da presso, era rimasto in piedi vicino a lui.
- Allora, Jason, ti ricordi di Lou? -
- Sì - Il bambino si voltò un attimo per guardare il giovane uomo seduto sulla poltrona accanto a quella dove si era accomodato il colonnello, poi tornò a studiare il volto perplesso di Anders.
- Come mai sei venuto su Antar? -
- La mamma mi ha detto di venire da lei -
- E perché? -
- Perché... - Gli occhioni verde nocciola di Jason si posarono per un attimo su Shiri, placidamente addormentata. - perché non poteva alzarsi dal letto. -
- Vuoi dire che stava male? Ma... non c’era tuo padre? -
Il piccolo fece segno di no con la testa. - La mamma ha detto che lì era pericoloso, e che dovevo prendere Shiri e venire da lei. -
- Chi è Shiri? -
- Mia sorella. -
Il colonnello studiò per qualche secondo il visetto roseo della bimba, realizzando per la prima volta che doveva essere nata da poco. Che cosa era successo ai signori di Antar? - Jason, puoi dirmi perché lì era... pericoloso? Lì dove? -
- Dove ci hanno portato gli uomini che sono venuti a casa. Sono arrivati e hanno cominciato a sparare. Papà mi ha portato dalla mamma ma poi un uomo ha preso me e Shiri. Eravamo da soli in una stanza con la porta chiusa, e zia Isabel mi ha detto che la mamma voleva parlarmi così sono andato da lei. Lei era... era... - Jason si strofinò le manine contro i pantaloni blu che indossava da quando lo avevano strappato alla sua famiglia. Troppo piccolo per capire esattamente cosa fosse accaduto, sapeva però quanto dolore avevano provato le persone che amava, e il ricordo della madre immobilizzata in quel lettino bianco gli fece mancare per un attimo la voce. - Lei era legata, mi ha detto che dovevo prendere Shiri e venire qui, finché lei e il papà sarebbero venuti a riprenderci - disse tutto d’un fiato.
- Non potevi andare da tuo padre, o da tua zia, o da qualcun altro? -
- No. Erano tutti lì, e... stavano male... La mamma... era molto triste... -
Thien Anders guardò per un attimo il suo compagno, incerto sul da farsi. Zan aveva affidato il pianeta al Consiglio, però restava sempre il signore di Antar e lui gli aveva giurato fedeltà. E ora Jason, l’erede al trono, e sua sorella erano lì, affidati alla sua protezione. Doveva assolutamente parlare con Rodhya, quei bambini avevano bisogno di aiuto, ma lui voleva anche scoprire che fine avevano fatto i loro genitori. Perché nessuna madre si sarebbe separata dai propri figli se non vi fosse stata costretta...
In quel momento sentì la porta d’ingresso aprirsi e si alzò per andare incontro a Rona, una bella donna sui quarant’anni che aveva sposato poco dopo aver intrapreso la carriera militare. Le spiegò in breve quello che aveva saputo poi, mentre lei si occupava dei piccoli, lui si ritirò nello studio con Krentz.
I due uomini stavano ancora parlando quando Rona li interruppe spalancando la porta con espressione accorata. - Jason sta male! - esclamò ansiosa.
Anders si preoccupò. Sua moglie era un bravissimo medico, e se era in quello stato voleva dire che il bimbo doveva essere grave. La seguì correndo nella camera dove erano stati sistemati Jason e la sorellina e trattenne il fiato.
Jason era pallidissimo e tremava convulsamente, gli occhi rovesciati, la bocca spalancata come in cerca d’aria e i piccoli pugni stretti fino ad avere le nocche bianche. Accanto a lui Shiri sembrava dormire tranquilla ma poi, a poco a poco, cominciò ad agitarsi e a presentare gli stessi sintomi del fratello.
- Oh, no, anche lei! Thien, io non so cosa fare! Non c’è febbre, non c’è nulla nei polmoni!... Vorrei portarli al centro... -
- No, Rona, non è prudente! E poi loro... hanno anche sangue umano... Usare le nostre medicine potrebbe essere rischioso... Cerchiamo almeno di evitare che si feriscano! - Così dicendo si affrettò a sedersi accanto a Jason bloccandogli il corpicino perché non cadesse dal letto. - Lou, prendi la piccola. Rona, per favore, vai al centro e vedi cosa puoi prendere e portare qui per fare delle analisi. Forse si tratta di una reazione a qualche sostanza che gli è stata iniettata da chi li aveva catturati... -
La donna corse via mentre Lou si curvava a sollevare la neonata, che stava soffocando, poi Thien si sentì afferrare il polso ed incontrò gli occhi spalancati di Jason. - Ehi, ragazzo, mi senti? -
Jason ansimava e le sue piccole dita non avevano quasi forza ma il contatto fu sufficiente.
Anders trasalì mentre immagini velocissime apparivano nella sua mente. Parole spezzate, concetti confusi, ma alla fine comprese. - Non è qualcosa di estraneo, sono loro stessi. Le loro cellule, in parte umane ed in parte aliene, sollecitate dall’energia usata per spostarsi da un pianeta all’altro, sono fuori controllo. Si stanno... moltiplicando... in maniera abnorme... -
A quelle parole il giovane capitano guardò la bimba tra le sue braccia. - Allora sarà meglio levargli i vestiti e metterli sotto le coperte, non crede? -
- Sì, giusto! -
I due si affrettarono a spogliare i bambini, che sembrarono trarre subito un po’ di sollievo.
- Speriamo che vada tutto bene... - Thien Anders si era di nuovo seduto accanto a Jason, che gli aveva ripreso la mano, e studiava attento i lineamenti paffuti del piccolo. - Ha avuto la forza di teletrasportare se stesso e Shiri, ma così facendo ha messo entrambi in un bel guaio... Spero davvero che riescano a farcela... -
Quando Rona tornò si diede subito da fare con la sua attrezzatura mobile e dopo poco tempo poté confermare la teoria del marito. - Sì, le cellule si stanno moltiplicando a velocità pazzesca... E te lo ha detto Jason? -
- Sì. Lui non è un bambino come gli altri, non dimenticarlo... -
- Ah, no di certo! - La donna si avvicinò per sfiorare con una carezza gentile la guancia sudata del bimbo. - Sarà una notte molto lunga... Lou, resta con noi? -
- Certo, signora Anders. Sembra che Shiri si sia attaccata a me... - Così dicendo il giovane accennò con un sorriso alla sua mano, su cui si erano strette le piccole dita della bimba. - Non avrei comunque potuto lasciarla... - aggiunse, completamente conquistato dagli occhi nocciola che, ad un certo punto, si erano fissati nei suoi prima di tornare a chiudersi nel sonno agitato da cui non si era mai del tutto svegliata fin da quando era apparsa con il fratello nella sala riunioni secondaria del palazzo governativo.
Il giorno successivo Thien Anders ebbe un lungo colloquio con Rodhya, poi tornò a casa e continuò ad occuparsi di Jason e Shiri insieme al suo fido compagno mentre Rona cercava qualcosa che potesse alleviare le sofferenze dei due bambini.
Lo sviluppo dei piccoli era continuo ma irregolare e alla fine la donna dovette desistere, non volendo sollecitare ulteriormente il loro organismo già molto affaticato.
Occorsero altri cinque giorni perché il processo si regolarizzasse fino a terminare del tutto. Jason e la sorella ormai dimostravano circa undici anni. Shiri era leggermente più piccola, ma dalla struttura ossea si poteva capire che, con il tempo, entrambi sarebbero stati molto alti e slanciati.
I due avevano mantenuto un costante collegamento mentale e la bimba aveva acquisito gli stessi ricordi del fratello, le sue stesse esperienze, le sue emozioni. Inevitabilmente, ciò li aveva uniti moltissimo ed era loro sufficiente uno sguardo per comprendersi al volo. Quando si erano ripresi avevano cercato di mettersi in contatto con i loro cari ma inutilmente. La distanza era troppo grande e le loro forze, per quanto unite, insufficienti a superarla.
Per un altro paio di giorni rimasero tranquilli in casa degli Anders, cercando di prendere confidenza con se stessi ed il mondo che li circondava, poi cominciarono a diventare irrequieti perché il tempo passava ed i loro genitori non si facevano vivi.
Il colonnello, ancora più in ansia di loro, contattò Rodhya e lo mise al corrente dei suoi progetti.
Il Consiglio esaminò a lungo la questione, poi venne dato il consenso: Anders sarebbe partito per il pianeta Terra insieme ai due principini. Con lui sarebbe andato solo Lou Krentz. In quel modo il piccolo gruppo non avrebbe dato nell’occhio e avrebbe potuto cercare di scoprire cosa fosse successo a Zan e sua moglie.
Il viaggio si svolse senza incidenti. Sia Jason sia Shiri erano molto incuriositi dai comandi della piccola astronave da battaglia e Lou si divertì ad illustrare loro i princìpi basilari della navigazione interstellare, soprattutto perché si rendeva conto che era un ottimo modo per distrarli dal pensiero di quello che li aspettava.
Quando infine giunsero a destinazione Jason si concentrò e fece scattare il meccanismo principale per l’accesso alla caverna in cui si trovava il velivolo dei suoi genitori. Una volta fuori dell’astronave Anders guardò a lungo il guscio di energia che racchiudeva l’altro apparecchio e il bambino gli si avvicinò senza far rumore. - Hanno dovuto farlo per nasconderlo ai sistemi di ricerca -
L’uomo si scosse e gli posò una mano sulla spalla. - Dovremo fare molta attenzione. Ma riusciremo a ritrovare i reali... -
- Sì, lo so. Loro... sono vivi. - Jason sorrise al colonnello, che rimase colpito dalla sua somiglianza col padre. - Andiamo! - Si avviò verso uno stretto corridoio scavato nella roccia ed infine pose la mano su di un punto ben preciso creando un’apertura verso l’esterno. La tenue luce stellare illuminò i loro volti mentre uscivano all’aperto. Si guardarono intorno per assicurarsi di essere soli, dopodiché Jason fece un lento giro su se stesso. - Da quella parte - mormorò indicando una direzione col braccio.
Shiri gli si affiancò, e Anders e Krentz si incamminarono dietro di loro. Non avevano armi, non volevano che gli umani scoprissero qualcosa della loro tecnologia, ma il loro addestramento era più che sufficiente ad assicurare la protezione dei due ragazzi.
Camminarono per diverse ore e quando giunsero nei pressi di Roswell era ormai giorno.
- Qui abitano lo zio Jim, zia Amy, zio Morgan... lo zio Michael e la zia Maria, e i nonni... - Jason pronunciò le ultime parole con nostalgia. - Adesso ci sono solo zio Jim e zia Amy - Si voltò a prendere la mano della sorella. - Vieni, andiamo... -
Il colonnello Anders li avvertì. - Non dobbiamo attirare l’attenzione su di noi, ricordàtelo! Jason, se vedi qualcuno che riconosci avvertimi subito ma non avvicinarti a nessuno, hai capito? -
- Sì, va bene. - Il ragazzo riprese ad avanzare, e di lì a poco costeggiavano le prime case dell’abitato.
- E’ un bel posto, mi piace... - Shiri sorrise al fratello. - Dove si va, adesso? -
- In giro. Io non so i nomi delle strade, ma riconosco i posti e le persone. Forse troveremo lo zio Jim: lui potrebbe aiutarci -
Vagarono a lungo per le vie della città. Roswell non era molto grande, ma non avendo alcuna idea della sua struttura il gruppetto si ritrovò a ripercorrere più volte le stesse strade prima di comprenderne lo schema.
Erano circa le due del pomeriggio quando Jason si fermò davanti ad una vetrina in cui facevano bella mostra di loro panini di tutte le forme. - Vorrei mangiare qualcosa. Tu hai fame, Shiri? -
- Sì - La ragazzina sorrise, attirandosi gli sguardi ammirati di un paio di studenti che si stavano avvicinando al negozio.
Lou le diede una leggera spinta sulla schiena invitandola a proseguire. - Mi dispiace, altezza, ma non abbiamo nulla da dare in cambio... - Si frugò nella tasca interna del giubbetto e ne estrasse una razione militare. - Però ho questa. Va bene lo stesso? -
- Oh, sì, grazie! - Shiri l’afferrò ridendo e ruppe la custodia plastificata.
Anders lanciò un’occhiata divertita al compagno e poi s’infilò una mano nei pantaloni. - Tieni, Jason, questo è per te... - Gli tese un pacchetto identico a quello che aveva avuto Shiri e si portò una mano al petto in segno di saluto. - Ne ho altri, in caso di bisogno -
- No, uno è più che sufficiente. E’ da quando siamo partiti che non mangiamo altro, e mi piacerebbe qualcosa di diverso... -
- Sì, hai ragione. - L’uomo sorrise con affetto a Jason e indicò la strada davanti a loro. - Bene, allora torniamo verso il centro. Chissà, forse stavolta incontreremo qualcuno che conosci! -
Mentre passavano davanti ad un edificio con una bandiera appesa all’esterno incrociarono un uomo il cui viso era seminascosto da un cappello dalla foggia insolita.
L’uomo li fissò per qualche istante prima di proseguire per la propria strada, ma ogni tanto si voltò indietro e guardò incuriosito i quattro passanti.
Anche Jason si girò un paio di volte per osservarlo, mentre Shiri lo studiava perplessa domandandosi cosa avesse attirato la sua attenzione.
- Riconosci quell’uomo? -
Al tono sommesso del colonnello il ragazzino si scosse. - Io... non ne sono sicuro... Forse è qualcuno che ho incontrato solo poche volte, non lo so... -
- O forse lui conosce tuo padre, e tu gli somigli molto -
Jason socchiuse gli occhi. - Sì, potrebbe essere. Vorrei parlargli... -
Thien Anders rifletté brevemente. - No, non adesso. Prima voglio assicurarmi della sua identità. Non intendo rischiare la tua vita e quella di tua sorella -
- D’accordo. Allora lo seguiamo? -
L’uomo sorrise e gli passò un braccio intorno alle spalle. - Sì, Altezza. Ma con molta discrezione... -
Poco più tardi videro l’umano entrare in un locale le cui ampie finestre consentirono loro di dare una veloce occhiata all’interno. C’era parecchia gente che mangiava, e ragazze vestite con uno strano abito ed antenne tra i capelli che camminavano veloci fra i tavoli distribuendo piatti e bicchieri.
- Che razza di abiti indossano? - domandò perplesso Lou.
- Mah! - Anders si strinse nelle spalle.
Una donna passò loro accanto, aprì la porta e sparì all’interno.
Jason la guardò incuriosito poi socchiuse gli occhi. - Credo... credo di conoscerla... Thien, io non riesco... Mi sembra di averla già vista ma non ricordo chi sia... - La sua voce si affievolì e sospirando s’infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. - Temo che sia tutto inutile. Vorrei tanto riuscire a sentire papà e mamma... -
Sentendo la sua tristezza Shiri gli passò un braccio sotto il gomito. - Li ritroveremo. Su, entriamo a dare un’occhiata più da vicino! -
Nel sentire la porta aprirsi James Valenti si girò lentamente aggiustandosi gli occhiali sul naso e corrugò la fronte. Di nuovo quei quattro... Li guardò con attenzione, incuriosito dai loro abiti. Non avrebbe saputo spiegare esattamente il perché, ma quei completi scuri e anonimi gli fecero venire in mente delle uniformi. Anche gli occhi attenti con cui i due uomini osservavano i frequentatori del Crashdown gli davano l’impressione di avere davanti dei militari. E chi erano i ragazzini che stavano con loro? Avevano un’aria vagamente familiare, ma non riusciva a capirne il motivo... Poi il più alto dei due accennò un sorriso e qualcosa scattò nella sua mente. Inghiottì con un sorso il resto del caffè e scese dallo sgabello per andare dalla moglie, che stava sistemando sul bancone le torte appena portate da casa. - Amy! -
La donna si girò verso di lui. - Sì, caro? -
- Guarda quei quattro laggiù, vicino alla porta. Il ragazzo sulla sinistra. Non ti ricorda Max Evans? -
Lei corrugò la fronte sorpresa poi fece come le era stato detto ma proprio in quel momento il piccolo gruppo uscì. Allora fissò il marito stringendosi nelle spalle e tornò ad occuparsi dei suoi dolci.
Lo sceriffo si mordicchiò pensoso le labbra, depose una manciata di monetine accanto alla tazza ed uscì a sua volta.
Di nuovo in strada Shiri si volse a studiare il profilo severo del colonnello Anders. - Perché ce ne siamo andati subito via? -
- Quell’uomo si è accorto di noi. Questo posto è troppo piccolo, non è prudente restare qui. Torniamo all’astronave -
- Thien, ti prego, dammi un’altra possibilità! - Jason tese una mano per toccarlo sul braccio e Anders la coprì con la propria.
- Non ora, Altezza. Adesso è meglio scomparire per qualche giorno... -
Il ragazzino si oscurò in viso ma non disse altro, consapevole del fatto che il suo compagno aveva ragione, poi tese una mano per prendere quella di Shiri e con lei s’incamminò dietro i due uomini.
Quando furono di nuovo nella caverna era notte inoltrata. Jason e Shiri si sdraiarono sul telo preparato per loro da Lou e rimasero a lungo ad osservare l’astronave con cui avevano fatto ritorno sulla Terra.
- Aiutami, Shiri - Jason tese il braccio verso la sorella, che comprese senza bisogno di altre spiegazioni e lo imitò intrecciando le loro dita.
Entrambi chiusero gli occhi per concentrarsi e proiettarono le loro menti nel misterioso mondo dei sogni.
Anders, che faceva il primo turno di guardia, osservò pensoso i due ragazzi. Comprese quello che stavano cercando di fare e trattenne a stento un sospiro. Anche lui si sentiva frustrato per la sua incapacità di ritrovare Zan, ma tutto ciò che aveva erano i ricordi di Jason e in più doveva agire con grande cautela, evitando di mettere a repentaglio la vita dei prìncipi. Quello non era il suo pianeta, ma un mondo sconosciuto in cui una sola mossa sbagliata avrebbe significato la morte per tutti loro. Forse l’unico aiuto poteva davvero venire dalle particolari capacità dei suoi protetti. Con un sospiro volse lentamente la testa e scrutò con attenzione lo spazio circostante. La debole luminescenza del campo di forza che racchiudeva la nave più grande era appena sufficiente a distinguere le ombre tuttavia il suo sguardo allenato non perdeva un solo particolare. Krentz, come d’abitudine, dormiva ai piedi di Jason e Shiri. Per l’ennesima volta si augurò di essere all’altezza del compito affidatogli.
Verso l’alba la bambina emise un lamento sommesso prima di spalancare gli occhi e raddrizzarsi di scatto a sedere.
- Altezza, tutto bene? - Lou Krentz, che aveva dato il cambio a Anders, si voltò per un istante verso di lei prima di tornare a controllare la semioscurità che li circondava.
- No. Non riesco a vedere niente, solo tanto... buio... - Shiri si strinse le braccia al petto mentre, al suo fianco, Jason la guardava con espressione desolata.
- Jason? - domandò ancora il giovane ufficiale.
- Sì, Lou? - rispose il ragazzino.
- Niente, volevo solo sapere se anche lei era sveglio. -
- Ti prego, Lou, non trattarmi come se fossi il signore di Antar! Mio padre è ancora vivo, anche se non riusciamo a sentirlo! - Jason appoggiò un gomito a terra raddrizzandosi. - Torniamo in città. Voglio provare di nuovo -
Krentz trattenne a stento un sorriso. Era vero, il ragazzo preferiva che ci si rivolgesse a lui in modo confidenziale, ma a volte c’era qualcosa, qualcosa di indefinibile, per cui non poteva evitare di usare un tono più deferente. E aveva notato che per il suo comandante era lo stesso. In fin dei conti nelle sue vene scorreva il sangue della dinastia che regnava su Antar da tempo immemorabile, ed era il figlio di un grande sovrano... Bene, sapeva riconoscere un ordine anche quando veniva dato con voce infantile e sommessa! Si avvicinò al colonnello per svegliarlo e tutti insieme uscirono dalla caverna.
Si erano da poco incamminati lungo la statale quando un furgoncino si fermò e l’autista si offrì di accompagnarli.
Thien Anders ebbe una brevissima esitazione prima di accettare, poi aiutò Shiri a salire a bordo e Jason la imitò subito dopo. Lou sedette accanto a loro mentre il colonnello si mise davanti per poter controllare la strada.
- Mai stati prima a Roswell? Non è che sia una grande città, però ci sono un sacco di posti simpatici! Dovete provare il Crashdown, ci potete trovare le migliori torte della zona! Le fa Amy, la moglie dello sceriffo. -
“Sceriffo? Sceriffo... Amy...” Jason si ripeté più volte quelle parole, colpito dal senso di familiarità che gli davano, poi si volse a guardare fuori del finestrino e sospirò. “Perché non riesco a sentirvi? Che cosa vi hanno fatto?” Accanto a lui, Shiri scivolò contro la sua spalla e chiuse gli occhi. - Ce la faremo. Dobbiamo solo insistere... -
- Sì, certo. Ma credo che... -
- No, non dirlo. Non dirlo... - Le labbra della ragazzina tremarono. Anche lei aveva provato quella sensazione di vuoto, come se ci fosse un invisibile ostacolo tra loro e quello che cercavano di raggiungere. Il legame mentale con Jason le aveva permesso di conoscere i suoi genitori, e di provare amore per loro, e le mancavano come mancavano a lui. Thien e Lou erano fantastici, ma la mamma e il papà... Senza volerlo strinse le dita intorno al braccio del fratello. - Li ritroveremo - mormorò con maggiore fermezza.
Jason le coprì la mano con la propria. “Sì, Shiri, li ritroveremo. E ritroveremo i nonni e gli zii” Mentre si avvicinavano alla città monitorò passivamente tutta l’area poi, quando infine scesero dal furgoncino, serrò per un attimo le mascelle. - Non sono qui - disse con voce sorda.
- Ne sei sicuro? -
- Sì, Thien. Non li sento, e non sento la barriera che li nasconde. Loro sono... altrove... - Jason s’incamminò lungo il marciapiedi, seguito dagli altri. Voleva conoscere meglio quelle strade, respirare l’atmosfera di quel posto, sentire Roswell sotto la pelle. Così, forse, si sarebbe sentito più vicino alle persone che amava.
Quando passarono davanti ad una graziosa villetta su due piani si fermò all’improvviso trattenendo per un istante il fiato.
- Cosa c’è? - gli chiese Shiri guardandolo senza capire.
- Questa... questa è la casa dei nonni... Ne sono sicuro! - Col cuore che batteva all’impazzata Jason non aspettò che i suoi compagni verificassero l’assenza di pericoli ma corse verso la porta d’ingresso e vi si appoggiò con tutto il suo peso. - Sì! - Passò la mano sulla serratura aprendola poi entrò e corse su per le scale fino al piano di sopra, seguito dalla sorella.
- Ecco! Questa è la stanza di papà! - Si girò ansimando verso di lei, gli occhi illuminati da un sorriso eccitato. - Shiri, guarda, questi sono papà e mamma! - Tese la mano verso un portafotografie che faceva bella mostra di sé sul comodino accanto al letto.
Incuriosita, la ragazzina prese l’oggetto e guardò a lungo l’immagine della giovane coppia poi vi passò sopra la punta di un dito.
Dietro di lei Lou annuì. - Sì, sono Zan e Liz. Bene, voi rimanete qui mentre io vado ad aiutare il colonnello a controllare la casa. Non muovetevi da questa stanza, d’accordo? -
- D’accordo - Jason rispose sovrappensiero, completamente assorto nell’esplorazione di quel piccolo mondo.
Dopo un accurato sopralluogo Anders e Krentz decisero che non c’erano pericoli e che potevano utilizzare la casa come base.
I due bambini dormirono insieme nel letto di Max, sentendosi avvolti dal suo amore, e prima di chiudere gli occhi guardarono a lungo la foto che lo ritraeva accanto a Liz.
L’indomani mattina si svegliarono alle prime luci dell’alba e, attenti a non far rumore, scesero al piano di sotto. Il colonnello Anders, che aveva trascorso la notte sdraiato sul divano, li guardò arrivare con un sorriso. - Non è un po’ presto, ragazzi? -
- Veramente... avevamo fame. -
L’uomo si alzò e li precedette in cucina. - D’accordo. Allora vediamo cosa possiamo trovare da mangiare! - Cominciò a frugare tra le provviste poi depose sul tavolo un pacco di biscotti. - Se solo avessi una vaga idea di cosa siano tutte quelle scatole potrei preparare una colazione migliore, ma purtroppo temo che vi dovrete accontentare di questi... -
Shiri aprì il pacco e ne estrasse i biscotti. - Vanno benissimo, grazie! - Lanciò uno sguardo al fratello. - Stanotte ho sognato la mamma - disse con voce esitante. - Con lei c’era anche la zia Isabel. -
Il ragazzino la fissò perplesso. - Stavano bene? -
- Sì. Ma poi la zia è sparita di colpo e la mamma si è messa a piangere. Io... avrei voluto farle sapere che ero lì ma non ci sono riuscita. -
Jason si mise a sgranocchiare un biscotto mentre Anders prendeva dei bicchieri, li riempiva di acqua e li metteva davanti a loro.
- Questo vuol dire che sono ancora vive, quindi... bene, è un’ottima notizia! - Parlò con tono allegro, nel tentativo di sollevare il morale dei due ragazzi, poi prese a sua volta un biscotto. - Sentite, oggi sarebbe meglio restare in casa. Non mi va che vi vedano troppo in giro... -
A quelle parole Jason s’incupì ma chinò il capo in segno affermativo. Ricordava fin troppo bene lo sguardo intenso dell’uomo dallo strano cappello, e non gli sarebbe piaciuto incontrarlo di nuovo. Thien aveva ragione a preoccuparsi. Lui non conosceva nessuno, a parte le persone che erano state portate via con suo padre e sua madre, e non era in grado di dire di chi potevano fidarsi e chi dovevano evitare.
Poco dopo vennero raggiunti da Lou, che fu messo al corrente dei programmi per quel giorno, poi Jason e Shiri si ritirarono di nuovo nella stanza di Max e cercarono di entrare in contatto mentale coi loro genitori. Tentarono inutilmente per tutta la mattinata poi, sfiniti, si addormentarono.
Quando Lou andò a chiamarli perché scendessero a mangiare qualcosa li trovò rannicchiati sul letto, ancora immersi in un sonno profondo. Con delicatezza li scosse per svegliarli, temendo che continuassero la loro ricerca anche mentre dormivano, e li invitò a seguirli di sotto.
Vedendo i loro visi stravolti anche il colonnello Anders si preoccupò. - Ragazzi, non dovreste esagerare nell’uso dei vostri poteri! Potreste finire con l’ammalarvi, e questo non ci aiuterebbe a ritrovare Zan e la signora... - Fece un piccolo gesto per bloccare sul nascere le proteste di Jason. Ricominceremo domani, ma per oggi basta! - Spinse davanti a loro due piatti contenenti del tonno e mais. - Ho trovato queste cose. Non sanno di molto, ma i biscotti sono finiti. Però, se volete, ci sono ancora delle razioni... -
- Grazie, Thien, va bene così. - Il ragazzo prese un cucchiaio e cominciò a mangiare.
Shiri imitò il fratello senza dire nulla, per quanto il suo sguardo tradisse un certo risentimento.
- Principessa, a volte saper aspettare può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta - mormorò Krentz, cui non era sfuggita la sua espressione ribelle.
Il resto della giornata si trascinò stancamente e tutti loro accolsero con sollievo il sopraggiungere della notte.
All’alba Jason si concentrò su Isabel e quasi gemette per il sollievo quando sentì stabilirsi il contatto. Ebbe giusto il tempo di dirle che lui e Shiri si trovavano a Roswell, poi qualcosa lo svegliò bruscamente. Il telefono posto sul comodino al suo fianco aveva cominciato a squillare e gli occorsero diversi secondi prima di decidersi ad alzare il ricevitore. Soddisfatto perché il fastidioso suono era cessato rimise giù la cornetta e svegliò la sorella.

- Oddio! - Isabel spalancò gli occhi e tirò indietro le lenzuola poi si mise a cercare freneticamente la casacca dell’ospedale.
- Isabel, cosa c’è? - La voce di Morgan risuonò insonnolita, e la ragazza si volse a guardarlo da sopra la spalla. - Ho sentito Jason! - Spalancò la porta e corse nella stanza del fratello, dove entrò senza neppure bussare. - Max, Liz, ho sentito Jason! E’ a Roswell, con Shiri! -
Max, che aveva trascorso tutta la notte a guardare Liz dormire tra le sue braccia, si girò di scatto verso di lei.
- E’ entrato in contatto con me per pochi istanti, poi è sparito. Ma era lui, ne sono sicura! -
- L’hai visto? Come stava? -
Isabel scosse la testa. - No, non l’ho visto, l’ho solo sentito -
Nel frattempo Liz si era svegliata. - Isabel? - mormorò raddrizzandosi lentamente.
- Ha sentito Jason. Lui e Shiri sono a Roswell... -
La ragazza sollevò lo sguardo sul marito. - A Roswell? - ripeté stupita.
- Già. Isabel, va’ ad avvertire Michael! Io vado a svegliare i miei genitori. Partiamo subito! -
- Forse vi converrebbe aspettare l’esito dell’incontro col presidente, se non altro per non mettere in pericolo la vita dei vostri figli... -
A quelle parole Isabel fece un mezzo giro su se stessa. - Morgan! -
Liz si affrettò a scivolare sotto il lenzuolo, imbarazzatissima, mentre l’uomo avanzava lentamente nella stanza semibuia. Max si sollevò a sedere nascondendola alla vista col proprio corpo. - Potrebbe essere troppo tardi. - disse con voce incolore.
- No, non credo. Certo, se il generale Howard e mio padre non riescono a convincere il presidente voi sarete nei guai, ma almeno i bambini saranno ancora liberi -
- E quanto dovremmo aspettare? - domandò piano Liz.
- L’appuntamento è per mezzogiorno. Mancano solo poche ore... -
- Poche ore... - Lo sguardo di Max si perse nel vuoto. Poche ore prima di sapere se avrebbero potuto riprendere a vivere normalmente, oppure se sarebbero tornati nelle mani di gente disposta a tutto pur di scoprire qualcosa di più su di loro. Poche ore lunghe un’eternità.
Liz fece scivolare una mano verso la sua intrecciandone le dita. - Credo... credo che abbia ragione lui... Sarà meglio... aspettare... -
Max spostò lo sguardo su di lei, poi annuì lentamente.
Isabel si morse le labbra, a disagio. - Va bene. Allora vado da Michael... -
Mentre gli passava accanto per uscire Morgan le prese con gentilezza il braccio. - Mio padre conosce personalmente il presidente. Farà di tutto per aiutarvi, credimi... -
La ragazza lo guardò un attimo negli occhi, poi annuì e se ne andò.
Rimasti soli, Morgan fece un profondo sospiro. - Non lascerò che vi prendano di nuovo, o che facciano ancora del male a Isabel e a tutti voi. Potete contare su di me - Chinò un poco la testa in segno di saluto e uscì dalla stanza.
Circa due ore dopo era accanto al padre, vicino al piccolo aereo privato che lo avrebbe condotto a Washington.
- Farò del mio meglio, Morgan, credimi! -
- Lo so -
L’uomo batté con affetto una mano sulla sua spalla. - Ti chiamerò non appena l’incontro sarà finito. Comunque sarà bene che siate pronti a filarvela, nel caso l’esito dovesse essere negativo... Isabel mi è sembrata una brava ragazza. Non sarà facile aver cura di lei, ma... buona fortuna! -
- Grazie. Papà, loro... loro hanno deciso che, se le cose andranno male, lasceranno la Terra. Preferirebbero vivere qui ma... non sono disposti a rischiare di nuovo la vita dei loro figli. -
Coltrane corrugò la fronte. - E tu seguiresti Isabel, giusto? -
Morgan annuì poi sorrise con un certo sforzo e arretrò di qualche passo per guardare il padre sparire all’interno dell’aereo.
Avevano parlato a lungo insieme a Max e agli altri perché sia lui sia Howard avessero ben chiara la situazione, e adesso doveva solo avere fiducia nelle capacità di suo padre. Il presidente era una persona molto in gamba e decisa, e non si sarebbe lasciato fuorviare dalle belle parole. Thomas Coltrane avrebbe dovuto appoggiare il generale Howard con discrezione e molto tatto, ma era davvero l’unica persona in grado di intervenire a favore dei suoi amici!
E in effetti l’uomo si rivelò all’altezza delle speranze del figlio.
Il presidente aveva già parlato con il suo Stato Maggiore ed il capo dell’FBI prima dell’appuntamento con Howard e Coltrane, tuttavia ascoltò con attenzione il comandante del Norad volendo avere le idee ben chiare. Certo, la notizia confermata della presenza di alieni sul pianeta, e addirittura negli Stati Uniti, lo aveva scosso non poco ma l’urgenza del tono con cui Howard aveva chiesto un incontro lo aveva incuriosito e così aveva deciso di rinviare, sia pure solo di qualche giorno, la decisione finale.
Il generale sembrava essere riuscito a smorzare l’effetto minaccioso dei rapporti dei suoi colleghi, tuttavia qualcosa nell’espressione del presidente aveva preoccupato Coltrane, che ad un certo punto intervenne con decisione nel colloquio.
- Non voglio che tu pensi che ne faccia una questione personale - disse piegandosi leggermente in avanti per guardare il presidente dritto negli occhi, - ma stiamo parlando di tre ragazzi di vent’anni, che sono cresciuti in una cittadina tranquilla senza mai dare fastidio a nessuno! L’FBI si è accorta di loro soltanto quando sono intervenuti per salvare la vita di una compagna di scuola, e da allora li ha perseguitati senza un attimo di tregua! -
- Hanno ucciso degli agenti federali, Thomas. Non sono innocui come vuoi farmi credere... -
- Sono stati costretti a farlo per difendersi! Quelli dell’FBI, invece, se la sono presa perfino con i loro amici e dei bambini! -
- Bambini?!? -
Davanti all’espressione incredula dell’uomo Thomas Coltrane ebbe una piccola risata amara. - Non te lo hanno detto, eh? - Si riappoggiò contro lo schienale della poltrona. - Sì, ci sono anche due bambini, figli di un alieno e di un’umana. E i tuoi federali li hanno strappati dalle braccia della madre il giorno dell’incursione ad Albuquerque! E’ vero, ho un interesse particolare per questi ragazzi, ma ti assicuro che meritano di essere lasciati in pace! Purtroppo non hanno nessun motivo per fidarsi di noi, e quindi non possiamo sperare che ci rivelino tutti i loro segreti, ma non rappresentano alcun pericolo per il nostro pianeta, né tanto meno per gli Stati Uniti! -
- Sei proprio convinto di quello che dici, vedo... -
- Lo saresti anche tu se li conoscessi, credimi! Sono... sono dei ragazzi normalissimi, coi loro sogni e le loro speranze, e il fatto che provengano da un altro mondo non significa che debbano essere uccisi a vent’anni per scoprire come funziona il loro organismo! -
- Non è questo che vogliamo fargli - ribatté il presidente con tono duro.
- Ma è questo che gli stanno facendo. - Il tono di Coltrane fu, se possibile, ancora più duro. - C’è una ristretta cerchia di persone, all’FBI, che non si fa alcuno scrupolo nell’usare metodi assolutamente barbari per raggiungere i propri scopi. E se mai scopriranno di Morgan, anche mio figlio sarà in pericolo! Tu sei un uomo obiettivo. Ti prego, dammi ascolto! Lascia che quei ragazzi vivano in pace tra di noi! -
- Francis? -
- Non sono una minaccia. Oh, sì, credo che sarebbero in grado di fare un bel po’ di danni se dovessero decidere di ricorrere alle maniere forti per proteggere se stessi e i loro amici, ma nel complesso non hanno intenzioni ostili. Altrimenti ne avremmo sentito parlare già da un bel po’ di tempo... -
- Non è una decisione facile da prendere. Sapere che degli alieni sono tra noi e non poterli studiare, conoscere... E’... pazzesco... Come si può trascurare una simile occasione? -
- Non sarebbe stato necessario se si fosse usata la maniera giusta per avvicinarli. Ormai è troppo tardi... In ogni caso sappi che, per quanto preferirebbero vivere qui, sulla Terra, non intendono più fuggire. Piuttosto che continuare a nascondersi torneranno sul loro pianeta. Hanno i mezzi per farlo in qualsiasi momento e noi non potremo impedirglielo... -
Il presidente degli Stati Uniti lasciò vagare a lungo lo sguardo acuto sui suoi ospiti, poi mosse leggermente la testa in segno affermativo. - Sta bene. Ne parlerò col mio staff. Farò in modo che nessuno dia più fastidio a quei ragazzi. Ma se un giorno dovessi venire a sapere qualcosa di grave sul loro conto niente mi impedirà di toglierli di mezzo, siamo intesi? - Si alzò e tese la mano verso di loro.
- Intesi - Coltrane sorrise riconoscente e gli strinse la mano, subito imitato da Howard.
- Auguri per tuo figlio -
- Grazie... - L’uomo sorrise di nuovo poi se ne andò con l’amico.
Una volta solo il presidente si grattò con fare pensoso il mento, si avvicinò alla scrivania e premette un pulsante sull’interfono. - Walter, convoca lo Stato Maggiore per le tre di oggi -

Subito dopo la telefonata del padre di Morgan Max e Liz erano andati all’aeroporto, dove li aspettava l’altro aereo privato dei Coltrane, ed erano partiti per il New Mexico. Con loro c’erano anche i signori Evans, Michael e Maria, Isabel e Morgan. Durante il viaggio Isabel aveva rivelato al fratello e a Liz ciò che le aveva detto Morgan circa il ruolo avuto dai Parker nella loro individuazione da parte dell’FBI. Da quel momento Liz si era come ritirata in se stessa. Una volta arrivati a Roswell aveva insistito perché tutti gli altri tornassero alle loro case, e sola con Max aveva cominciato a vagare per le strade della città.
Camminavano lentamente lungo il marciapiedi affollato. Sul viso Liz aveva dipinta un’espressione ansiosa e la sua mano stringeva convulsamente quella di Max. Ad un certo punto si sentì osservata. Serrò ancora più forte la mano di Max, poi di colpo la lasciò andare e si girò. Il cuore le mancò un battito nello scorgere l’alta figura di Thien Anders e le labbra le si schiusero in un sorriso di gratitudine. Fece un passo verso di lui, poi un altro, e alla fine si rese conto dei due ragazzi immobili al suo fianco. - Max... Oh, Max... - Cercò lo sguardo del marito, quasi a volergli chiedere conferma, dopodiché riprese ad avanzare sempre più in fretta, le braccia aperte per accogliere i figli.
- Mamma! - Jason fu il primo a slanciarsi verso di lei, presto seguito da Shiri, ed insieme finirono addosso al corpo esile della ragazza, che li strinse a sé come se non volesse più lasciarli andare via.
Max osservò la scena con occhi lucidi, poi si avvicinò al gruppetto e sorrise intenerito quando Jason si volse per gettargli le braccia al collo.
Continuando a serrarsi al petto la figlia Liz guardò di nuovo il colonnello Anders. - Grazie! - disse con voce soffocata.
- E’ stato un piacere, signora - L’uomo salutò portandosi una mano al petto. - Sono lieto di rivedervi. -
- Anch’io... - La ragazza curvò la testa per posare la guancia sui capelli di Shiri e sospirò. - Oh, Shiri, piccola mia... - Chiuse gli occhi cullandola dolcemente, ignara dell’attenzione con cui Anders e Krentz sorvegliavano l’area circostante.
- Liz, andiamo a casa. - Max aveva preso in braccio Jason, che, nonostante l’altezza, rimaneva pur sempre un bimbo di un anno che adorava il padre, e teneva d’occhio la strada.
Liz si raddrizzò, colpita dal suo tono, e sentì la tensione crescere in lei. Sì, in effetti non era una buona idea rimanere lì, in mezzo alla gente, per cui diede un bacio sulla fronte della bambina e le passò un braccio intorno alle spalle.
In silenzio il piccolo gruppo si diresse verso l’abitazione degli Evans. Jason e Shiri camminavano in mezzo a Max e Liz, mentre Lou Krentz stava davanti e Anders alla retroguardia.
La ragazza continuava a lanciare occhiate ai due bambini, quasi temendo di vederli scomparire da un momento all’altro, mentre nella sua testa si rincorrevano le parole di Isabel.
Quando giunsero infine a destinazione Jason emise un grido di gioia nel trovarsi davanti il nonno.
Phillip Evans lo fissò sorpreso, poi guardò Shiri, poi Max. Notò la forte somiglianza fra i tre e per un attimo si sentì mancare. - Ma cosa diavolo...? -
- Nonno, sono Jason! -
- Jason?!? - L’uomo cercò lo sguardo del figlio, che lo ricambiò impassibile mentre entrava in casa sospingendo dolcemente Shiri davanti a sé.
Sbigottito, Evans si ritrovò puntati addosso gli occhi verde nocciola del ragazzino e ogni dubbio sparì. - Come... come è successo? - chiese con un filo di voce.
- L’energia usata per raggiungere Antar ha fatto impazzire le cellule del loro organismo. - Max rabbrividì nel ricordare le immagini ricevute quando aveva abbracciato il bambino. Sia Jason sia Shiri avrebbero potuto morire a causa degli effetti scatenati dall’enorme quantità di energia che era servita a sottrarli alla prigionia nell’area 51, e la sola idea lo faceva star male. Poi scrollò le spalle e sorrise. Papà, questa bellissima ragazza è Shiri. -
- Oh, cara, sei... sei davvero splendida! - L’uomo sfiorò con mano tremante la guancia della nipote, che accennò un timido sorriso.
In quel momento sopraggiunse Diane Evans, che si avvicinò esitando al marito. - Santo cielo, ma sono... sono Jason e Shiri?!? -
- Sì, mamma. Li abbiamo incontrati vicino all’Ufo Center. -
- Dovevo immaginarlo... E queste persone, invece...? -
- Colonnello Thien Anders e maggiore Lou Krentz. Hanno riportato loro i ragazzi qui a Roswell - Max ripeté brevemente la spiegazione nella sua lingua madre e i due uomini si portarono la mano al petto in segno di saluto, poi Anders si voltò verso il giovane e disse qualcosa che fece sorridere Liz.
La ragazza avanzò in direzione di Diane. - Jason ha riconosciuto la casa, così sono entrati e vi hanno trascorso gli ultimi tre giorni - le spiegò.
- Davvero? -
- Già. Il colonnello spera che la cosa non vi dispiaccia... -
- No, affatto! - La donna guardò l’ufficiale con un grande sorriso. - Come avrà notato, in questa casa il posto non manca. Lei e il suo... il suo collega potete rimanere tutto il tempo che desiderate! -
Liz si affrettò a tradurre, ed il colonnello fece un piccolo inchino che Diane comprese senza bisogno di aiuto. - Benissimo. Allora, intanto, vado a preparare la cena. Jason, Shiri, volete venire con me, così mi dite cosa preferite mangiare? -
Non appena i bambini si furono allontanati Max guardò il padre. - Possiamo andare nel tuo studio? -
- Sì, naturalmente - Phillip li precedette nella luminosa stanza semplicemente arredata con una grande libreria, un bel tavolo di noce massiccio e alcune poltroncine in pelle.
Max fece segno ai due militari di sedersi, poi si accomodò a sua volta e attirò sulle proprie gambe Liz.
Un lampo attraversò gli occhi del signor Evans. Aveva notato che, da quando erano scappati dall’area 51, suo figlio e Liz non si erano mai allontanati l’uno dall’altro, toccandosi di continuo in mille piccoli modi. Era come se temessero di essere separati. Certo, l’esperienza appena vissuta era stata terrificante, ma il loro sembrava un bisogno vitale. Quei due ragazzi avevano attraversato molti momenti difficili, eppure questa volta avvertiva un senso di... di ansia. Che cosa gli era stato fatto? Lui si trovava in soggiorno quando era stato colpito di striscio da uno dei primi proiettili sparati dagli assalitori. Aveva perso conoscenza e si era risvegliato nella piccola stanza in cui era rimasto confinato fino all’arrivo di Max. E né lui né Liz gli avevano mai detto cos’era successo. Anche Isabel, Maria e Michael erano stati molto riservati in proposito, il che poteva significare soltanto una cosa... Decise di affrontare l’argomento con decisione. - Max, che vi hanno fatto? -
Il giovane lo fissò senza espressione e rimase in silenzio.
- Senti, mi rendo conto che c’è poco che possa fare per aiutarti, per aiutare Jason e Shiri, tua sorella e Michael, ma sono pur sempre tuo padre e io... -
- Lo so, e ti ringrazio - lo interruppe Max. - Tu e la mamma avete già fatto moltissimo. Non devi preoccuparti, per loro non ci sarà mai più un’altra occasione. - Le sue dita strofinarono dolcemente la spalla di Liz. - Abbiamo parlato a lungo e... e abbiamo deciso che, se saremo attaccati di nuovo, partiremo per Antar e non torneremo più qui. Questo lo sanno anche Thomas Coltrane e il generale Howard. Noi non permetteremo che ai nostri figli venga fatto altro male... -
A quelle parole l’uomo chinò il capo e si guardò le mani, aperte sul piano della scrivania. - Sì, capisco... -
Dopo un attimo di silenzio Max fece una rapida traduzione a beneficio di Anders e Krentz, che annuirono impercettibilmente.
- Noi... vorremmo restare finché Sua Altezza non sarà sicuro che i prìncipi non corrono alcun rischio - disse il colonnello dopo che il giovane ebbe finito di parlare.
Max esitò. Sapeva quanto fosse difficile vivere in un mondo diverso dal proprio, lontani dalla famiglia e dagli amici, e non voleva ripagare in quella maniera la loro fedeltà, ma Anders sembrò capire e sorrise. - Per noi sarebbe un onore, Altezza... - Poi guardò Liz, quasi a voler chiedere la sua intercessione.
Liz ricambiò timidamente il sorriso prima di fissare gli occhi in quelli del marito. - Quando torneremo ad Albuquerque mi sentirei molto più tranquilla sapendo che c’è qualcuno che veglia sui nostri bambini... Giusto il tempo di finire gli studi... -
Lui sospirò e le fece una carezza leggera sulla guancia col dorso della mano. - Va bene - Dio, non poteva negarle nulla. Non dopo averla vista morire di nuovo, per colpa sua. Liz era la sua vita, la sua anima, e avrebbe fatto l’impossibile per lei... - Va bene. - disse di nuovo, con voce appena più forte, rivolto al colonnello, che si portò la mano al petto. Poi, al padre che lo guardava interrogativo, spiegò: - Jason e Shiri avranno ancora per un po’ le loro guardie del corpo. -
- Ne sono lieto! - Phillip Evans sorrise grato ai due uomini, dopodiché corrugò la fronte pensieroso e s’infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni, da cui estrasse il portafogli. Prese la carta di credito e la porse al figlio. - Tieni, procuragli dei vestiti adatti. Non è il caso che vadano ancora in giro con quella specie di uniforme, non credi? -
- No, hai ragione... - Max sorrise a sua volta accettando la tessera.

La cena era stata piacevolissima. Diane aveva preparato abbastanza cibo da sfamare un esercito, e in effetti la compagnia era stata molto numerosa. Ad Isabel e Morgan si erano aggiunti anche Maria e Michael, Amy e Jim Valenti. Lo sceriffo non si era sorpreso più di tanto nel vedere Jason e Shiri e i due supposti militari, mentre Amy sembrava non aver colto la straordinaria somiglianza dei ragazzi con Max. La padrona di casa li aveva presentati in maniera volutamente vaga ed Amy non aveva sospettato nulla. Fino a quando Jason prese la bottiglia di salsa Tabasco e ne versò buona parte del contenuto sull’insalata di piselli e carote con un sorriso ghiotto che accentuò le piccole fossette sulle guance. Allora si bloccò con la forchetta a mezz’aria, un’espressione perplessa sul viso. - O santo cielo, ragazzo, ma così andrai a fuoco! Anche Michael mette una quantità spaventosa di Tabasco sulle... torte... - Terminò la frase abbassando sempre di più la voce mentre Max toglieva la bottiglia dalle mani di Jason mormorandogli di non esagerare. Solo allora sembrò notare l’insolita quantità di confezioni di salsa presenti sul tavolo, e da un rapido controllo dei piatti si rese conto di una cosa cui non aveva mai prestato attenzione prima. - Nessuno può usare tutto quel condimento senza soffocare... Max, Isabel, come fate? -
Un silenzio improvviso calò nel soggiorno. Michael cercò di sembrare disinvolto mentre riposava la bottiglia di salsa che aveva appena preso in mano, ma Amy lo vide e lo fulminò con lo sguardo.
- A noi... a noi piace molto... - disse Isabel con un sorriso incerto.
- Me ne sono accorta - La donna si avvide dell’imbarazzo del marito e lo fissò perplessa. - Cosa c’è? - chiese con fare battagliero. - Perché siete tutti così a disagio? Che cosa ho detto di strano? -
- Ecco da chi hai preso, Maria... - borbottò Michael alla sua compagna senza quasi muovere le labbra.
Maria gli diede un piccolo calcio sotto il tavolo facendolo sussultare per il dolore, poi afferrò a sua volta una bottiglia di salsa e l’agitò sotto il naso della madre. - Beh, vedi, mamma, agli alieni piace mescolare il dolce col piccante! -
Amy la guardò senza capire. - Che diamine stai dicendo? Cosa c’entrano, adesso, gli alieni? -
La ragazza sbuffò e tolse il tappo lasciando cadere una piccola cascata rossa nel piatto di Michael. Niente, era solo una battuta... -
Non troppo convinta, Amy riprese a mangiare e a poco a poco l’atmosfera tornò vivace e scherzosa.
Ma l’incidente aveva colpito molto Liz, cui era venuto spontaneo il confronto coi suoi genitori. Anche loro erano all’oscuro della vera identità di Max e degli altri, e probabilmente avrebbe fatto bene a non rivelargliela. Forse ad Amy, un giorno, si sarebbe potuta dire, ma non ai suoi genitori. A loro mai. Le faceva male sapere di non potersi fidare eppure non poteva comportarsi in maniera diversa. Lo stomaco le si chiuse e cominciò a giocherellare col cibo.
Poi Diane servì una torta di mele dall’aspetto invitante e Maria attese che il dolce fosse distribuito a tutti prima di parlare con voce divertita. - Ah, Michael ed io ci sposiamo sabato prossimo. Naturalmente siete tutti invitati! -
- Tesoro, ma è una notizia fantastica! - esclamò sua madre entusiasta.
- Congratulazioni, ragazzi! - Jim sollevò il bicchiere verso di loro in un brindisi, presto imitato dagli altri.
Isabel sorrise a Morgan poi, mentre suo padre si affrettava a versare dell’altro vino a chi ne era rimasto sprovvisto, alzò il proprio bicchiere. - A noi, invece, occorre un po’ più di tempo. Tenetevi liberi per la fine del mese... -
Erano quasi le dieci e mezza quando lo sceriffo e sua moglie se ne andarono, seguiti a ruota da Michael, Maria, Isabel e Morgan, poi Liz si avvicinò a Max e gli chiese di accompagnarla al Crashdown. Il giovane, sapendo che lei non aveva ancora avvertito i familiari del suo ritorno, acconsentì di buon grado. Prima misero a letto Jason e Shiri, cui era stata destinata la stanza di Isabel, dopodiché uscirono nella tiepida notte di inizio primavera e salirono sulla macchina di Phillip Evans.
Quando furono davanti al locale, ancora pieno di clienti, Liz si soffermò per qualche istante fuori della porta.
- Vuoi che ritorniamo domani? - le chiese gentilmente Max.
- No, no, voglio parlargli ora - La ragazza si aggiustò la manica del golfino con fare nervoso, poi fece un respiro profondo ed entrò.
Max rallentò il passo mentre lei si dirigeva spedita verso il retro, si guardò intorno per controllare che nessuno prestasse loro attenzione, e andò a sedersi ad un tavolo libero.

- Liz! - Nancy Parker fece quasi cadere la cesta con la biancheria sporca quando vide la figlia entrare nel piccolo disimpegno da cui si accedeva agli spazi privati. Si affrettò allora a posarla in terra e andò verso di lei con un sorriso felice ma Liz fece d’istinto un passo indietro.
- Nancy, puoi venire un attimo? -
Nell’udire il richiamo del marito la donna volse appena il capo. - Jeff, Liz è tornata! -
- Come? - La voce di Jeffrey Parker suonò forte, vicina, e difatti l’uomo fece capolino dalla stanza accanto. - Liz! Bentornata, tesoro! - Anche lui avanzò per abbracciarla ma s’immobilizzò nel notare la sua espressione.
- Io... sono venuta per parlarvi -
- Ah, va bene... Allora andiamo di là... - Indicò con il braccio il piccolo soggiorno e lasciò che lei lo precedesse, poi scambiò uno sguardo preoccupato con la moglie.
Quando i Parker si furono seduti Liz si avvicinò al tavolo e vi si appoggiò, rifiutando di sedersi. - Ho saputo che siete stati voi a parlare agli agenti dell’FBI dei poteri di... di guaritore di Max. - Fissò la coppia negli occhi. Il suo volto era chiuso, distante. - Siete venuti meno alla parola data. Quando Max mi guarì dal coma voi prometteste di non rivelare mai a nessuno il suo segreto, e invece lo avete tradito. E avete tradito anche me -
- Cara, noi non pensavamo di fare del male! Quelli erano... - cercò di protestare Nancy, ma la ragazza si protese verso di lei con espressione dura. - Quelli erano agenti federali, le ultime persone al mondo che avrebbero dovuto sapere di Max e del suo potere! Quegli agenti hanno fatto sì che io e Max, e Isabel, e Maria, Michael, i signori Evans, e perfino Jason e la mia bambina venissimo portati via! - Si portò le mani ai capelli per sospingerli dietro le orecchie, un gesto che tradì tutto il suo nervosismo. - Voi non avete mai accettato Max. Siete... siete sempre stati convinti che la mia fosse solo l’infatuazione di una ragazzina. Invece... è stato molto difficile, per me, amarlo... - La voce le si spezzò e gli occhi le si inumidirono. - Non vi siete mai resi conto dei miei problemi, della mia sofferenza... Pensavate solo che fossi troppo giovane per capire... Per capire cosa sia davvero la vita... O forse non avete voluto vedere che stavo... crescendo... - Deglutì con un certo sforzo. Non voleva piangere. Non doveva. - Io... io vi ho nascosto molte cose... Ho dovuto farlo per proteggermi, e per proteggere Max... E quando vi è stato confidato qualcosa di prezioso... di importante... avete tradito la fiducia che era stata riposta in voi... Io... so che lo avete fatto perché pensavate di fare il mio bene... e solo per questo vi perdono... -
- Liz, ti rendi conto di quello che stai dicendo? - s’intromise Jeff Parker, innervosito per quell’attacco.
- Oh, sì, papà, me ne rendo conto benissimo! - Liz si raddrizzò. Il suo tono divenne deciso, quasi rabbioso. Tu hai visto in che condizioni hanno ridotto la mia casa, il sangue per terra, sulle pareti... Quello che ci è stato fatto è... è stato orribile! Io ho perduto qualcosa di molto importante, qualcosa che mai nessuno potrà ridarmi, e il ricordo di quelle immagini... Avevo appena partorito Shiri, e me l’hanno portata via! - Strinse i pugni e alzò la voce. - Maledizione, lo sai che cosa ho provato quando ho visto Max cadere davanti ai miei occhi? - Si volse di scatto per cercare di riprendere il controllo di sé. - Vi perdono, sì, ma per qualche tempo non fatevi vedere. - Inspirò profondamente, due, tre volte, e un poco alla volta si calmò. Tornò a guardare il padre, poi la madre. - Mi dispiace, voi non potevate sapere cosa sarebbe successo, ma avreste dovuto, almeno per una volta nella vostra vita, fare qualcosa per me... veramente per me... -
- Cara, mi dispiace... mi dispiace così tanto... - Nancy aveva il viso rigato di lacrime. Liz aveva ragione. Lei non aveva mai smesso di vederla come una bambina, la sua bambina, e aveva sempre cercato di fare quello che riteneva giusto senza tener conto della sua personalità, delle sue esigenze. E forse, così, l’aveva perduta per sempre...
Liz sembrò cogliere il suo profondo dolore perché le rivolse un piccolo sorriso triste. - Ve lo ripeto, vi perdono... Ho solo bisogno di tempo... molto tempo... per accettare tutto questo... - Si scostò dal tavolo e, senza aggiungere altro, se ne andò lasciando dietro di sé un penoso silenzio.
Vedendola tornare, Max depose la tazza di caffè ancora colma per metà e le andò incontro.
La ragazza si rannicchiò contro la sua spalla e lui le circondò la vita con un braccio stringendola a sé. - Riportami a casa, ti prego. - sussurrò.
Max le diede un bacio sulla fronte. - Certo, amore mio. Andiamo... -
Poco più tardi, al sicuro nella camera del giovane, Liz fece l’amore con lui con una sorta di disperata passione e poi rimase distesa sul suo corpo, stretta fra quelle braccia forti, ad ascoltare il battito del cuore di Max calmarsi a poco a poco. - Insieme... - bisbigliò.
- Sempre - Max le sorrise e le diede un bacio sui capelli. - Sempre... -

Scritta da Elisa


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