Riassunto: Questa
storia, in 22 capitoli, è la seconda di cinque fanfiction collegate tra loro.
Sono passati tre mesi dalla fine di
"Il figlio di nessuno". Nate sta cercando
di adattarsi alla sua nuova vita, cercando di mantenere il segreto su quello
che ha scoperto.
In questa seconda parte c’è forse meno movimento, è una sorta di raccordo
tra la prima fanfiction e la terza, ma impareremo a conoscere meglio i
nostri personaggi, specialmente Nate ed Alyssa e il loro legame, e ne
scopriremo di nuovi...
Valutazione contenuto:
non adatto ai bambini.
Disclaimer: Ogni
riferimento a Roswell appartiene alla WB e alla UPN. Tutti gli attori
protagonisti del racconto e citati appartengono a loro stessi.
Capitoli
1-6
Capitolo 7
Quella notte Nate non riuscì più a
dormire. Rimase disteso nel letto finché la luce del mattino non entrò dalla
finestra, poi sospirò e cominciò ad alzarsi. Ormai si era abituato, abituato
a dormire poco, anche se il sogno che aveva fatto quella notte era stato più
sconvolgente degli altri.
Infilatosi i pantaloni di una tuta e le scarpe da ginnastica, Nate pensò che
se Max stava ancora dormendo, lui poteva fare una corsa prima di colazione.
A metà delle scale, invece, si rese conto che Max si era già alzato – sentì
sua madre che parlava con lui in cucina. Nate si fermò, colpito dal fatto
che Emma stesse ridendo; quel suono gli riscaldò il cuore e scese la scala,
ascoltando in silenzio la loro conversazione.
"Vorrei ringraziarvi," stava dicendo Max. "per aver dato a Nate la casa che
io non ho potuto dargli." C’era una sincera gratitudine nella sua voce, che
fece capire a Nate quanto doveva essere stato duro per Max lasciarlo andare.
"E’ stata la nostra gioia." replicò Emma, con un accenno di ringraziamento
nella voce. "E’ un ragazzo meraviglioso."
"Si, è speciale." disse Max con affetto.
Nate sentì il rumore dei piatti e capì che Emma e Max erano svegli già da un
bel po’ e che lei aveva insistito per preparargli la colazione. Seduto sulle
scale, poteva vedere l’orologio del soggiorno – erano già le otto passate –
e sapeva che Jonathan ormai era già al negozio.
"Sono contenta che tu sia venuto." stava dicendo Emma, mentre Nate
continuava ad ascoltare. "Nate è un po’ … giù di morale, ultimamente."
"Cosa vuole dire?"
"In realtà, non lo so. Da quando è tornato è come … distante."
Nate si morse il labbro inferiore – come avrebbe fatto Max a superare
l'inquisizione prevista in origine per Diane Evans?
"Ha rotto con la sua ragazza, vero?" domandò Max.
"Si, ma …" Emma fece un sospiro. "Ma era cominciato già da prima. E'
successo qualcosa mentre era a Roswell? Non sto cercando di ficcare il naso,
è solo che sono molto preoccupata per lui."
"E' comprensibile." la voce di Max esprimeva tutta la sua intesa, più di
quello che Emma era in grado di capire. "Che io sappia, non è successo nulla
di traumatico, mentre era in New Mexico."
Nate sorrise – Max era un gran bugiardo.
"Credo che abbia bisogno di un periodo di adattamento." continuò Max. "Anche
io sono stato adottato, lo sa?"
"No, non lo sapevo." si sorprese Emma.
"Si. Io e mia sorella siamo stati adottati quando avevamo sei anni.
Naturalmente, ho sempre saputo di essere stato adottato, ma c'erano comunque
tante cose che non capivo. Non sapevo da dove venivo, chi fossero i miei
genitori."
"Anche a quell'età?"
Nate spalancò gli occhi – questa volta Max aveva fatto uno scivolone. Nate
sapeva che gli ibridi erano usciti dai bozzoli con l'aspetto di bambini di
sei anni, ma se Max fosse stato umano, avrebbe dovuto ricordare qualcosa del
periodo precedente.
"Eravamo stati abbandonati." si riprese Max immediatamente.
"Oh, santo cielo!" esclamò Emma. "Poverini."
"E' stata dura, non posso negarlo. Ma alla fine tutto è andato a posto – ho
dei grandi genitori, proprio come li ha Nate. Ad ogni modo, credo che ci
siano state troppe cose per lui da assimilare tutte insieme. Non credo che
lei debba preoccuparsi, se lo vede un po' strano. Essendoci passato
personalmente, so che ha troppe cose nella mente."
"Credo che tu abbia ragione." Ci fu una pausa e Nate immaginò l'espressione
pensierosa di sua madre. "Deve essere stato molto duro per te darlo via,
dopo essere stato abbandonato a tua volta."
La tazza di Max tintinnò sul piattino. "Lo è stato. Ma mi sono assicurato
che avesse una buona famiglia. Mi sono assicurato che venisse qui."
Nate si alzò in piedi e decise di rivelare la sua presenza. In cucina, trovò
Emma e Max seduti alla piccola tavola, davanti a loro piatti e tazze vuote.
Appena lo videro, gli sorrisero entrambi e Emma si alzò per lasciargli la
sedia.
"No, mamma." le disse. "Rimani seduta."
"Sciocchezze." rise lei, spostandosi. "Tu mettiti seduto e io ti preparerò
due uova. La padella è ancora calda."
Nate si mise a sedere e roteò gli occhi verso Max, che nascose il suo
sorriso dietro alla tazza del caffè. Nate notò che anche Max indossava la
tuta da ginnastica – era già stato a correre? Il fatto che entrambi avessero
avuto la stessa idea di andare a correre quella mattina, lo divertiva.
"Dormito bene?" chiese Nate, prendendo la caffettiera.
"Meravigliosamente." rispose Max, lanciandogli un'occhiata significativa. "E
tu?"
Nate scrollò le spalle. "Piuttosto bene. Se già stato a correre?"
Max rise. "Beh, l'idea sarebbe stata quella, ma quando mi sono alzato tua
madre stava preparando già la colazione e c'era un profumo da non poter
resistere. Andiamo insieme quando hai finito di mangiare?"
Nate annuì e mise la panna nella sua tazza. "Cinque chilometri?"
Max fece un'espressione di apprezzamento. "Già cinque chilometri? E'
impressionante."
Emma commentò, davanti ai fornelli. "Fa solo quello. Corre, corre, corre.
Glielo hai insegnato tu?"
Max fece un cenno con la testa. "Si. Non è tanto male, una volta cominciato,
vero?" chiese a Nate.
Nate annuì. Correre lo aiutava a schiarirsi le idee e, oggi, era esattamente
quello di cui aveva bisogno.
Mentre Nate mangiava in silenzio la sua colazione, Emma e Max continuarono a
parlare di cose insignificanti, solo per sentirsi a loro agio una con
l'altro. Max, essendo ospite, insistette per lavare i piatti, finendo il suo
e quello di Emma proprio mentre Nate faceva scivolare il suo nell'acqua.
Poi uscirono a respirare l'aria vivace della fine di gennaio. Sul terreno
c'era uno strato di neve fresca, che luccicava al sole pallido dell'inverno.
Max si infilò un berretto per coprirsi le orecchie, ma Nate preferì farne a
meno. Cominciarono lentamente, per aumentare gradatamente l'andatura.
Dopo aver corso per un paio di chilometri, Max guardò suo figlio e gli
chiese "Qual'era il sogno?"
Nate ricambiò lo sguardo, mentre il respiro gli usciva in sbuffi di vapore
che svanivano nel vento. Dentro di sé era contento di riuscire, questa
volta, a tenere il passo con Max senza sentirsi morire. "Il sogno?"
"E' per quello che sei così silenzioso?"
Nate alzò le spalle.
Max si fermò, poggiandosi le mani sui fianchi e facendo respiri profondi.
Nate lo sorpassò poi, rendendosi conto che si era fermato, tornò indietro.
"Dimmi cosa è successo." gli disse Max. "Parlarne può aiutare molto."
Nate guardò in terra. In quella giornata rigida, parlare di seme sottratto e
di bambini torturati gli sembrava un po' ridicolo. Max avrebbe pensato che
lui era una causa persa.
Insieme, ripresero il sentiero, camminando piuttosto che correndo.
"Quando mi hanno liberato dalla Stanza Bianca," cominciò a dire Max, col
naso e le guance rosse per il freddo. "ho avuto incubi orrendi. A quel tempo
le cose non mi andavano molto bene. Liz ed io ci eravamo lasciati e lei era
partita per l'estate. Isabel e Michael erano su una lunghezza d'onda
completamente differente dalla mia."
"Perché?" chiese Nate.
Max si strinse nelle spalle. "Volevano tornare a casa. Volevano scoprire i
nostri nemici. Io no. Io volevo solo che Liz tornasse a casa, per potermi
scusare con lei di quello che ero."
Nate fece un sorriso triste.
"Lei passò un brutto momento, per questo motivo." spiegò Max, con il respiro
tornato normale. "Posso immaginare come sia difficile scoprire che il tuo
ragazzo è un re alieno." Rise al pensiero di quell'assurdità. "E, peggio
ancora, che ero destinato a qualcun'altra."
"A mia madre."
Max annuì. "Si. Ad ogni modo, avevo cominciato ad avere gli incubi e tutto
quello che volevo era che qualcuno li facesse finire. Volevo Liz accanto a
me, ma lei non c'era. Isabel e Michael erano arrabbiati con me e non mi
fidavo abbastanza di Tess per lasciare che mi aiutasse. Così, ero solo. Ed è
stato l'inferno, Nate. Farò tutto quello che posso per evitarti di passare
attraverso quello stesso inferno."
Nate prese a calci la neve sotto i suoi piedi. Certo, Alyssa aveva già
cominciato ad aiutarlo … non che volesse far sapere a Max che lei era
entrata nei suoi sogni, vedendo ogni genere di cose.
"Max, e se ci fossero altri, come te e me - torturati dall'FBI?" chiese alla
fine.
Max ci pensò, serio, poi disse "L'avrei saputo."
"L'avresti saputo?"
Lui annuì. "L'agente Darmon non è la sola persona che ho infiltrato tra i
governativi. Se ci fosse un altro alieno prigioniero, l'avrei saputo."
Aggrottò per un attimo le sopracciglia. "Era di questo che hai sognato?"
"Pressappoco." Come faceva a raccontargli l'ipotesi dello sperma rubato?
"Max, quando ti hanno catturato, loro ti hanno prelevato … um, fluidi
corporei?"
Le sopracciglia di Max si sollevarono per la sorpresa e non riuscì a
trattenere il sorriso che apparve sulle sue labbra. "Fluidi corporei?"
"Si, sai … um … " Le guance di Nate diventarono rosse – e il fatto non aveva
nulla a che fare con il freddo.
"Vuoi dire un campione di sperma?" chiese Max, cercando di mostrarsi serio,
ma intimamente divertito. "Ne hanno prelevato uno da te?"
Nate scosse la testa. "Non che io sappia … ma sono stato incosciente per una
buona parte del tempo." Fece un respiro profondo e si guardò la punta dei
piedi. "Credo che ne abbiano ottenuto in un altro modo e in un altro
momento."
Max si fermò. "Quando? Come?"
"Annie." rispose Nate sottovoce, senza alzare gli occhi da terra.
Ora. l'umorismo era completamente scomparso dall'espressione di Max. Allungò
una mano per poggiarla sulla spalla di Nate. "Nate, raccontami il sogno. Tu
puoi dirmi tutto."
Nate indicò una panchina del parco e i due uomini vi si diressero, la
liberarono dalla neve e si misero a sedere.
Molto imbarazzato, gli raccontò che Annie aveva avuto con lui rapporti non
protetti, allo scopo di poter raccogliere un campione del suo sperma e di
aver poi sognato un gruppo di medici che studiavano un bambino, che aveva
dato a Nate l'impressione di essere un suo clone. Tralasciò di raccontare di
come Annie l'avesse messo in guardia dal fare sesso al telefono con Alyssa –
cosa che Max non aveva necessità di sapere.
Quando Nate ebbe finito di raccontare la storia, Max fissò il terreno tra i
suoi piedi, rimanendo a pensare in silenzio. Nate vide altre due persone che
correvano dall'altra parte del parco, accompagnate da un cane che si
confondeva con la neve.
Infine, Max sollevò la testa e diede a suo figlio uno sguardo comprensivo.
"Prima di tutto non credo che abbiano prodotto cloni di Max e di Nate per
fare esperimenti." gli disse. "Ma contatterò i miei uomini e me lo farò
confermare."
Nate si sentì sollevato. "Grazie."
"In secondo luogo, io non penso che i tuoi sogni vadano presi alla lettera,
Nate. Credo che faccia tutto parte del tuo subconscio. Non sono io l'esperto
di sogni qui, ma ti darò la mia interpretazione da pochi soldi, se vuoi."
"Per favore." disse Nate ardentemente.
"Stai riesumando Annie, per punirti di provare qualcosa per Alyssa." disse
Max senza mezzi termini.
Nate si sentì pervaso da un profondo senso di colpa.
"Non sto dicendo che sia razionale che tu ti senta in questo modo – ma credo
che una parte della tua coscienza si senta ancora responsabile e addolorata
per la morte di Annie. E io non posso aiutarti con questo fatto – devi
essere tu ad aiutare te stesso, con i tuoi tempi."
Nate annuì il suo accordo in silenzio.
"Credo che i dottori siano solo una conseguenza di quello che hai passato
quando sei stato catturato. Tu hai paura di essere vittima di quegli
esperimenti. E' una paura sacrosanta, Nate. Nessuno di noi può dirsi
completamente al sicuro. Non lo saremo mai. Ma non possiamo permettere che
la paura condizioni le nostre vite."
Nate aspettò che Max proseguisse con la sua psico-analisi, ma lui aveva
finito. Alla fine, alzò la testa per parlare con Max. "E cosa ne pensi di
Annie che prende il mio seme per darlo all'FBI. E del bambino?
Lo sguardo di Max stava seguendo i corridori con il cane, che si stavano
dirigendo verso di loro. "Io credo che tu stia ancora soffrendo per il
tradimento di Annie, e questo sarebbe stato il tradimento estremo da parte
sua – prendere qualcosa di tuo ed usarlo per creare qualcosa da distruggere
senza pietà."
Nate spostò lo sguardo, ancora non completamente tranquillizzato dalle
parole di Max. "Ho visto il suo viso, i suoi occhi." disse. "Era distrutto,
quel povero bambino. Mi stava supplicando di aiutarlo, ma io non potevo."
Gli occhi azzurri di Nate erano oscurati dal dolore. Poi, una percezione lo
colpì. "E se il sogno fosse profetico?"
"Pensi che il bambino torturato possa essere tuo figlio?" chiese Max,
valutando la possibilità.
Nate annuì lentamente, poi scosse la testa, scontrandosi con la dura realtà.
Durante la cena, aveva notato il desiderio di Max di tenere nascosta la
gravidanza di Liz – e questo forse aveva avuto il suo peso nel sogno. "E se
non fosse il mio bambino ad essere in pericolo … ma il tuo?"
Max sembrò riflettere per un attimo, poi fece un sorriso e scosse la testa.
"Non può essere."
"Perché no?"
"Perché era un bambino."
Nate aggrottò le sopracciglia.
Il sorriso di Max si allargò. "Noi stiamo aspettando una bambina."
Nate rimase allibito dalla rivelazione.
Max si appoggiò l'indice sulle labbra. "Non dire niente a Liz – lei non lo
sa ancora."
Nate annuì la sua complicità, ma poi la gioia di sapere che avrebbe avuto
una sorellina scomparve in fretta. "Dio, Max, sembrava così reale. Potevo
sentire il suo dolore, la sua rassegnazione … "
Max lo guardò in silenzio, poi espresse un'altra teoria. "Nate, c'è qualcosa
che tu non hai preso in considerazione."
"Cosa?" disse lui sottovoce.
Max lo guardò con commozione e dolore. "Forse quel bambino eri tu."
Capitolo 8
Nate guardò la sua insalata, in realtà
senza vederla. Lui e Max avevano finito la corsa, erano tornati a casa a
lavarsi ed avevano trascorso la mattinata a guardare le vetrine. Max
acquistò qualcosa per Liz, con un sorriso che gli stazionò sul volto per
tutto il tempo, e poi finirono in un angolo del caffè, per pranzare.
Ma a Nate non interessavano il pranzo o i regali per Liz o guardare le
vetrine. La sua mente era incollata alla teoria di Max sul suo sogno.
Forse quel bambino eri tu.
Nate aveva già dimostrato, cosa che la maggior parte delle altre persone non
poteva fare, la capacità di recuperare memorie della sua prima infanzia– la
più remota delle quali era il ricordo dello schianto nel deserto, quando
Tess era ritornata sulla Terra insieme a lui. Non era completamente irreale
che il bambino del sogno potesse essere stato Nate, su un altro pianeta,
sottoposto ad esperimenti dei dottori di Antar. Solo perché era il suo
'pianeta natale', non significava necessariamente che lì fossero amichevoli
ed accoglienti nei suoi confronti – se sulla terra l'FBI era incuriosita da
lui, perché non avrebbero dovuto esserlo altrettanto gli abitanti di Antar?
Avevano fatto esperimenti su di lui, nel periodo in cui era rimasto su Antar?
Il sogno era in realtà un ricordo represso?
O forse aveva un significato meno letterale di quello. Forse quel bambino,
che aveva perso tutta la speranza e si era rassegnato al suo destino, era
solo quello che Nate era diventato. Magari rappresentava solo la perdita
dell'innocenza di Nate, la stanchezza della sua anima.
E per qualche ragione, questo lo deprimeva ancora di più dell'idea di essere
stato sottoposto a sperimentazioni, da piccolo.
"Vorrei parlarti di una cosa." gli annunciò Max, infilando la forchetta
nell'insalata.
Nate sollevò gli occhi dal piatto e lo guardò in silenzio.
"Liz ed io ne abbiamo parlato parecchio e siamo arrivati alla stessa
conclusione." Max sorrise felice, come se avesse una sorpresa per il
compleanno di suo figlio. "Vorremmo che ti scegliessi un college. Vorremmo
pagare la tua istruzione."
Le sopracciglia di Nate si sollevarono e i pensieri sulla sua vita frustrata
e stanca volarono via. Max e Liz volevano che andasse al college? Perché?
Forse era solo il suo stato d'animo, ma improvvisamente Nate sentì come se
avesse ricevuto un'offerta dall'assistenza pubblica, una sensazione che lo
umiliò e lo mise in imbarazzo.
Il suo sguardo doveva essersi annuvolato, perché il sorriso di Max si spense
all'improvviso. "Pensavo che saresti stato felice all'idea." disse cauto.
"Non ho bisogno di elemosina." disse Nate cupo, la mascella stretta
dall'irritazione.
Max lo guardò con gli occhi stretti. "Non è un'elemosina. Sappiamo che
probabilmente ce l'avresti fatta da solo a pagarti la scuola, ma io ho visto
Liz fare la stessa cosa – ci è voluto tempo e non è stato facile. Vorremmo
risparmiarti le stesse difficoltà
"Perché ti senti obbligato?" Una rabbia irrazionale gli divampò sottopelle.
Chi era Max, per essere entrato nella sua vita solo da tre mesi e per
sentirsi in dovere di sparare sentenze?
Max depose le posate, poi guardò Nate senza battere ciglio. Quando parlò le
sue parole furono misurate e concrete. "No, non lo faccio perché mi sento in
obbligo, ma perché lo voglio. Si tratta di non rinnegare che tu sei mio
figlio, Nate. Se avessi potuto crescerti, ti avrei mandato al college. Solo
perché sei rientrato nella mia vita dopo diciotto anni, questo non significa
che io non voglia esserti accanto. Se avessi saputo che l'offerta di
aiutarti ti avrebbe offeso, credimi – non te l'avrei mai fatta."
Detto questo, Max riprese la forchetta e tornò alla sua insalata,
visibilmente irritato.
Nate lo guardò in silenzio, vergognandosi per aver respinto la sua
generosità in modo così brusco. Cosa c'era di sbagliato in lui? Non era il
tipo da agire scortesemente con nessuno, tanto meno con chi gli aveva
dimostrato solo gentilezza. Max non gli aveva chiesto nulla – neppure la
lealtà – e lui gli aveva sbattuto la sua generosità in faccia.
Inspiegabilmente, lacrime cominciarono a bruciargli gli occhi e lui dovette
chinare la testa per nasconderle. Forse era stato il sogno, forse era la
frustrazione di non riuscire ancora a capire chi – o cosa - fosse veramente
o forse era la pena di essersi innamorato di qualcuno che viveva a migliaia
di chilometri di distanza e per di più era minorenne. Qualsiasi cosa fosse,
Nate si sentì come un'adolescente quattordicenne con la sindrome
premestruale.
"Nate."
Respingendo le lacrime non ancora formate, Nate alzò la testa per guardare
Max, che sembrava aver perso l’animosità nei suoi confronti.
"Offrendoci di pagare i tuoi studi, non volevamo offenderti." gli spiegò.
Nate annuì silenziosamente. "Lo so." disse pacato e guardò di nuovo nel suo
piatto.
"Nate."
Lui alzò di nuovo gli occhi, e lesse gentilezza e compassione negli occhi di
Max.
"So che le cose sono molto confuse per te, ora." disse Max, guardando
brevemente la fronte di Nate. "Ma la mia offerta è ancora valida. Pensaci
su. Parlane con i tuoi genitori. Se vorrai andare, tutto quello che devi
fare è dirlo."
Nate si accigliò, sentendosi invadere da un senso di colpa. "Max, mi
dispiace. Ho capito. Senza rancore."
Nate lo guardò di nuovo alle prese con l’insalata e gli sembrò incredibile
che Max gli avesse già perdonato la sua esplosione irrazionale.
Ciononostante, Max aveva già dimenticato e sembrava sempre di più che Nate
fosse veramente figlio di suo padre. E forse Max lo capiva più di quanto
Nate potesse mai comprendere.
"Meglio finire di mangiare." disse Max senza alzare lo sguardo. "Vorrei
vedere il film che danno alle 2:00 e non vorrei sentire il tuo stomaco che
brontola per tutto il tempo."
***
Mentre Max e Nate erano seduti al cinema, in attesa che cominciasse il film,
Nate cercò di ricordare quando fosse andato al cinema con Jonathan. Qualche
volta, quando era piccolo, tutta la famiglia s’infilava in macchina e
andavano al drive-in, prima che fosse chiuso. Ma Nate non riusciva a
ricordare di essere andato al cinema con suo padre. Qualche volta Emma
l’aveva accompagnato, di solito perché Jonathan era occupato al negozio, ma
non erano mai andati da soli padre e figlio.
Fino ad oggi.
Sembrava alquanto strano che il vero padre di Nate lo stesse accompagnano al
cinema. Parte della bizzarria era dovuta al fatto che Nate non guardava a
Max come ad una figura paterna … se mai, come ad un fratello, con Max che
aveva due volte la sua esperienza di vita. C’erano ancora tante cose che non
sapeva di Max Evans, e che probabilmente non avrebbe mai saputo, ma sentiva,
in qualche modo, che Max sapeva tutto di lui.
Un po’ della tristezza era passata e Nate aveva perdonato per un momento se
stesso per il suo comportamento di poco prima. L’incertezza del sogno gli
frullava ancora nella testa, ma gli sembrava di averlo afferrato meglio, gli
sembrava che ora sarebbe di nuovo riuscito ad affrontare il mondo esterno.
Nella luce bassa del cinema, Max tirò fuori una scatolina dalla tasca della
giacca e la aprì per esaminare il suo acquisto. Era un braccialetto per Liz,
fatto in argento e turchesi – lei amava le turchesi. Nate guardò il gioiello
e non poté trattenersi dal sorridere all’espressione soddisfatta sulla
faccia di Max.
"E’ bello." gli disse.
Max lo guardò. "Si. Credo che a lei piacerà."
"Vuoi vedere una cosa?"
Max annuì.
Infilatasi la mano in tasca, Nate ne tirò fuori la scatolina con la collana
che aveva comprato per Alyssa. Aprì il coperchio e la mostrò a Max. Max posò
lo sguardo sulla gemma e sollevò le sopracciglia.
"Non farla vedere a mia moglie." gli sussurrò mentre le luci si spegnevano.
"Mi faresti fare brutta figura."
Nate sorrise soddisfatto e chiuse la scatola, rimettendola in tasca, vicino
al cuore.
Max lo guardò per qualche istante, poi scosse la testa. "Sei un caso
disperato."
Nate arrossì, ma dentro di sé sapeva che Max aveva ragione – lui era
disperato.
"Sei la vergogna della famiglia Evans." gli disse Max, prendendolo in giro.
Nate inclinò la testa. "Veramente? Devo portare un’orchestra Mariachi?"
Max rimase a bocca aperta. "Non è possibile che l’abbia fatto."
"L’ha fatto." rispose Nate vittorioso.
Max si risentì e tornò a guardare lo schermo, dove stavano scorrendo le
presentazioni dei prossimi film.
"Oh, Signore, e che altro ti ha raccontato?"
Nate si strinse nelle spalle. "Non lo dirò mai." Dentro di sé, si sentì
soddisfatto di essere lui a tenere Max sui carboni ardenti, tanto per
cambiare. Quel gioco si poteva giocare anche in due.
Il film – scelto da Max - era un film da ‘uomini’, pieno di battute e di
umorismo giovanile. Nate si divertì alla scoperta che il normalmente
riservato ibrido era capace di ridere così forte. In effetti, la risata di
Max era più divertente del film.
A metà del film, il cellulare di Nate vibrò. Lui lo prese svelto e lo aprì,
mentre il display si illuminava di una luce bluastra, che brillò nel buio.
Il suo viso allargò in un sorriso, quando lesse il messaggio di Alyssa.
‘Non ho mai avuto un ‘succhiotto’ – diceva il messaggio – Vorrei che tu me
ne facessi uno.’
Nate arrossì, ma continuò a sorridere. Prima ancora che potesse pensare ad
una risposta, apparve un altro messaggio inviato da lei.
‘Ma non sul collo.’
Il sorriso di Nate scomparve nell’istante stesso in cui sentì un’innegabile
crescita nei suoi pantaloni. Dannata Alyssa che lo metteva in quelle
condizioni in pubblico. Un pensiero, un accenno d’intimità con lei erano
sufficienti per metterlo in moto e fu improvvisamente contento del buio nel
cinema.
Max lo guardò preoccupato. "Tutto bene?" gli sussurrò.
Nate annuì, chiuse il telefono e lo rimise in tasca. La sua mente volò verso
Alyssa, al suo profumo così delicato, al suono della sua voce al telefono
mentre gli diceva di toccarsi. Nate sentiva che se non l’avesse rivista al
più presto, avrebbe potuto morire …
"Nate." sussurrò ancora Max.
Nate si girò incuriosito verso di lui.
"Spegni il telefono, ragazzo."
Nate era stato così preso dal pensiero di Alyssa da non aver notato che il
telefono era ancora acceso e brillava tenue sotto la sua giacca. "Scusa."
disse, prendendolo.
Ma la luminosità non veniva dal telefono. Una volta che le sue dita si
furono strette attorno all’apparecchio, si rese conto che la luce era molto
più intensa sotto la sua giacca che dove era il telefono. Il terrore gli
portò via il colorito dalla faccia, e guardò Max, con gli occhi sbarrati di
un cerbiatto paralizzato dalle luci dei fari di una macchina.
"Cosa c’è che non va?" sussurrò Max.
in silenzio, Nate aprì la sua giacca e Max indietreggiò involontariamente.
Svegliato da suo sonno e brillante sotto la camicia di Nate, c’era il
marchio dei re di Antar.
Capitolo 9
Max stava in piedi in silenzio, mentre
Nate camminava avanti e indietro accanto a lui, e seguiva con gli occhi i
movimenti del figlio. Erano nel parco accanto al lago, a quell’ora deserto,
e la neve stava ancora una volta cadendo intorno a loro. Nate stava scavando
una fossa nella neve, che diventava sempre più bagnata ad ogni suo passo.
"Nate." disse Max alla fine.
"Cosa?" esplose Nate, fermandosi e girandosi verso il padre.
"Stai bene?"
"Sto bene?" gli fece eco lui. "No, non sto bene." Si conficcò il pollice nel
petto, dove il simbolo era nascosto dalla giacca. "Pensi che con una cosa
come questa possa sentirmi bene?"
Max strinse lievemente le spalle. "Non credo che voglia dire che in te c’è
qualcosa che non va … "
"Qualcosa che non va in me?" disse Nate minaccioso. "Vuol dire che in me c’è
tutto che non va, Max!” Di solito tranquillo e riservato, Nate alla fine era
esploso. "Tu vuoi che io vada al college – come diavolo pensi che possa
andare a scuola e vivere in un dormitorio, frequentare le classi con ragazzi
normali quando brillo come Rudolph, la dannata renna dal naso rosso?!"
Incapace di ignorare l’umorismo del paragone, Max si morse le labbra,
cercando disperatamente di non ridere.
"La colpa è tua." lo accusò Nate, puntando un dito in direzione di Max.
Max alzò le sopracciglia, stupito. "Mia?"
"Si. Per quello che sei. Per come mi hai fatto. Io sono così per questo!"
Max sospirò. "Nate, credo che dobbiamo parlarne con calma. La paura non ci
porterà da nessuna parte."
"Io non ho paura!" Mentre le parole gli uscivano dalla bocca, Nate avvertì
una scarica di adrenalina, una necessità di fuggire. Aveva veramente paura.
Poi il respiro gli si bloccò nel petto e si trasformò in veloci ansiti. La
testa cominciò ad annebbiarsi e il sentì il cuore appesantirsi – stava per
svenire. Incerto su cosa fare, si piegò e cercò di rimanere cosciente.
Max gli fu subito accanto, poggiandogli una mano sulla schiena. "Stai
iperventilando." spiegò, cercando di calmare suo figlio. "Rallenta, Nate.
Fai un profondo respiro alla volta." Fece un profondo respiro, cercando di
farsi imitare da Nate.
Nate chiuse gli occhi, mentre la cocente ondata di panico si affievoliva ad
ogni respiro che prendeva. Dopo pochi minuti, la sua testa si schiarì e lui
non avvertì più la scura confusione che l’aveva circondato poco prima. Con
cautela, si raddrizzò.
Max gli rivolse un sorriso preoccupato, poi lo prese per un braccio. "Vieni
qui. Siediti." Guidò Nate verso una panchina, dove con un cenno della mano
rimosse il ghiaccio ed asciugò il legno.
Nate si sedette e fece un lungo, affaticato respiro. Era stata una giornata
difficile. Max si sedette accanto a lui, ma Nate continuò a guardare davanti
a sé.
"Fallo sparire." gli disse, frustrato.
"Cosa?" chiese Max.
"Toglilo. Non posso portarlo. Non posso essere così."
Max lo guardò per un lungo momento, poi spostò lo sguardo in terra. "Nate,
io non penso che riuscirei a togliertelo. E’ una parte di te, proprio come è
una parte di me."
Nate si accigliò. Doveva passare il resto della sua vita con quella
costellazione che compariva ogni volta che voleva? E c’era un’altra
questione – perché era ricomparsa? Era rimasta dormiente per tre mesi, quasi
quattro. Cosa l’aveva fatta uscire allo scoperto?
"Perché stavo pensando al futuro." mormorò.
"Cosa hai detto?" chiese Max, quasi sottovoce.
Nate appariva frustrato. "Abbiamo parlato di andare a frequentare il
college. Non posso pensare liberamente ad Alyssa – avevo cominciato a
credere che il mio futuro fosse con lei. Ma appena ho cominciato a pensare a
cosa fare della mia vita, questo affare è tornato fuori. Come per ricordarmi
che io non posso fare le cose che vorrei. Per quello che sono."
Max l’ascoltò in silenzio, con gli occhi spalancati. Nate poté solo
immaginare a cosa stesse pensando.
"E’ così, vero?" gli chiese. "Non sono destinato a vivere una vita normale.
Sono destinato ad entrare negli affari di famiglia, vero?" Nate sentì il suo
stomaco stringersi – ripensò a tutte quelle annoiate, solitarie email che
aveva ricevuto da Liz e si rese conto che un giorno avrebbe potuto essere
sua moglie, che cercava di fare amicizia con un estraneo, perché Nate non
poteva essere con lei. Non era quella la vita che avrebbe scelto per sé.
Nonostante questo, forse lui non aveva scelta. Forse lui era quello che era.
Punto.
Quando parlò, le parole di Max erano calme e dette con attenzione. "Non
sappiamo perché il simbolo sia ricomparso, Nate. Ci potrebbero essere mille
ragioni, credo."
Nate fece una smorfia. "Credi?"
Max si strinse nelle spalle, in un moto di scusa. "Non siamo arrivati sulla
Terra con le istruzioni per l’uso."
"A te non è mai successo?"
Max scosse la testa. "No. Ho visto il simbolo solo una volta, in un’altra
persona. Non l’ho mai visto su me stesso." Rifletté per un momento, poi
aggiunse "L’ ho visto proiettato, una volta, con l’aiuto di un altro alieno.
ma non sono mai stato in grado di svegliarlo da solo."
Nate stava quasi per cedere all’assurdità di tutta quella situazione, quando
afferrò appieno le parole di Max e rimase interdetto. Qualcun altro aveva il
simbolo? Chi? Max aveva forse un altro bambino di cui Nate non era a
conoscenza?
"Come hai fatto a vedere il segno su un’altra persona?" si decise a
chiedere. "Pensavo che solo un discendente del re potesse avere il simbolo."
Per un momento, Nate si rese conto che Max aveva abbassato la guardia e che
si era lasciato scappare qualcosa che non avrebbe dovuto dire. Ma capì anche
che Max non gli avrebbe mentito, "Io, um, sono morto, una volta."
Nate spalancò gli occhi.
"E’ una storia lunga." disse Max, facendo un cenno con la mano per dire che
non l’avrebbe raccontata ora. "Ma mentre io ero, um, via, il simbolo si è
trasferito al primo in linea di successione."
"Che era …"
"Michael."
Nate impallidì. Il pensiero di Michael Guerin detentore di tutto quel
potere, non era un pensiero piacevole. Quel tipo era un violento, anche se
aveva cercato di stabilire con Nate una tregua inquietante. Aveva la
sensazione che, nel caso di Michael, un potere assoluto fosse in grado di
alterarlo completamente.
"Ma quando sono stato meglio, il simbolo è tornato da me." spiegò Max. C’era
qualcosa in quelle parole, qualcosa nel suo sguardo che fece capire a Nate
che non gli aveva raccontato tutta la storia – sembrava addolorato, come se
il ricordo fosse uno di quelli che lui non riportava alla memoria troppo
spesso. Per questo motivo, Nate non fece altre domande.
Si limitò a sospirare, curvando le spalle. "Cosa devo fare? Non posso
tornare a casa così. E se mia madre o mio padre lo vedono?"
Max si morse un labbro. "Puoi cercare di riportarlo allo stadio latente."
Nate si strinse nelle spalle "E come pensi che possa fare?"
Max imitò il suo gesto. "Nello stesso modo in cui farei io."
Nate sentì lo stomaco stringersi ancora – era qualcosa con cui lui non
voleva avere a che fare. "Puoi farlo per me?"
Max scosse la testa. "No. Cerca di farlo tu. Io non sarò sempre qui, Nate."
Lo sguardo azzurro di Nate era apprensivo. "Non so come fare."
"Come hai fatto a liberarti dello scudo di energia nella camera dei
bozzoli?"
Nate batté gli occhi. Come aveva fatto? Aveva sfuggito i ricordi di quella
notte, perché era stata la notte il cui aveva mandato Annie a correre verso
la sua morte. Ritornando indietro con la mente, si rivide con la mano tesa
verso lo scudo e la volontà di farlo scomparire. Questo era tutto quello che
aveva fatto. Mordendosi il labbro, si tolse il guanto ed infilò la mano
sotto la giacca, poi sotto la camicia; le sue dita erano fredde contro la
pelle calda. Chiusi gli occhi, si concentrò sul segno, per mandarlo via.
Dopo qualche minuto, aprì gli occhi e sbirciò sotto la sua mano – il simbolo
era ancora lì. Scoraggiato, si rimise il guanto e fissò in lontananza.
Max lo guardò con comprensione. "Ebbene," cominciò a dire guardando il
cielo. "non possiamo restare qui per sempre. Penso che potrai fare pratica
più tardi." Con questo, fece scivolare una mano sul davanti della giacca di
Nate e si alzò per andarsene.
Curioso, Nate si guardò sotto la camicia e vide che il segno era sparito. Si
sentì pervadere da un’ondata di gioia. "Se n’è andato?" chiese eccitato.
Max scosse la testa e vide suo figlio demoralizzarsi davanti ai suoi occhi.
"No, ma non tornerà tanto presto. Andiamo – torniamo a casa."
Finita la speranza. Nate si costrinse ad alzarsi e seguì Max verso il
furgone.
***
"Wow. Zio Max è lì?" La voce di Alyssa era rauca ed assonnata.
Nate era disteso di fianco sul letto, con la coperta tirata sulle spalle.
Era l’una passata e tutti erano a letto. Come al solito, lui non era stato
in grado di prendere sonno e aveva chiamato Alyssa con la speranza di
riuscire a calmarsi.
"Si, è arrivato ieri." disse piano al telefono.
"Che bello, Nate. Sono contenta che sia venuto a trovarti."
"Partirà domattina." aggiunse Nate. "Non sembra che si sia fermato molto."
"Goditi quello che puoi avere." disse lei saggiamente. "Goditi ogni minuto."
La mente di Nate ritornò al breve periodo passato con lei, che sembrava
ormai essere passato da secoli. Desiderò che in quel periodo le cose fossero
state differenti, che non avesse dovuto annaspare tra tutti i cambiamenti
avvenuti nella sua vita – se non ci fossero stati, lui si sarebbe certamente
goduto ogni attimo trascorso con lei.
"Mi manchi." le disse dolcemente, sentendo che quelle parole erano impresse
in lui fino alla punta dei piedi.
C’era un sorriso nella voce di Alyssa, quando gli rispose. "Grazie, Nate.
Anche tu mi manchi."
"Più di quanto tu riesca ad immaginare."
"No." lo corresse lei con dolcezza. "Posso immaginarlo esattamente." Ci fu
una breve pausa nella linea, poi lei fece una domanda alla quale teneva
molto. "Nate, cosa è successo? Dimmi cosa c’è che non va."
"Non c’è nulla che non vada." negò lui. "Sento solo la tua mancanza."
"Sciocchezze!" lei ridacchiò fra sé. "Posso dirlo perfino da questa distanza
che c’è qualcosa che ti sconvolge. Se non me lo dici, sarò costretta a
passeggiare nei tuoi sogni e a scoprirlo da sola,"
Nate sorrise, sapendo che stava scherzando, ma che l’avrebbe fatto. E dato
che lei aveva parlato dei sogni, cominciò a raccontarle del sogno – quel
bizzarro, criptico sogno del bambino clonato. A differenza di quello che
aveva fatto con Max, non tralasciò nessun dettaglio – era facile parlare con
Alyssa di masturbazione, perché l’aveva quasi fatta con lei, per telefono.
"Raccapricciante." fu la sua risposta quando finì di darle i particolari
dell’incubo. "Avrei voluto essere nella tua testa, ieri notte – così avrei
potuto fare la guardona."
Se questo commento fosse venuto da qualcun altro, Nate l’avrebbe trovato
offensivo, ma poiché veniva da Alyssa Nate lo trovò divertente. "Cosa pensi
possa significare?" le chiese.
"Non lo so … un sacco di cose. Potrebbe anche essere un ricordo rimosso."
Nate si accigliò. Anche Max l’aveva pensato.
"Potrebbe anche non significare niente. Hai per caso mangiato peperoni prima
di andare a letto?"
Nate sorrise. "No."
"Allora non sono sicura." Alyssa fece una piccola pausa. "Lascia perdere."
gli consigliò. "Se non significa nulla, è solo uno spreco di energia, no?
Allora, dimmi – cos’altro è successo?"
Nate sorrise di nuovo – lo conosceva abbastanza da sapere che la storia non
era tutta lì. Le raccontò della ricomparsa del simbolo mentre era al cinema,
lasciando da parte il dettaglio di lui e Max che paragonavano i regali fatti
alle loro innamorate.
"Deve essere stato fastidioso per gli altri spettatori." lo prese in giro
Alyssa. "E tu cosa hai fatto?"
"Max l’ha fatto sparire … per adesso. Perché pensi sia tornato?"
"Per farti venire un’ulcera grande come il Kansas. Tesoro, vorrei che tu
facessi una cosa per me."
"Cosa?" Veramente, Nate avrebbe fatto tutto per lei – specialmente se lo
chiamava tesoro.
"E’ tardi. Dove sei tu è ancora più tardi. Per stasera, voglio che tu
dimentichi incubi e simboli luminosi."
Lui scosse la testa. "Potrebbe non essere così semplice."
"Lo sarà, se farai quello che ti dico. Mi stai ascoltando?"
"Si."
"Ora rilassati … comincia dalle dita dei piedi … tutta la tensione li sta
lasciando … poi i polpacci … i tuoi muscoli sono liberi e rilassati …"
Nate chiuse gli occhi e ascoltò la sua voce che arrivava da migliaia di
chilometri di lontananza, dolcemente ipnotizzante nel farlo rilassare.
"Ora siamo arrivati alle spalle … immagina che io sia lì vicino a te, con le
mie braccia intorno a te … puoi sentirmi?
E, ovviamente, lui poteva. Sentiva come se fosse realmente lì con lui,
attirando il suo corpo stanco contro di lei.
"Le mie dita ti stanno accarezzando i capelli … non sono gesti eccitanti …
sono gesti caldi e confortevoli … di qualcuno che si preoccupa di te … non
riesci a resistere … ti stai addormentando …"
Il resto delle parole si perse mentre Nate scivolava in una pacifica
oscurità.
Capitolo 10
Alyssa entrò nel suo sogno, con i
capelli biondi che le ricadevano su una spalla, mentre si chinava sopra di
lui. Sorridendo, innamorata e comprensiva, tracciò con la mano un sentiero
sul suo petto nudo, dove, fino a poco prima, aveva brillato il simbolo della
costellazione a V. Poi gli toccò il viso e si chinò a baciare il punto sopra
il simbolo ormai invisibile.
E allora Nate ebbe una visione del futuro, di un tempo e di un mondo dove la
sua gente – né umana né aliena – poteva camminare tra gli uomini normali
senza essere giudicata, in pace …
Quando la mattina successiva, Nate si svegliò si sentì riposato come non si
sentiva da mesi, a dispetto del fatto che aveva trascorso parte della notte
con il cellulare incollato sulla guancia. Batté diverse volte gli occhi, poi
guardò di corsa l'orologio, timoroso di aver dormito troppo proprio l'ultimo
giorno che Max si fermava a New York.
Ma era a malapena l'alba e la casa era silenziosa. Nate scivolò fuori dal
letto e si vestì, poi scese di sotto. Max era già in piedi ed era seduto da
solo in soggiorno e Nate si chiese se avesse mai dormito. O forse non aveva
nemmeno bisogno di dormire. Avendo sentito i suoi passi sulle scale, Max
guardò verso di lui e gli sorrise.
"Buon giorno, Nate." gli disse sottovoce.
"Buon giorno." rispose Nate, mettendosi a sedere sulla sedia di suo padre,
accanto al camino. Ora che si trovava faccia a faccia con Max, si rese conto
di come apparisse esausto e dimostrasse tutti i suoi 37, quasi 38 anni. "Hai
dormito bene?"
Max si strinse nelle spalle. "Non dormo molto, in realtà, ma il tempo che ho
dormito mi è stato sufficiente." gli fece un sorriso che partiva dal cuore.
"C'è del caffé in cucina. Spero che non ti dispiaccia - ti ho preceduto e ne
ho preparato una caffettiera."
Nate scosse la testa in risposta alla preoccupazione di Max di essere
invadente, poi si alzò e prese una tazza. Quando tornò in soggiorno, poggiò
la tazza sul tavolino e chiese a suo padre "Perché non riesci a dormire?"
Gli occhi di Max si accesero in un sorriso. "Non posso smettere di pensare
alla mia ragazza … o meglio, alle mie ragazze. E' plurale, adesso." Felicità
ed orgoglio sembravano sprizzare da Max.
La gioia può essere contagiosa e anche Nate si trovò a sorridere. "Avete già
scelto il nome?"
Max scosse la testa. "No. E' una scelta che spetta a Liz e lei non vuole
saperne il sesso."
Nate annuì e prese un sorso di caffé. La sua mente tornò al corto, criptico
sogno che aveva avuto, un sogno di pace e di comprensione. Anche se non
l'aveva capito, gli aveva lasciato una sensazione di pace, la sensazione che
qualsiasi cosa fosse successa, forse era perché doveva succedere.
"Stai bene?" chiese Max. "Voglio dire, dopo quello che è successo ieri?"
Nate annuì. "Credo di si. Niente segnali luminosi di cui preoccuparsi,
oggi."
Max fece un mezzo sorriso. "Cosa mi dici del resto? Pensi di potertela
cavare?"
Nate non lo sapeva. Negli ultimi tre mesi, sembrava che ogni giorno fosse un
enigma – non poteva dire cosa sarebbe accaduto il giorno dopo. Non poteva
negare che, una volta partito Max, sarebbe stato di nuovo solo e questo lo
intimoriva un po'.
"Sono solo a una chiamata di telefono di distanza." gli rammentò Max dopo un
lungo silenzio.
"Questo lo so." gli rispose quieto Nate. "E lo apprezzo, Max, veramente."
Gli occhi di Max dimostravano tutto l'affetto che provava per Nate. "Un
giorno, quando sarai padre – e spero che un giorno tu lo sia, perché non c'è
nulla di così bello – capirai che tutti i genitori vogliono che i loro figli
abbiano una vita migliore di quella che hanno avuto loro."
Nate rivolse a Max un sorriso rassicurante. "Io ho avuto una buona vita,
Max." Naturalmente, quella calda, confortevole vita, libera dalla
consapevolezza di essere costantemente controllato, era stata vissuta a
spese di Max, del suo sacrificio.
"Si, ci credo." fu d'accordo Max. *Ma io voglio che il tuo futuro sia
migliore del mio, Nate." Spostò per un momento lo sguardo, perso nei suoi
pensieri. Quando parlò di nuovo, il suo tono di voce fu molto serio, quasi
addolorato. "Non è questo il modo di essere un padre. Né per te, né per la
nuova bambina. Sto fuori troppo tempo. Nell'ultimo anno sono stato a Boston
solo 26 giorni. Mia moglie è una vedova bianca per la causa, e non ho idea
di come faccia ad accettare questo ruolo così facilmente."
Nate si accigliò, perché capì che le parole di Max erano vere. Per un
attimo, si preoccupò del fatto che stavano parlando di quegli argomenti in
casa, quando Emma o Jonathan avrebbero potuto svegliarsi ed ascoltarli; poi
Nate si ricordò dell'udito super-umano di Max e si rilassò, sapendo che
avrebbe smesso di parlare non appena uno di loro si fosse mosso.
"Tu ieri hai accennato al fatto di non voler entrare negli affari di
famiglia." continuò Max.
Nate sentì un'ondata di senso di colpa – forse la mancanza di sonno di Max
poteva essere attribuita alle parole dure che lui aveva detto il giorno
prima.
"Nemmeno io vorrei questo per te." disse Max, scotendo la testa. Chinandosi
in avanti, prese la sua tazza di caffé dal tavolo, vi passò sopra la mano
per scaldarlo e ne bevve un sorso. Poi si riappoggiò alla spalliera, tenendo
la tazza tra le mani. "Dopo che ti ho ritrovato, dopo la morte di Tess, mi
sono reso conto che non avevo più una meta. Avevo passato un anno della mia
vita cercando tutte le strade possibili per riaverti con me."
Nate rimase in silenzio mentre Max gli rivelava cose di cui non aveva mai
parlato prima – la ricerca di Max e il suo disperato bisogno di ritrovarlo.
Nella sua mente, Nate cercò di figurarsi un Max diciannovenne, smarrito e
disperato, mentre lottava per ritrovare un figlio che non aveva mai visto.
Era difficile da immaginare, Max Evans senza la sua fredda, solida
esteriorità.
"A quel punto mi sono reso conto che avevo una strada davanti a me, avevo
solo bisogno di accettarla." disse Max, con lo sguardo distante. "Che mi
piacesse o no, mi era stata data una corona e solo perché io non ero nello
stesso sistema solare del regno che dovevo governare, questo non mi
esonerava dalla responsabilità che avevo nei confronti del mio popolo – del
popolo di quel pianeta. Così la mia strada fu – e lo è ancora oggi –
tracciata." Riposò la tazza sul tavolo, riportando lo sguardo su Nate. "Non
sono mai stato al college. Come ti ho già detto, non ho una professione. Il
mio lavoro consiste nel viaggiare per il mondo, cercando di mantenere la
pace. Questo richiede un grande sacrificio, lo so. E non è quello che
desidero per te."
Nate ripensò ancora una volta al sogno e si chiese se non fosse una
previsione del futuro. Ma cosa voleva dire quel sogno? Che Max avrebbe
ristabilito la pace, nel momento futuro che Nate aveva sognato? O che si
sarebbe arrivati alla pace sotto la guida di Nate?
"E se io non avessi scelta?" chiese cauto Nate.
Max rifletté sulla domanda.
Le dita di Nate si posarono inconsciamente sul suo petto, dove il simbolo si
nascondeva. "E se anche a me fosse data la corona? E se avessi una strada e
una responsabilità anche io?"
Nate credette di vedere un'ombra di tristezza passare negli occhi dorati di
Max. Sapeva che suo padre non voleva che le cose andassero così, ma con la
comparsa del simbolo … come potevano non andare in quel modo?
"Tua madre si è svegliata." lo avvertì Max sottovoce.
Nate si appoggiò alla spalliera della sedia, deluso che la loro
conversazione fosse terminata.
Max gli rivolse un sorriso triste, poi si alzò in piedi. "Aiutami a
preparare la colazione per la tua mamma – lei lavora troppo."
Emma fu più che deliziata da quel pensiero – una volta che si fu arresa
all'idea che i due uomini non volevano saperne di uscire dalla cucina. Nate
era un cuoco tremendo e la maggior parte dei suoi errori furono rimediati da
una passata di mano di Max. Max, d'altro canto, era stato auto sufficiente
per così tanto tempo che aveva imparato ad usare i fornelli. Alla fine,
anche Jonathan si alzò, ugualmente stupito che a sua moglie fosse stato
regalato un giorno di riposo dal rituale dei fornelli mattutini.
Dopo la colazione, Max ringraziò gli Spencer per la loro ospitalità e Nate
si compiacque di vedere che sua madre sembrava molto meno apprensiva nei
confronti del giovane uomo che aveva dato la vita al loro ragazzo. Quando fu
pronto per andare all'aeroporto, tese a Max una busta scura di carta e gli
diede un forte abbraccio, insieme ad un bacio sulla guancia. Jonathan,
riservato come sempre, si limitò a stringere la mano di Max e ad augurargli
buon viaggio.
Sulla strada verso l’aeroporto, Max aprì la busta e vi guardò dentro.
Ridendo, guardò Nate di traverso. "Biscotti. Hmm … biscotti al cioccolato,
credo."
Nate guardò dentro la busta e disse "Credo proprio che ti piaceranno."
Max rise e chiuse la busta, riponendola dentro la borsa. Poi guardò le case
che sfrecciavano accanto al furgone, e la stessa casa con le luci di Natale,
ancora accese come un segnale luminoso che teneva ancora il Natale acceso
nei cuori tutto l’anno.
"Voglio che sia tu a scegliere la tua strada." gli annunciò Max, girando il
collo per vedere un Babbo Natale che si arrampicava sul tetto di una vecchia
fattoria. "Non voglio che tu ti senta obbligato a seguire la mia strada,
Nate."
Nate lo guardò da dietro il volante. Ma se fosse stata la sua stessa strada?
Max si voltò a guardarlo, il sorriso fanciullesco tornato sul suo viso. "Io
sono un uomo giovane. Non ho in programma di cedere il trono troppo presto.
Hai ancora trenta, quaranta anni per vivere la tua vita prima che tu abbia
bisogno anche solo di pensare a queste cose. Okay?"
Nate annuì in silenzio, pensando che entrambi sapevano che era una pia
illusione. Il sigillo era lì per una ragione – e non lo avrebbe lasciato per
trenta o quaranta anni seduto a fare niente per il suo retaggio. Ma per
adesso, se pensare in quel modo rendeva Max felice, Nate l’avrebbe
assecondato.
Quando furono quasi arrivati all’aeroporto, Max abbassò il parasole e si
fece allungare la barba e i capelli, come quando era arrivato. Nate sollevò
un sopracciglio in richiesta, spingendolo a sorridere timidamente.
"A Liz piaccio così." disse e Nate preferì non approfondire la faccenda.
Un’altra partenza, ma questa volta era Max che partiva, non Nate. Nate non
poté fare a meno di ricordare quanto era stato duro per lui lasciare
Roswell, con Alyssa a casa con il cuore spezzato e gli Evans ai cancelli con
le lacrime agli occhi. Questa partenza, invece, era solo impacciata. Sapeva
che Max era più che eccitato di tornare dalla moglie e dalla figlia che
doveva ancora nascere, ma sapeva anche che Max era consapevole che doveva
lasciare un figlio dietro di sé, per essere con l’altra.
Quando la sua fila fu chiamata per l’imbarco, Max avvolse le braccia intorno
a suo figlio e lo strinse forte. "Pensa alla mia offerta." gli disse al di
sopra della spalla. "E’ ancora valida. Sarà sempre valida."
Nate annuì, mentre si staccò da lui, sentendo un nodo in gola. Max gli
sorrise dolcemente, poi gli poggiò un braccio sulla spalla.
"Sono solo a una chiamata di telefono di distanza." gli rammentò, prendendo
la sua borsa e dirigendosi verso la rampa d’imbarco. Dopo aver consegnato
all’assistente di volo il suo biglietto, si girò per sorridere a Nate, poi
sparì nella curva della rampa.
Nate si mise a sedere davanti alla grande vetrata ed aspettò finché l’aereo
di Max non si fu allontanato dal cancello, un quarto d’ora più tardi. Un
brivido gelido gli passò per la colonna dorsale e non fu sicuro se fosse
dovuto all’aria vivace di gennaio o alla consapevolezza di essere di nuovo
solo, un ibrido alieno/umano alla deriva nel mondo.
Tornato a Chautauqua, Nate trascorse il pomeriggio al negozio del padre,
riempiendo gli scaffali e facendo l’inventario del magazzino. Gli affari
andavano a rilento in quel periodo dell’anno, ma il diluvio sarebbe arrivato
presto, appena il lago si fosse disgelato e la neve si fosse sciolta. I
turisti sarebbero tornati in branco, i terribili Abitanti della Pianura.
Nate fece una pausa nel prezzare le scatole di zuppa e guardò attraverso la
finestra il lago gelato. Lui e i suoi amici erano stati troppo duri con i
turisti, pensò. Quella gente era stata giudicata e discriminata perché era
differente dagli abitanti del posto, e ora Nate sapeva cosa significava
essere differente …
"E’ un brav’uomo."
Nate trasalì. Jonathan gli era arrivato in silenzio alle spalle – a quanto
pare Nate non aveva ereditato l’udito di Max. Almeno per adesso.
"Mi piace." disse Nate con semplicità, mettendo i barattoli prezzati sullo
scaffale.
"Anche a tua madre piace."
Nate osservò suo padre, il fatto che lui si spostasse sui piedi e non lo
guardasse negli occhi. Era sempre stato difficile per Jonathan parlare dei
suoi sentimenti. "E a te, papà?"
Jonathan annuì e ripeté "E’ un brav’uomo."
Nate sorrise – era il massimo che sarebbe riuscito ad ottenere da lui. Mise
da parte lo scatolone vuoto e usò un coltello per aprire una scatola di
confezioni di riso. Jonathan era ancora accanto a lui, mettendo in ordine le
scatole di fagioli.
"Papà?"
Jonathan lo guardò dal bordo superiore degli occhiali da lettura.
Nate deglutì. Non sarebbe stato facile, ma doveva farlo prima di prendere
qualsiasi decisione per il suo futuro. "Max mi ha fatto un’offerta."
L’espressione di Jonathan rimase impassibile.
Nate si morse un labbro. Forse avrebbe dovuto aspettare per discutere
l’argomento che ci fossero stati entrambi i suoi genitori. Ma ora era troppo
tardi per fare marcia indietro. "Lui, um, si è offerto di pagare il
college."
Jonathan strizzò gli occhi.
"Per me." chiarì Nate scioccamente, solo per riempire l’assordate silenzio.
Non riusciva a leggere nulla negli occhi di suo padre, ma sapeva che
Jonathan era un uomo orgoglioso. Dopo tutto, non è che Nate avesse accettato
l’offerta di Max, quando gliela aveva presentata.
Jonathan fece una lunga pausa, poi gli indicò il magazzino. "C’è una cassa
di sale da neve lì dentro. Vado a registrarlo e a togliere la confezione.
Più tardi puoi sistemarlo in magazzino?"
Nate annuì in silenzio e guardò l’uomo uscire, un’ombra di tristezza nei
suoi passi. Quando se ne fu andato, Nate lasciò andare un sospiro e si mise
le mani sui fianchi. L’ultima cosa che avrebbe mai voluto fare era offendere
le persone che l’avevano cresciuto con tanto amore, che gli avevano offerto
una casa.
Ma ebbe l’impressione di averlo appena fatto.
Capitolo 11
"Vuoi sapere cosa sto facendo?"
La conversazione era cominciata abbastanza innocentemente – Alyssa aveva
telefonato per essere sicura che Nate stesse bene dopo gli eventi
traumatizzanti del giorno precedente. Avevano conversato amichevolmente per
almeno dieci minuti, poi la conversazione era passata ad un argomento più
importante, quello interrotto da Max. Ora, dall’altro capo della linea,
Alyssa era senza respiro, la voce roca ridotta ad un sussurrò.
"Cosa stai facendo?" le sussurrò di rimando Nate, con gli occhi fissi su un
punto della parete senza, in realtà, vederlo.
"Sto girando attorno al mio capezzolo con un dito." rispose Alyssa.
Nate si morse un labbro e chiuse gli occhi. Ricordava molto bene il seno di
Alyssa e il solo pensiero di lei che lo toccava lo fece gemere di desiderio.
"Ma lo sai a cosa sto pensando?" fu la successiva domanda di Alyssa.
"Cosa stai pensando?" chiese Nate, col respiro bloccato nel petto.
"Sto desiderando che non sia il mio dito, ma la tua lingua … " Lei si lasciò
andare ad un piccolo gemito e Nate sentì il suo cuore balzargli nel petto, a
velocità raddoppiata. "Ti stai chiedendo come sia il mio sapore, Nate?"
Lui annuì muto, senza nemmeno considerare che lei non poteva vederlo.
"Io mi ricordo il tuo sapore." sospirò lei nel telefono e Nate richiamò la
sensazione della lingua di lei che circondava i suoi capezzoli la sera che
lui l’aveva respinta, una vita fa. Fu attraversato da un brivido. "Se ti
dovessi assaggiare ancora, allora vorrei sentirti. Voglio sentirti arrivare,
Nate."
Questa volta non glielo avrebbe negato. Questa volta non c’era vergogna, non
c’era esitazione in Nate mentre prendeva la linguetta della lampo e il
respiro si trasformava in ansito.
"Vieni per me, Nate."
Le dita di Nate si posarono sopra il rigonfiamento dei suoi jeans, il corpo
che tremava di anticipazione. Afferrò la lampo e cominciò ad aprirla …
Sentì un leggero colpo contro la porta, il legno che risuonava solido e
pieno.
"Nate?" disse la voce di Emma. "Sei qui, tesoro?"
"Dannazione!" sibilò Nate al telefono, mentre il disappunto lo fece
rinsavire immediatamente.
"Nate?" disse la voce di Alyssa nel suo orecchio. "Tutto bene?"
Nate chiuse gli occhi e scosse lentamente la testa. "Mi dispiace." sussurrò
"C’è mia madre alla porta."
Ci fu una pausa, poi una risata gli arrivò dall’altra parte della linea. "E’
uno scherzo?"
"Vorrei tanto che lo fosse."
Con questo, Alyssa scoppiò in una risata profonda, mentre Emma bussava
ancora. "I tuoi genitori sono troppo invadenti, Nate." gli disse burlandolo.
Lui roteò gli occhi e si alzò. "A me lo dici? Ti chiamo più tardi, okay?"
"Okay, ciao."
Nate chiuse il telefono, fece un sospiro e disse " Arrivo subito, mamma."
Guardò i suoi pantaloni, l’evidenza del suo desiderio e scosse la testa –
no, non poteva aprire la porta e parlare a sua madre in quelle condizioni.
Si alzò in fretta, si tolse i jeans, infilò una vestaglia sopra la t-shirt e
le mutande. Quell’abbigliamento poteva aiutarlo …
Nate aprì la porta della sua camera e trovò Emma che aspettava pazientemente
dall’altra parte. Quando vide la sua espressione, si preoccupò
immediatamente. Allungando una mano, lei gli toccò il viso.
"Amore, ti senti bene?" gli chiese, muovendo la mano sulla sua fronte. "Sei
tutto rosso e mi sembri caldo."
Nate indietreggiò leggermente, roteando gli occhi affettuosamente. "Sto
bene, mamma. Stavo solo facendo un sonnellino."
Lei non sembrò convinta, ma decise di lasciar perdere."Vorrei parlarti.
Posso entrare?"
Nate annuì e si fece di lato per lasciarla passare. Per un momento pensò che
era strano per Emma chiedergli il permesso di entrare nella sua stanza. Da
quando era successo? Nate non riuscì a mettere a fuoco il momento in cui sua
madre aveva cominciato a rispettare il suo spazio, ma era ovvio che lei
sapeva che non era più un bambino.
Essendo la classica mamma, Emma raccolse i jeans che Nate si era tolto e li
piegò. Fu preso dal panico quando si rese conto che dovevano essere ancora
caldi, ma lei sembrò non accorgersene.
"Tuo padre mi ha detto dei soldi – per il college." disse lei attenta,
rivoltandosi a guardarlo.
Oh. Era quello. Nate fissò il pavimento, infilando profondamente le mani
nelle tasche della vestaglia. Tra le pieghe del tessuto, il suo desiderio
svanì immediatamente – niente come il pensiero di aver offeso suo padre
aveva il potere di far svanire una erezione.
Emma sospirò, la sua espressione comprensiva, mentre si sedeva sul bordo del
letto di Nate. "Nate, ormai sei grande. Compirai 19 anni a marzo – non hai
bisogni di chiederci il permesso di fare quello che vuoi. Questo lo sai."
Nate, seduto alla sedia del computer, si morse le labbra. "Lo so, mamma. Ma
questo non significa che io possa agire come un egoista."
Lei gli rivolse un pallido sorriso.
"So che papà ha bisogno di aiuto al negozio. So che è questa la ragione per
cui non sono andato al college con Annie. E lo capisco. Non avrei potuto
accettare l’offerta di Max senza prima parlarne con voi."
"Lo apprezziamo, figliolo. Lo apprezziamo veramente." disse Emma, con lo
sguardo fisso. Fece una pausa, poi, per un momento, rivolse lo sguardo
altrove. "Jonathan è un uomo orgoglioso, Nate. Per tutti questi anni,
avrebbe voluto essere lui a mandarti a scuola."
Nate ascoltò in silenzio. Forse era quello il desiderio di Jonathan, ma
forse era al di sopra delle sue possibilità.
Lei si guardò le dita della mano, mano di una donna che lavorava. "Ma noi
dobbiamo pensare a quello che è meglio per te. Vogliamo che accetti
l’offerta di Max."
Nate strizzò gli occhi interdetto.
Emma alzò lo sguardo e lui credette di vedere un accenno di lacrime nei suoi
occhi. "E' la cosa migliore, Nate. Potrebbe essere la tua unica opportunità.
Va al di là delle nostre possibilità e potrebbero passare anni prima che
possiamo farti la stessa offerta. E non sarebbe giusto nei tuoi confronti."
Le sue parole e la rassegnata espressione del suo viso, fece stringere il
cuore di Nate. Alzatosi dalla sedia, si sedette sul letto accanto a lei, e
le mise un braccio intorno alla spalla.
"Mamma, questo non cambia nulla tra di noi." le disse, cercando di
rassicurarla. "Voi siete – e sarete sempre – i miei genitori. Non voglio che
pensiate che ora che Max è entrato nella mia vita, voi non contiate più. Voi
contate molto per me – anche più di prima. Non sarei quello che sono, se non
fosse stato per voi. Tu sei mia madre – e io ti voglio bene."
Le lacrime minacciate, si manifestarono negli occhi azzurri di Emma.
Nate strinse il suo abbraccio, mentre un groppo gli si formò in gola.
"Mamma, non piangere."
Lei cercò di sorridere e gli prese il viso tra le mani. "E' solo che sei una
persona così bella, Nate. Come abbiamo fatto ad essere così fortunati da
avere una cosa così bella nelle nostre vite?"
Lui sorrise dolcemente e le tolse la mani dalle sue guance. "Perché anche
voi siete delle belle persone, mamma." Le mise le braccia intorno e la
strinse forte a sé, questa donna che aveva accolto un bambino abbandonato
nella sua casa, senza avere un'idea di chi fosse veramente.
Emma si tirò indietro, si asciugò gli occhi con il lato della mano. "Lascia
che tuo padre ti aiuti, Nate."
"In che modo?" chiese Nate curioso.
"Lascia che ti compri i libri, che ti paghi l'affitto, qualsiasi cosa."
Nate scosse la testa. "Non posso farlo. Dovrà assumere qualcuno che prenda
il mio posto al negozio … "
Emma scosse la testa per tutto il tempo in cui Nate parlò, negando le sue
parole. "Tu devi lasciare che lui ti aiuti, Nate. E' l'unico modo in cui
potrà accettare questa decisione."
Nate rimase in silenzio. Forse aveva ragione, forse se Jonathan avesse
potuto contribuire in qualche modo, avrebbe accettato meglio il fatto che
Max fosse piombato tra loro e avesse sborsato una grossa quantità di denaro.
Nate fece un cenno per confermare che era d'accordo.
Il viso di Emma si aprì in un largo sorriso. "Grazie, Nate. Noi staremo
bene, veramente. Abbiamo gestito il negozio prima che tu fossi grande
abbastanza per aiutarci – saremo in grado di farlo ancora."
Erano anche dieci anni più vecchi, di quando erano ricorsi al suo aiuto. Gli
Spencer non erano più giovani e Nate sapeva che il lavoro in più sarebbe
stato un fardello per loro. Ripensò ai sacchi di sale da 20 chili che
avevano consegnato quel giorno; per Nate, sistemare quei sacchi era stato
seccante, ma per Emma e Jonathan il lavoro sarebbe stato difficile se non
impossibile. Si accigliò a quel pensiero.
Emma gli diede un'affettuosa pacca sul ginocchio. "Andrai al college, Nate."
disse con orgoglio. "Devi esserne fiero – farai qualcosa che i tuoi genitori
non hanno nemmeno avuto la possibilità di fare."
E infatti, a nessuno dei genitori di Nate era stato concesso quel lusso –
Tess era morta prima ancora di aver ottenuto il diploma, Max era stato
trascinato in una vita a favore del prossimo, e Emma e Jonathan non avevano
mai avuto il motivo o l'intenzione di andarci. Nate sarebbe andato dove
nessuno della sua famiglia era mai stato. Avvertì un senso di eccitazione
proprio sotto lo sterno.
Emma era raggiante. "Così deve essere, Nathan."
Lui ricambiò il suo sorriso, poi la guardò uscire dalla stanza molto più
sollevata di quando era entrata.
Nate rimase seduto sul bordo del letto per un po' di tempo, riflettendo su
cosa pensavano gli Spencer del suo nuovo rapporto con Max. Era ovvio che
Jonathan era rimasto ferito dal fatto che un altro uomo si era offerto di
provvedere, per suo figlio, a qualcosa che lui non si poteva permettere – ma
questo non gli aveva impedito di essere d'accordo. Perché sapeva che era
nell’interesse di Nate
A Nate tornarono in mente le parole di Max. – forse era vero che i genitori
volevano per i loro figli qualcosa di meglio di quello che avevano avuto
loro. Anche se era doloroso lasciare che accadesse. Era stato duro per Max
dare via Nate, sapendo che avrebbe avuto una vita migliore se lui fosse
uscito dalla sua vita. Non era facile per Jonathan accettare la generosità
di un’altra persona. Eppure entrambi gli uomini avevano fatto quei sacrifici
perché lui avesse una buona vita. Un impeto di umiltà pervase Nate – avrebbe
fatto quanto in suo potere per non deludere nessuno di loro.
Un leggero suono dall’altra parte della stanza attrasse la sua attenzione.
Nate guardò lo schermo del computer e vide che aveva ricevuto posta.
Alzatosi, si diresse al PC e vide che aveva ricevuto un messaggio da
‘MightyMouse’.
Sorridendo, lo aprì – non c’era testo nel messaggio, solo un’immagine.
Nate la studiò per un lungo momento. Nella foto, Liz stava sorridendo, ma i
suoi occhi mostravano tracce di lacrime. Le sue braccia erano strette
intorno alle spalle di Max, che aveva la sua mano poggiata sul pancione e
nei suoi occhi lo stesso sguardo di sollievo e di devastazione. Lo sguardo
di Nate si posò sulla didascalia – ‘Finalmente a casa!’.
Nate si sedette sulla sedia e pensò al ventisettesimo giorno di Max con sua
moglie. Mancavano ancora tre mesi e mezzo prima che Liz partorisse, quattro
volte il numero dei giorni che Max era stato a casa nell’ultimo anno. Nate
sperò che Max riuscisse a restare a casa fino alla nascita della bambina e
almeno un po’ di tempo dopo.
Ma, visti i precedenti di Max, ne dubitò.
Capitolo 12
Il giorno successivo, Nate trovò suo
padre che spalava il sentiero davanti al negozio dalla neve che il vento
aveva trasportato dal lago ghiacciato.
"Papà, lascialo fare a me." gli disse, prendendo la pala dalle mani
dell'uomo riluttante. Il sentiero era lungo e Nate aveva chiesto per anni a
Jonathan di prendere un compressore invece di spalarla – ora naturalmente i
suoi programmi l’avrebbero alleggerito di quel lavoro, ma si rese conto che
suo padre non era più giovane e non avrebbe dovuto sollevare la neve
pesante.
"Posso finire io." disse Jonathan, mentre si raddrizzava e cercava di
riprendere fiato.
"Va dentro, papà." disse dolcemente Nate, spalando già il doppio del volume
di quella che aveva tolto suo padre.
Jonathan rimase in silenzio per un momento, poi si sistemò il cappello e
disse tranquillo "Credo che mi fermerò qui fuori con te per un po’."
Nate fece un segno di accordo, mentre il senso di colpa scivolava dentro di
lui. Chi avrebbe fatto quelle cose quando lui fosse partito?
"Tua … um, tua madre mi ha detto di aver parlato con te ieri." cominciò a
dire Jonathan, palesemente in imbarazzo.
"Uh huh." rispose Nate, spostando le mani sulla pala per ridistribuire lo
sforzo.
"Allora, penso che andrai … "
Nate smise di spalare e si raddrizzò. Il correre l’aveva aiutato – aveva
solo un po’ di fiato grosso. "Credo di si." confermò.
Jonathan spostò il suo sguardo per un attimo. "Bene. Bene, figliolo."
Nate si morse le labbra, alla ricerca di qualcosa da dire per sollevare un
po’ lo stato d’animo di suo padre. Incerto, riprese la pala, poi si ricordò
delle parole di sua madre. "Sai," disse, gettando una palata di neve da un
lato. "Max non mi ha mai parlato dei libri." Con la coda dell’occhio, notò
che Jonathan lo stava guardando con curiosità. "Voglio dire, so che dovrò
trovare un lavoro per pagarmi l’affitto. Magari riuscirò anche a trovare un
compagno di stanza." Non era il caso di dirgli chi aveva in mente per
occupare quel posto. "Ma non sono sicuro di farcela, se dovrò comprare anche
i libri."
"Oh?" esclamò Jonathan, con estremo interesse.
Nate si raddrizzò di nuovo. "Si. Potrebbe essere dura." fece una pausa ad
effetto, poi disse "Non pensi che potresti … forse … aiutarmi con i libri?"
Jonathan non riuscì a nascondere il sorriso che gli illuminò il viso. "Certo
che potrei."
"Voglio dire, potrò restituirti il denaro … quando avrò un vero lavoro … "
"Sciocchezze." rispose suo padre, sentendosi di nuovo in affari. "E’ quello
che voglio fare."
Nate fece un largo sorriso. "Okay. Grande. Grazie, papà."
"Nessun problema." Jonathan si attardò ancora qualche istante, poi rientrò
nel calore del negozio, un po’ più sicuro di sé nel camminare.
Nate lo vide rientrare e sentì dentro di sé una profonda soddisfazione. Sua
madre aveva avuto ragione – era una cosa piccola eppure aveva fatto un gran
bene.
Gennaio si trasformò in febbraio e Nate continuò a pensare alla scuola. Non
telefonò a Max solo per dirgli che aveva accettato la sua offerta, perché
sapeva che gli Evans avevano bisogno di passare un po’ di tempo da soli,
senza che il mondo invadesse la loro intimità. Nella sua mente immaginò come
doveva essere stata la loro riunione – l’ultima volta che Max aveva visto
sua moglie, la gravidanza era appena iniziata e lei aveva ancora la sua
solita forma. Ma ora, Liz era in gravidanza avanzata e ora la sua forma era
abbastanza arrotondata. Era come incontrare una persona completamente
diversa. E ancora, Nate pensò, passavano talmente tanto tempo separati che,
gravidanza o meno, Liz e Max erano in un ciclo perpetuo di ri-conoscenza.
Il 13 febbraio, il giorno prima del compleanno di Alyssa, Nate portò il suo
regalo alla Federal Express, perché fosse spedito col volo della notte.
Voleva essere sicuro che lo ricevesse per il suo compleanno – non un giorno
prima, né un giorno dopo. L’uomo dietro al bancone dovette pensare che Nate
fosse un idiota, perché Nate non riuscì a togliersi dalla faccia un sorriso
di anticipazione.
E il giorno dopo quell’anticipazione fu soddisfatta. Mentre Nate era seduto
al bancone del negozio del padre, in un dolorosamente vuoto giorno di San
Valentino, il suo cellulare vibrò silenziosamente nella sua tasca. Posata la
rivista che stava sfogliando, controllò l’ID della chiamata e immediatamente
fece un grande sorriso. Prima di rispondere, comunque, si schiarì la gola e
cercò di dare alla sua voce un tono innocente.
"Pronto?"
Dall’altra parte ci fu solo un lungo silenzio, seguito da un fremente
singhiozzo.
Nate spalancò gli occhi, mentre la preoccupazione gli scorreva nelle vene.
"Pronto? Alyssa, va tutto bene?"
"Perché?" disse lei affannosamente.
Nate deglutì. Forse il suo regalo non era stato una buona idea … "Perché
cosa?"
Alyssa stava piangendo. "Perché … tu devi essere così meraviglioso?" E con
ciò, si mise a singhiozzare, a singhiozzare letteralmente.
L’ansia di Nate sparì quando si rese conto che lei era semplicemente
sopraffatta dall’emozione. "Buon Compleanno, Alyssa." le disse sorridendo.
"Gra-grazie." dall’altro capo della linea lei tirò su col naso, poi fece un
altro singhiozzo.
Nate aspettò pazientemente, divertito, ma sembrava che il lavoro dell’acqua
non avesse fine. "Allora?" disse dopo diversi minuti che l’ascoltava
piangere. "Ti … piace?"
"Si." disse lei, con la voce ancora soffocata. "E’ incredibilmente bello.
Come sei tu, Nate." Solo dire queste parole causò un’altra ondata di pianto.
Incapace di trattenersi, Nate fece una risata.
"Non ridere di me." lo rimproverò Alyssa, senza animosità. "Non mi faccio
sopraffare dalle emozioni molto spesso e quando mi succede non riesco a
controllarmi."
"Va tutto bene." lui cercò di calmarla, ma continuò a sorridere per tutto il
tempo in cui le parlò. "Fai con comodo. Cosa ne pensi se intanto parlo io,
per un po’? Forse riuscirei a distrarti."
"Non possiamo." disse delusa. "Papà sta venendo a prendermi per portarmi a
pranzo ed è l’ultima persona che vorrei mi vedesse a fare quello."
"Io non stavo parlando di … um, lo sai di che cosa. Nemmeno io potrei farlo
– sono al negozio di papà. Pensavo che potessimo solo chiacchierare. Forse
ti sentiresti meglio."
"Io non mi sento male." precisò lei. "Ho solo ricevuto il tuo regalo, l’ho
aperto ed è così bello, Nate. Mi ha preso al cuore."
Per qualche ragione, lui sentì delle punture dietro agli occhi, al pensiero
della reazione di Alyssa alla vista della catenina con lo smeraldo.
"E non è solo il fatto che è bellissima, è che tu ti sei ricordato di me e
hai fatto lo sforzo di cercare qualcosa e di spedirlo fino a qui. E poi mi
sono resa conto di qualcosa … "
Nate aspettò che lei continuasse, ma quando non lo fece, lui la sollecitò
dolcemente. "Di cosa ti sei resa conto, Alyssa?"
Alyssa sospirò, mentre il suo pianto diminuiva. "Mi sono resa conto che non
voglio vivere un altro giorno senza te, Nate."
Lui si raddrizzò, fissando il vuoto, stupito di quanto fosse facile per lei
rivelare i suoi sentimenti per lui.
"E lo so che è scontato, perché è il giorno di San Valentino, e io volevo
farti un regalo, ma non ero veramente sicura di quello che provavi per me."
Non era sicura di quello che provava per lei? Per poco Nate non scoppiò a
ridere. Pensava che fosse disponibile a fare del sesso al telefono con
chiunque? Evidentemente, quello doveva essere un momento di incertezza, in
una ragazza di solito molto sicura di sé.
"L'unica cosa di cui sono sicura, è quello che provo per te." disse Alyssa,
con un sottofondo di vulnerabilità nella sua voce.
Nate si schiarì la gola, con il cuore che gli batteva in modo evidente sotto
le costole. "Cosa, Alyssa?" chiese con cautela. La immaginò dall'altro capo
della linea, mentre raccoglieva il suo coraggio.
"Penso di amarti, Nate." Ci fu un attimo di silenzio assoluto, poi Alyssa
ricominciò a piangere.
Nate chiuse gli occhi, abbassando la guardia e cercando disperatamente di
mantenere il controllo della situazione. "Shhhh." le disse dolcemente.
"Tesoro, non piangere."
"Non posso farne a meno." singhiozzò lei al telefono. "Te l'ho detto, non
riesco ad affrontare un eccesso di emozioni."
Nate rise della comicità del momento, poi decise di portarla
all'esasperazione. "Bene, vuoi che ti dia qualcos'altro a cui pensare?"
"Cosa?" ansimò lei.
"Io non devo nemmeno pensarlo, Alyssa. Io so di amarti."
Ci fu un altro momento di silenzio, poi Nate sentì quello che pensò essere
il rumore del ricevitore che cadeva in terra e un pianto angosciato
dall'altro dall'altra parte della linea. Mordendosi le labbra per non
scoppiare a ridere, aspettò pazientemente che Alyssa smaltisse il suo
annuncio. Dopo alcuni lunghissimi minuti, lei raccolse il telefono, con la
voce piena di lacrime.
"Alyssa." gli disse Nate dolcemente. "Sta arrivando tuo padre per portarti a
festeggiare il tuo compleanno e ti troverà con tutto il trucco disfatto
sulla faccia. Non ti porterà da nessuna parte in quelle condizioni."
Per la prima volta, da quando la telefonata era cominciata, Alyssa riuscì a
ridere.
"Ti sei rovinata il trucco, vero?" scherzò lui.
Lei rise ancora e lui la immaginò a strofinarsi gli occhi con le dita, per
asciugarsi le lacrime.
Nate ridivenne serio, mentre il suo amore per quella dolce, sfacciata
ragazza si moltiplicava per dieci. "Intendevo dire esattamente quello che ti
ho detto." le confermò. "E non perché è il tuo compleanno, né perché è San
Valentino. Perché veramente provo questo sentimento per te."
Alyssa tirò su con il naso, ma questa volta trattenne le lacrime. "Anche io,
Nate. E nemmeno io devo pensarci. Anche io lo so."
Nate sorrise e chiuse gli occhi per assaporare il momento. "E' una grande
novità." le disse. "Era quello che volevo … quello che avevo bisogno di
sentirti dire." Si portò una mano sul cuore, senza nemmeno rendersene conto.
"Ti sei fatta strada nel mio cuore, Alyssa. E ora che sei qui, io non voglio
che tu te ne vada."
"Anche tu sei nel mio." rispose lei, le sue parole tese, e Nate si rese
conto che l'alluvione stava per ricominciare.
"Non piangere." le ripeté dolcemente. "E' il tuo compleanno. Io non voglio
che tu pianga il giorno del tuo compleanno."
"Sto piangendo solo perché sono felice." disse lei, respirando con affanno.
Nate sorrise, visto che anche la sua felicità stava minacciando di
trasformarsi in lacrime. "Tu meriti di essere felice." le disse
sommessamente. "Ma meriti anche di uscire con tuo padre, questa sera. E
allora, vai a prepararti – non voglio farti fare tardi. Chiamami più tardi,
se vuoi."
"Okay." disse lei. "Grazie, Nate. La collanina è perfetta – non me la
toglierò mai più."
"Okay." rise lui. "Buon San Valentino, Alyssa."
"Buon San Valentino, Nate." replicò lei, poi chiuse la comunicazione.
Nate rimase seduto a fissare il telefono per un lungo momento, poi lo chiuse
e se lo infilò in tasca. Una sfilza di emozioni stava girando vorticosamente
nella sua testa, ognuna di esse accompagnata da un'euforia che non provava
più da molto, molto tempo. Lei lo amava. Alyssa Guerin era innamorata di
lui. Ma soprattutto – lui era riuscito finalmente ad ammettere di essere
innamorato di lei.
Si sentiva un uomo completamente differente da come si era sentito con
Annie. Conosceva Annie da tanto di quel tempo che aveva finito col credere
che quello che provava per lei era l'amore in assoluto – ma ora sapeva che
quello che avevano diviso era speciale, ma nemmeno lontanamente paragonabile
a quello che dividevano lui ed Alyssa.
Quando aveva incontrato Alyssa per la prima volta, quando si erano scambiati
il primo bacio nella lavanderia, quella notte, lei gli aveva detto di sapere
che c'era una connessione speciale tra di loro. Anche Nate aveva percepito
qualcosa fuori dall'ordinario, benché in quel momento non capisse cosa
fosse. Forse nemmeno ora lo capiva completamente, ma sapeva che aveva a che
fare con l'aver trovato qualcuno che lo capiva completamente, qualcuno la
cui anima completava la sua.
E ora che sapeva cosa si provava, si chiese se dopotutto Annie l'avesse
veramente amato e se era solo stata istruita per farglielo credere. C'era,
comunque, una cosa che lui era sicuro di sapere – Annie non aveva pianto
nemmeno una volta, quando lui le aveva detto di amarla.
Continua...
Scritta
da Karen (MidwestMax)
Traduzione italiana con il permesso dell'autrice
dall'originale in inglese,
a cura di Sirio |