Riassunto: Questa
storia, in 118 capitoli, comincia subito dopo gli eventi dell'episodio "Amore
alieno" (1.16), e nulla di quello che è accaduto dopo l’episodio è rilevante ai
fini della storia. Max non è un re. Tess non esiste, non ci sono Skins o
duplicati o Granilith.
Torniamo indietro al tempo in cui Max non ha occhi che per Liz e il suo più
grande desiderio, la sua più grande paura è che lei in qualche modo possa
ricambiarlo.
Valutazione contenuto:
non adatto ai bambini.
Disclaimer: Ogni
riferimento a Roswell appartiene alla WB e alla UPN. Tutti gli attori
protagonisti del racconto e citati appartengono a loro stessi.
Capitoli 1-6
Capitoli 7-12
Capitolo 13
Max sentì il leggero rumore della
serratura e fu subito in allerta. Vide la porta aprirsi lentamente ed una
figura entrare nella stanza. Sentì una presenza ai piedi del letto e poi una
mano che gli toccava il braccio. Afferrò saldamente la mano ed accese la
lampada in capo al letto.
“Chi sei?” domandò Max . I suoi occhi si posarono sul viso dell’intruso e
riconobbe l’inserviente che gli aveva fatto le false iniezioni negli ultimi
giorni. “Cosa vuoi da noi?”
“Non abbiamo tempo per le domande. Sono qui per portare te e Liz fuori da
questo posto.” sussurrò di fretta. “C’è poco personale di servizio questa
notte. E la migliore occasione per voi di scappare, ma dobbiamo fare in
fretta.” i suoi occhi guardarono nervosamente verso la porta e Max vide la
tensione sulla sua faccia.
“Svelti, vestitevi.” Indicò ai piedi del letto e Max scorse una familiare pila
di vestiti. Guardò l’uomo con più attenzione, poi si decise e si girò verso
Liz, posandole la mano sulla spalla la scosse delicatamente.
“Liz.” le disse piano, le labbra quasi appoggiate al suo orecchio. “Liz,
svegliati piccola.” La sentì muoversi e poi girare la testa verso di lui per
guardarlo. Notò l’uomo fermo accanto a lui e la luce che penetrava dal
corridoio esterno.
“Cosa?” chiese confusa. “Cosa sta succedendo, Max?” Le sue parole erano
sussurrate. Nessuno era mai venuto da loro durante la notte prima d’allora e
lei non sapeva se doveva essere eccitata o spaventata.
“Credo …” Max cominciò, poi si fermò esitante: guardò ancora l’estraneo accanto
a lui e poi ancora a Liz. “Credo che sia qui per aiutarci a tornare a casa.”
Liz spostò lo sguardo da Max all’uomo, con la mente improvvisamente in allarme.
“Dovete vestirvi in fretta.” disse l’inserviente. “Non abbiamo molto tempo.”
Liz e Max presero immediatamente i loro vestiti dai piedi del letto. L’urgenza
nella voce dell’uomo lasciava poco spazio all’indecisione. L’inserviente si
avvicinò alla porta, controllando il corridoio mentre loro si vestivano.
Liz si strappò via l’odiata camicia da ospedale e infilò velocemente i
pantaloni neri ed il top blu che aveva indosso quel fatidico giorno di qualche
settimana prima.
Max si sfilò i pantaloni e indossò prima i suoi boxer e poi i jeans. Gli
stavano più larghi ora di quando glieli avevano tolti al momento della cattura.
Aveva perduto peso stando lì e sapeva che questo valeva anche per Liz.
Notò anche che i vestiti non erano stati lavati. Le sue scarpe erano ancora
sporche del fango del Mirror Lake, dove erano stati prima di arrivare lì. Max
vide le macchie scure sui suoi jeans e gli ci volle un po’ per ricordare che
era il sangue uscito dalla ferita che Liz si era fatta sul polso.
Max finì di vestirsi e tese una mano verso Liz, lei l’afferrò con apprensione
ed insieme si diressero verso la porta.
“Andiamo!” disse l’uomo entrando nel corridoio. ”Svelti!” Max lo afferrò per un
braccio e lui si fermò.
“Chi sei? gli domandò Max, tenendo bassa la voce.
“Il mio nome è Joshua. Risponderò a tutte le vostre domande una volta che
saremo al sicuro fuori da qui.” I suoi occhi andavano su e giù per il
corridoio. Si girò verso Max e gli appoggiò una mano sulla spalla. “Tu non sei
solo, Max. Ora fai esattamente quello che ti chiedo di fare. Se lo farai,
domani potrai dormire nel tuo letto.” Guardò da Max a Liz e poi ancora a Max.
“Andiamo!”
Infilarono il corridoio movendosi più lentamente e silenziosamente possibile.
Joshua faceva strada, seguito cautamente da Max e da Liz. Fa uno strano effetto
portare di nuovo le scarpe, pensò Max, mentre giravano un altro angolo. La
camicia e la giacca gli davano una strana sensazione sulla pelle. Si chiese se
Liz stava pensando la stessa cosa.
Joshua si fermò all’improvviso e Max per poco non gli finì addosso. Si portò un
dito sulle labbra per indicare loro di fare silenzio e di stare fermi e poi
sparì dietro l’angolo. Max si girò verso Liz, tenendole la mano ancora più
stretta. Poteva sentire la sua paura, ma vedeva anche, riflessa nei suoi occhi,
la prima vera speranza da quando erano stati portati lì.
Max la baciò lievemente sulla fronte e le appoggiò una mano dietro la testa,
facendola appoggiare contro di lui mentre aspettavano che Joshua tornasse. Si
sentivano vulnerabili stando fermi nel corridoio illuminato. Max si chiese se
li stavano osservando dalle telecamere di sicurezza.
E se le guardie li stavano seguendo per riportarli nella loro stanza? Max
sobbalzò quando Joshua comparve dall’angolo. Aveva i nervi a fior di pelle.
“Andiamo!” disse Joshua in un sussurro. ”Sono quasi qui.”
“Dove stiamo andando?” gli bisbigliò Max.
“In quella stanza in fondo all’atrio. Nella stanza di trasferimento. Una volta
arrivati lì, saremo quasi a casa.” I suoi occhi guardavano dietro e davanti a
loro mentre si affrettavano nell’atrio. Si fermò davanti ad una porta con la
scritta ‘J1’ a grandi lettere nere. Joshua poggiò il palmo della mano sulla
serratura ed un secondo dopo Max udì lo scatto che ne indicava l’apertura. Max
lo fissò mentre apriva la porta e li spingeva dentro. Poi chiuse la porta,
facendo attenzione a fare il minore rumore possibile. La sua mano cercò
l’interruttore ed accese la luce, illuminando la stanza.
“Tu sei come me!” disse Max quietamente mentre Joshua traversava la stanza.
“Non proprio.” replicò Joshua dando un’occhiata dietro le spalle di Max.
Max lasciò che i suoi occhi si muovessero per la stanza vuota. L’unica cosa
presente era un pannello di controllo contro la parete con una porta alla sua
sinistra. Una larga finestra sopra il pannello guardava in una stanza buia.
“Max, vieni qui.” disse Joshua e le sue mani cominciarono a muoversi sopra i
quadranti ed i bottoni del pannello. Si girò verso i due, fermi vicino alla
porta. “Liz, puoi ascoltare se dalla porta arriva qualche rumore?”
“Certo.” rispose lei e guardò verso Max. Lui poteva intuire in lei il conflitto
di emozioni. Era eccitata dalla possibilità di tornare a casa e spaventata
dalla possibilità che li catturassero di nuovo mentre cercavano di scappare.
Max le sorrise in maniera incoraggiante prima di lasciarle la mano ed andare
vicino a Joshua.
“Questa è la stanza di trasferimento.” Cominciò e le sue mani si muovevano
sopra i comandi del quadro. “E’ così che siete stati portati qui. Il globo ha
agito da dispositivo di trasporto. Quando voi siete entrati nel raggio delle
coordinate prestabilite, si è attivato automaticamente e vi ha trasportati.
Avreste dovuto vedere questo posto impazzito quando si sono resi conto che il
trasferimento era cominciato.” Joshua sorrise al ricordo dei tecnici che quasi
se la facevano sotto quando la consolle aveva preso vita.
“Guarda come faccio, Max.” disse Joshua tornando al pannello.”Queste sono le
coordinate per rimandarvi nello stesso posto dal quale siete venuti. Questo è
il massimo che posso fare per rimandarvi a casa, il resto della strada dovrete
farlo per conto vostro.” Max guardo Joshua settare i comandi. “Questo è il
timer. L’ho programmato tra cinque minuti ed ho bloccato tutte le altre
possibilità. Così, nel caso in cui qualcuno vi trovasse qui, non sarebbe in
grado di fermarvi.” Joshua si allontanò dal pannello e mise una mano sulla
spalla di Max. Un sorriso gli illuminò il volto e i suoi occhi si rilassarono
per la prima volta. “Abbiamo sistemato tutto. E’ arrivata l’ora, per voi due,
di tornare a casa.” Joshua aprì la porta della stanza di trasferimento e lasciò
entrare Max.
“Cosa intendevi dire prima, quando hai detto che eri ‘quasi’ come me?” chiese
Max guardando attentamente Joshua negli occhi.
“Bene, in realtà sono un ibrido.” Cominciò a dire Joshua “ Mio padre è un
alieno, come te e mia madre è umana.”
“Come?” disse Max sotto shock. Guardò verso Liz che stava accanto alla porta
esterna e anche sulla sua faccia lesse la stessa sorpresa. “Pensavo che gli
umani e gli alieni non potessero …” balbettò Max , guardando fisso l’uomo che
gli stava vicino. “Liz ha sentito Johnson e Miller dire che io e Liz non
eravamo compatibili.”
“No, Max.” replicò Joshua “Io ho sabotato tutti i loro esperimenti. Non potevo
lasciar riuscire il loro tentativo di creare un ibrido. Il realtà voi due siete
molto compatibili: Liz è molto fertile. Mi sono stupito della quantità di ovuli
che sono stati capaci di raccogliere da lei. E inoltre i tuoi piccoli nuotatori
sono molto prolifici. Si sono combattuti strenuamente nel tentativo di
fertilizzare i suoi ovuli.”
Max sentì il sangue affluirgli sulle guance. Guardando Liz la vide nel suo
stesso stato. Prima che avessero la possibilità di pensare alle conseguenze di
quello che Joshua aveva detto, Liz sentì un rumore di passi nel corridoio.
“Joshua, c’è qualcuno qui fuori.” disse Liz con voce acuta.
“Aspetta qui, Max.” disse Joshua e lo lasciò nella stanza di trasferimento.
Raggiunse velocemente Liz, appoggiando l’orecchio contro la porta. Anche lui
poteva sentire il rumore di passi che si avvicinavano. “Forza, andiamo fuori di
qui.” Disse afferrando Liz per la mano. Stavano dirigendosi verso la stanza di
trasferimento, quando un allarme cominciò a suonare. La porta tra Max e la
stanza di controllo si chiuse all’istante. Lui afferrò la maniglia e cominciò a
tirare, ma la porta rifiutava di muoversi. Poteva sentire Joshua che spingeva
dall’altra parte. Liz apparve improvvisamente davanti alla finestra sopra il
pannello di controllo, guardando Max con occhi spaventati. Joshua era accanto a
lei, tentando disperatamente di spingere i pulsanti della consolle di comando.
Guardò verso Max con il viso sconvolto dal panico.
“Non riesco a fermare il conto alla rovescia.” La voce di Joshua echeggiava
dall’altoparlante nella stanza di trasferimento.”L’allarme è il segno che ci
hanno isolato. Non posso aprire la porta. Hai due minuti prima del
trasferimento.” Joshua guardò Max attraverso il vetro. Spostò lo sguardo su Liz
e vide lo stesso panico nei loro occhi.
La realizzazione che era intrappolato nella stanza di trasferimento piombò su
Max come un macigno. Questo era il peggiore incubo della sua vita. Tentò ancora
disperatamente di aprire la porta, ma era bloccata. Provò ad usare i suoi
poteri sulla serratura, ma non successe nulla. Si avvicinò ancora al vetro per
vedere Liz: era terrorizzata. Cosa le sarebbe successo adesso, senza di lui?
Provò a battere sul vetro, nel tentativo di infrangerlo. Preferiva passare il
resto della sua vita tenuto in ostaggio in quel posto infernale, piuttosto che
lasciarla sola
.
La mente di Liz stava correndo. Max era dall’altra parte del sottile strato di
vetro, ma sembrava essere lontano da lei mille miglia. Il timer continuava il
conto alla rovescia, ricordandole quanto poco tempo era rimasto. Il ronzio
nella stanza crebbe di tono e Max sapeva che il tempo era quasi scaduto. Batté
violentemente i pugni sul vetro.
“No,NO,NO … “ ripeté mentre il ronzio diventava sempre più forte.
“Ti amo, Max.” disse Liz , mentre le lacrime le scendevano sulle guance. Mise
la mano contro il vetro e Max la raggiunse con la sua. Gli occhi di Liz erano
enormi e spaventati.
“Liz …” Gli occhi si offuscarono e la sua immagine sbiadì. Lui batté le
palpebre e le lacrime cominciarono a scendere. Gli era impossibile respirare.
“Liz.” disse ancora e il suono della sua voce era pieno di disperazione.
Improvvisamente la porta dietro di lei si aprì e guardie armate entrarono nella
stanza. Max guardò impotente mentre aprivano il fuoco, colpendo Joshua più di
una volta. Lui cadde sul pavimento e le guardie si girarono verso Liz.
“NOOOOOOOOOO …” urlò Max attraverso il vetro. Le guardie si mossero verso Liz e
la trascinarono verso la porta. Lei cercò di impedirglielo e le sue mani si
tesero verso Max. La stanza dove era lui si colorò di una luce blu e tutto
cominciò fluttuare.
Liz osservò impotente Max che scompariva.
Capitolo 14
Max si materializzò tra la macchia di
alberi con il suono del suo grido accorato che gli echeggiava nelle orecchie.
Si piegò sulle ginocchia ed appoggiò i pugni per terra. Tirò indietro la testa
e gridò ancora il suo nome. Animali presero il volo dagli alberi vicini,
spaventati dal suono inaspettato. Affondò la testa tra le mani, ma l’unica cosa
che riusciva a vedere era l’immagine di Liz che veniva portata via dalle
guardie e i suoi occhi spaventati che lo guardavano.
“Liz … Oh. Mio Dio … che ho fatto?” Ripeté il suo nome, ancora ed ancora,
incapace di affrontare il fatto che lui ora era libero, ma che lei non lo era.
E non sapeva nemmeno da che parte incominciare a cercarla. Non aveva trovato
nemmeno un indizio, in tutto quel tempo, di dove li avessero portati. Max si
dondolò avanti ed indietro, con la mente incapace di pensare a qualsiasi cosa
che non fosse lo sguardo negli occhi di Liz e la vista del corpo di Joshua sul
pavimento della camera di controllo.
***
Valenti era perso nei pensieri, mentre guidava di ritorno a Roswell. L’orologio
del cruscotto segnava le 3 e 35. Era stato chiamato per assistere all’ indagine
su una sparatoria al Country Time Bar, fuori di Taylorville, poco dopo la
mezzanotte. Questa volta si era trattato solo di un paio di ubriachi che
avevano litigato per una ragazza. Fortunatamente nessuno era rimasto ferito. I
suoi pensieri tornarono ad una sparatoria differente, la sparatoria al
Crashdown lo scorso autunno. L’immagine di Liz Parker, seduta su una sedia con
il ketchup che le copriva l’uniforme, gli comparve davanti agli occhi. Solo che
non era ketchup, ricordò a se stesso, era sangue. Il suo sangue. Lei non aveva
ancora l’impronta su di sé.
Si chiese ancora una volta, cosa fosse realmente accaduto, quel giorno. I
pensieri di Valenti si spostarono su Max Evans. Sapeva che Max aveva qualcosa a
che fare con questo, ma non era mai riuscito a scoprire cosa fosse. E ora,
forse, non avrebbe voluto. In tutte quelle settimane non c’era stato un indizio
di cosa fosse successo a Max Evans e alla ragazza Parker. Dopo che era stata
denunciata la loro scomparsa, aveva cominciato le ricerche. Aveva troppi dubbi
su Max Evans, per lasciare che gli sfuggisse dalle mani. La jeep di Max era
stata trovata vicino al Mirror Lake e avevano trovato gli zaini dei due ragazzi
tra gli alberi. Avevano anche trovato una quantità di sangue per terra, sangue
di Liz Parker. L’ipotesi che si faceva in città era che Max Evans avesse fatto
qualcosa a Liz Parker e si fosse dato alla fuga. Era strano che fosse scappato
lasciandosi dietro la sua Jeep. C’erano troppe domande e quasi nessuna
risposta. Valenti era convinto che, un giorno o l’altro, avrebbero trovato le
ossa di Liz Parker in una fossa profonda vicino al lago.
Naturalmente i Parker erano devastati dalla scomparsa della loro unica figlia e
gli Evans dovevano combattere contro gli sguardi degli abitanti di Roswell che
pensavano che il loro ragazzo l’avesse uccisa.
Valenti guidò lungo la strada solitaria. I suoi fari illuminarono una figura
che camminava incespicando lungo il bordo della strada e rallentò. Non aveva
sorpassato nessuna macchina guasta e non c’erano abitazioni su quel tratto di
strada, così si chiese perché qualcuno vagabondasse da quelle parti a notte
fonda. Man mano che si avvicinava, la figura si faceva più distinta. Uomo,
giovane, adolescenza inoltrata, forse meno di 20 anni, alto circa 1 metro e 80,
tra i 70 e i 75 chili, capelli neri. C’era qualcosa di familiare in lui.
Probabilmente era uno dei ragazzi che frequentavano il liceo o qualche
universitario, che i suoi amici avevano lasciato solo, pensò Valenti. Ma c’era
qualcosa di strano nel modo in cui camminava, non come un ubriaco del sabato
sera, ma come qualcuno in difficoltà. La macchina gli si fermò accanto e
Valenti rimase a bocca aperta quando vide il viso di Max Evans girarsi verso di
lui.
***
Max si avvicinò alle luci che provenivano dalle sue spalle. Si sentiva come se
avesse camminato per delle ore e questa era solo la terza macchina che passava
su quella strada. Le altre avevano proseguito senza dargli nemmeno un’occhiata.
Max si fermò ed appoggiò le mani sulle ginocchia. Era esausto. Non era sicuro
di avere le forza per fare un altro passo. Il veicolo si fermò dietro di lui e
Max guardò attraverso il finestrino. Nella luce che proveniva dal cruscotto,
Max vide il viso dello Sceriffo, che lo fissava. Chiuse gli occhi e si sentì
sopraffatto da un’ondata di paura. Tra tutta la gente in cui avrebbe potuto
imbattersi, doveva trovare proprio Valenti?
Lo Sceriffo parcheggiò la macchina e uscì nell’aria fredda della notte. Max era
immobile e lui lo squadrò con occhio esperto. Aveva un aspetto smunto. I suoi
vestiti erano sporchi e sembravano essere gli stessi che indossava quando era
scomparso: giacca nera di pelle, maglioncino grigio, blue jeans, stivaletti. I
vestiti sembravano larghi, come se avesse perso molto peso, nelle settimane che
era stato via. Ma furono gli occhi ad attirare l’attenzione di Valenti. I suoi
occhi erano come spenti. Sembrava come se lui fosse entrato nell’inferno, e
solo una parte di lui fosse tornata indietro.
Valenti fece il giro della macchina per andare verso il ragazzo, quando
improvvisamente Max si accasciò per terra. Si affrettò al suo fianco e sentì
che respirava con difficoltà. Prese la ricetrasmittente appesa alla sua cinta e
chiamò la stazione.
“Hansen, qui è Valenti. Rispondi, per favore.” Valenti controllò Max, mentre
aspettava una risposta. Il ragazzo aveva un aspetto spaventoso. “Hansen, ci
sei?”
“Sono qui, Sceriffo. Cosa posso fare per lei?”
“Ho bisogno di un’ambulanza sulla 380. Sono a circa 5 miglia a est della città,
all’altezza del segnale 89.”
“Cosa è successo, Sceriffo? Un incidente stradale?”
“Non si tratta di un incidente. Ho appena trovato Max Evans!”
Dopo una breve pausa, dall’altoparlante si sentì di nuovo la voce di Hansen.
“Qualcosa a proposito della ragazza Parker?”
Valenti guardò davanti a sé. “No.” rispose. “Nessuna traccia della Parker.
Ascolta, chiama gli Evans e avvertili che Max sarà portato all’ospedale.”
“Cos’ altro devo dire, Sceriffo? Mi chiederanno in che condizioni si trova.”
“Tu di’ solo che ci vedremo lì.”
***
Isabel camminava avanti e indietro nella sala d’attesa del Pronto Soccorso.
Diane e Philip Evans erano seduti lì accanto, stringendosi le mani e cercando
di non pensare al peggio. La chiamata era arrivata 30 minuti prima: La chiamata
per la quale avevano sperato e temuto nello stesso tempo. Il Vicesceriffo aveva
detto che avevano trovato Max, ma che non sapeva in quali condizioni fosse.
Diane guardò la porta in attesa di cogliere un segno dell’arrivo
dell’ambulanza. Le ginocchia di Philip andavano su e giù mentre batteva il
piede sul pavimento. I pensieri si susseguivano nella sua mente. Max doveva
essere vivo, perché lo stavano portando in ambulanza all’ospedale, non
all’obitorio. Ma proprio perché lo stavano portando all’ospedale, lui doveva
essere ferito.
Lo stesso pensiero attraversava la mente di Diane. I suoi occhi erano incollati
all’entrata e lei stava diventando pazza chiedendosi cosa gli fosse successo in
tutto quel tempo. Non una sola telefonata. Non una lettera. Dove era stato?
Cosa gli era successo? E dov’era Liz? Il Vicesceriffo Hanson non aveva nominato
Liz.
Un lampeggiante rosso attirò la sua attenzione e Diane si alzò rapidamente in
piedi. Aveva i piedi incollati al pavimento. Trattenne il respiro quando la
barella entrò attraverso le porte e lei vide suo figlio per la prima volta dopo
quasi 3 mesi.
“Max …Max.” gridò Isabel mentre si precipitava verso la lettiga e le si bloccò
il respiro in gola quando vide la sua faccia. Aveva un aspetto tremendo. La sua
pelle era pallida. I suoi occhi erano infossati e spenti. Afferrò la sua mano e
si sentì attraversare da un’ondata di disperazione. Le immagini scorrevano così
veloci che non riusciva ad assimilarle. Il suono dell’ allarme, gli spari e le
grida riempirono la sua mente. Max si afferrava a lei come se fossa l’ unica
corda di salvataggio al mondo.
***
Max guardò su, verso sua sorella e vide le lacrime scorrerle sul viso. Sentì il
suo sollievo, dopo lei si era accertata delle sue condizioni e aveva realizzato
che fisicamente sarebbe guarito in fretta. La barella fu portata in una stanza,
con Isabel a fianco e i suoi genitori dietro.
Diane vide gli infermieri spostarlo su un lettino .
“Sto bene.” protestò Max, cercando di divincolarsi dagli infermieri che
cercavano di esaminarlo. “Lasciatemi stare.” gridò.
Diane si fece strada tra il personale. Max si era seduto e Diane lo prese tra
le braccia. Il corpo di Max era teso allo spasimo e in un primo momento, non
pensò nemmeno a ricambiare il suo abbraccio. Lei lo strinse più forte e
finalmente lui l’abbracciò.
“Max, tesoro. Cosa è successo? Dove sei stato?” Lei lo trattenne con le braccia
tese e vide i suoi occhi rossi e gonfi.
“Non lo so, mamma.” La sua voce era atona e la guardava con una tristezza che
le spezzò il cuore. Gli occhi si spostarono da sua madre a suo padre. “Io non
lo so.”
Philip si avvicinò al letto. “Cosa significa, Max? Tu sei stato via per
settimane. Dovresti sapere dove sei stato.”
“No.” rispose Max, con lo sguardo assente.
“Cosa sai di Liz?” chiese Philip. “Dov’è Liz?”
La faccia di Max impallidì e dalla sua gola uscì un singhiozzo. Nascose il viso
tra le mani e cercò di ricacciare indietro le lacrime che lottavano per uscire.
“Non lo so. Io non so dov’è.”
Un’infermiera si stava dando da fare intorno a lui. Gli tolse delicatamente la
giacca e gli sfilò il maglione. Tirò le tende intorno al letto e pregò i
familiari di aspettare nell’altra stanza.
Tornando verso Max, tirò fuori qualcosa di verde. “Ora, caro, perché non ti
infili questa?” E gli porse una camicia da notte da ospedale.
“Portatela via.” urlò Max. “PORTATE QUELL’ACCIDENTE LONTANO DA ME.”
Philip spostò la tenda e vide l’immagine del figlio che stringeva l’infermiera
alla gola.
“PERCHÉ’ MI STATE FACENDO QUESTO?” le stava gridando Max. Philip era
sbalordito. Max non era mai stato un ragazzo violento. Questo modo di agire non
era da lui.
“PERCHÉ NON CI LASCIATE STARE?" stava urlando all’infermiera terrorizzata. La
spinse via e lei cadde sulle ginocchia. “Perché non ci lasciate stare?” La
rabbia era sparita dalla sua voce, lasciando il posto alla disperazione che lo
invadeva.
Inservienti vestiti di bianco circondarono il suo letto e lo tennero immobile
mentre l’infermiera gli iniettava un sedativo nel braccio. Max si dibatteva
ferocemente, rivivendo i momenti che era stato esaminato con la forza nel
laboratorio.
“No.No.NO.” urlò, fino a che il sedativo cominciò a fare effetto.
***
Diane, Philip e Isabel sedevano nella sala d’aspetto ed aspettavano che
arrivasse il dottore. Max era stato trasferito al sesto piano quasi un’ora
prima. Il sesto piano è il reparto psichiatrico, pensò Philip tra sé. Dove
venivano ricoverati i malati che non erano psichicamente in grado di badare a
se stessi.
Il dottore entrò nella stanza e si mise a sedere di fronte agli Evans. Diane
pensò che sembrava appena uscito dalla scuola di medicina, ma dimostrava una
sicurezza che contrastava con l’aspetto giovanile.
“Stanno sistemando Max al piano superiore proprio adesso. E’ ancora sotto
sedativi, così non c’è molto che posso dirvi questa sera. Domani gli faremo una
serie di analisi. Gli faremo una emogasanalisi e un tossicologico, per vedere
se fa uso di droghe. Questo tipo di comportamento è frequente quando c’è di
mezzo la droga.”
”Max non ha mai fatto uso di droghe.” rispose con enfasi Diane.
“Sono sicuro che voi vi rendete conto signori Evans, che i genitori sono gli
ultimi a saperlo, in questi casi.” La sua voce era calma e misurata, ma Diane
non avrebbe voluto aver niente a che fare con tutto questo.
“Conosco mio figlio, Dottore, e lui non prende droga.” Diane guardò philip e
Isabel in cerca di appoggio. “Isabel, sai se tuo fratello ha mai preso della
droga?”
Isabel si sentì presa in trappola, sotto lo sguardo indagatore dei suoi
genitori. “No, mamma.” rispose sinceramente.”Max non si è mai drogato.” Fece
una pausa e notò che il dottore la stava guardando. “Veramente qualche mese fa
ha assaggiato qualcosa di alcolico una sera, ma non gli è affatto piaciuto. Mi
disse che non l’avrebbe fatto mai più.” Questa affermazione sembrò dare ragione
a Diane e lei guardò di nuovo il medico.
“E’ solo routine, in questi casi signora Evans.” continuò il dottore.” Sono
sicuro che lei ha ragione. Penso anche che sia il caso di fare una TAC, per
escludere danni cerebrali o altre anomalie.”
“Si, naturalmente dottore.” rispose Diane “Qualsiasi cosa lei reputi sia
necessaria.”
Isabel era nel panico. Tutti questi esami. Cosa avrebbero scoperto? Doveva
parlare con Max, ma lui era sedato. Cosa doveva fare?
“Non voglio che sia fatto nessun esame, prima che io abbia avuto la possibilità
di parlare con lui.” disse Philip fermamente.
“Prego?” rispose il dottore.
“Ho detto nessun test fino a che non ho parlato con Max.” L’avvocato che era in
lui stava uscendo fuori. “Lasciamolo dormire, stanotte, e quando domani si
sveglierà voglio parlargli. Poi andremo via di qui.”
“Non penso sia una cosa saggia, signor Evans.”
“Ma è quello che ho deciso ed è quello che faremo.”
Capitolo 15
Philip stava nel corridoio e guardava,
attraverso il vetro rinforzato, suo figlio nella stanza accanto. Aveva le mani
e i piedi assicurati al letto a causa dello scoppio d’ira che aveva avuto la
sera prima. Stava supino, fissando il soffitto e l’unico movimento era il
battito dei suoi occhi. Philip aprì la porta ed entrò.
Il rumore attirò l’attenzione di Max e vide suo padre attraversare la stanza
verso di lui. Non aveva mai visto la faccia di suo padre così tesa. Camminò
verso il letto ed appoggiò una mano su suo figlio.
“Come ti senti, Max?” gli chiese con dolcezza.
“Sto bene.” Rispose lui con voce piatta.
“Dalla tua voce non si direbbe.” Max spostò lo sguardo e Philip si accorse che
si sforzava per controllarsi. “Ci sei mancato, figliolo. Tua madre stava male
per la preoccupazione.” Max guardò ancora verso di lui e Philip vide lacrime
non versate nei suoi occhi.
“Mi dispiace.” disse Max , tornando a guardare altrove.”Anche voi mi siete
mancati.”
“Dove sei stato, Max?”
“non lo so, papà.” rispose Max con sincerità. Non aveva idea di dove fosse il
laboratorio dove lo avevano portato. Il laboratorio dove Liz era ancora
prigioniera.
“Max, vorrebbero farti qualche esame.”
“NO,” Max lo interruppe con voce crescente.” ”Voglio solo andare a casa. Papà,
ti prego,” disse accoratamente “Portami a casa.”
“Max. vogliono farti solo qualche analisi del sangue e una TAC. Solo per essere
sicuri che stai bene.”
“Papà.” Cominciò a dire Max e chiuse gli occhi nel tentativo di rimanere calmo.
Se avesse permesso che gli facessero quegli esami, lui non sarebbe mai più
uscito da lì. “Papa, non ho niente che non possa essere curato a casa. Papà, ti
prego.” Disse e la voce gli si spezzò nella gola. “Puoi portarmi a casa?”
***
Max finì di abbottonarsi la camicia mentre ascoltava la voce di suo padre che
stava litigando con il dottore nel corridoio. Si avvicinò alla porta per
sentire meglio la conversazione.
“Non m’importa, dottore.” Max riusciva a sentire bene la voce tesa del padre,
attraverso la porta parzialmente aperta.
“Signor Evans, lei sta portando suo figlio fuori da un ospedale. Questa non è
una scelta saggia da parte sua. Potrebbe causare danni irreparabili se
insiste.”
“Io la penso così. Lo portiamo a casa.”
Max si allontanò dalla porta quando sentì il rumore di passi che venivano nella
sua direzione. Si sedette sulla sedia per allacciare le scarpe. Suo padre aprì
la porta e lui incontrò i suoi occhi.
“Sei pronto, Max?” chiese Philip entrando.
“Si.” Rispose lui, alzandosi. Sentendosi in imbarazzo, infilò le mani nelle
tasche anteriori dei jeans.
“Allora andiamo a casa.” Disse Philip dando una stretta alla spalla del figlio.
Max tentò di sorridere, ma quello che venne fuori sembrava più una smorfia.
Raccolse la giacca dall’angolo del letto e lasciarono la stanza. Vide sua
madre, che lo aspettava nervosamente nel corridoio, sorridergli e dirigersi
verso di lui non appena lo vide. Lo abbracciò forte e, questa volta, Max
ricambiò il suo abbraccio.
Scesero nell’atrio con Diane che teneva suo figlio per mano. Notarono le
occhiate della gente che camminava nel corridoio. Roswell era una città piccola
e le notizie correvano veloci. Uscirono nel sole del mattino e Max socchiuse
gli occhi. Era passato molto tempo da quando aveva sentito il sole sul suo
viso.
Jeff Parker vide gli Evans lasciare l’ospedale dalla porta principale, si alzò
dalla sedia dove era seduto e li seguì fuori.
“Cosa le hai fatto, Max?” gridò quando il ragazzo gli fu davanti.
Max si fermò, riconoscendo immediatamente la voce. Si girò lentamente fino ad
essere proprio di fronte a Jeff .
“Dov’è Max? Dov’è la mia bambina?”
Il dolore di aver perso sua figlia era stampato sulla sua faccia. I suoi
capelli da neri erano diventati grigi e i suoi occhi avevano lo sguardo vuoto
come se, avendo perduto Liz , avesse perso una parte di se stesso. “L’hai
uccisa, Max? Hai ucciso la mia bambina?”
“Non dire nulla, Max.” disse Philip afferrandolo per un braccio. “Vieni,
andiamo a casa.” Max era stordito. Era questo che la gente pensava ? Che lui
avesse ucciso Liz?
“Pagherai per quello che hai fatto, Max Evans.” Urlò Jeff, mentre lui
indietreggiava. “Mia hai sentito? Pagherai per quello che hai fatto alla mia
bambina!”
***
Max aprì la porta ed entrò a casa, dopo settimane. I suoi occhi esaminarono il
soggiorno e notò che non era cambiato nulla. La statua del lupo, che lui aveva
regalato a suo padre qualche anno prima, era ancora sulla mensola del
caminetto. La coppa di cristallo che aveva comprato a sua madre con la sua
prima paga, solo perché sapeva che le avrebbe fatto piacere, era ancora nel
mezzo del tavolino da caffé. In un certo qual modo, si era aspettato che le
cose sarebbero apparse differenti. Lui sapeva senza dubbio di sentirsi
differente dal ragazzo che era uscito di casa quel pomeriggio di marzo. Non era
preparato al diluvio di emozioni che gli avrebbe causato il suo rientro a casa.
I suoi occhi si velarono e senti le sue mani tremare.
Diane Evans chiuse la porta dietro di lei e tornò a guardare suo figlio. Era in
piedi al centro della stanza, la testa piegata e le spalle curve. Sembrava
perso, sconfitto e avrebbe voluto prenderlo tra le braccia per scacciare via il
suo dolore. Gli andò vicino e gli mise dolcemente una mano sul braccio.
Max si girò verso di lei e le affondò il viso sulla sua spalla. Incapace di
trattenersi, scoppiò in singhiozzi, sopraffatto dalle emozioni. Le si strinse
contro in maniera quasi disperata. Diane era scioccata. Non lo aveva più
sentito piangere fin da quando era bambino. Max era sempre così controllato,
che vederlo in questo stato la lasciava sbigottita. Il suo corpo tremava, le
sue spalle erano scosse dai singhiozzi, e poteva sentire le sue lacrime
scenderle lungo la gola. Lo tenne stretto tra le braccia e, per la prima volta
dopo tanti anni, sentì che suo figlio aveva veramente bisogno di lei.
“Andrà tutto bene, Max.” gli disse con voce rassicurante. “ Vedrai andrà tutto
bene.”
“Non l’ho fatto, mamma.” rispose Max singhiozzando. “Giuro su Dio, non ho fatto
del male a Liz.” Le parole gli si bloccarono in gola. Allontanò la testa dalla
spalla della madre, per guardarla negli occhi. “Io l’amo, mamma. Io l’amo così
tanto.”
Diane gli passò la mano sulla guancia, asciugando le sue lacrime. Il dolore che
vedeva nei suoi occhi le spezzò il cuore. Sentirono la porta del garage che si
apriva e si richiudeva ed il rumore dei passi di suo padre che traversava la
cucina per raggiungerli in soggiorno. Max si allontanò da sua madre e si passò
le mani sulla faccia, poi prese un fazzoletto e si soffiò il naso. Si sedette
sul divano e, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, si coprì gli occhi con le
mani. Diane lo vide lottare per riprendere il controllo di se stesso. Gli si
sedette accanto e gli accarezzò le spalle. Lui scoppiò di nuovo a piangere,
ancora sopraffatto dalle emozioni.
Philip si bloccò, appena entrato nella stanza. La vista di suo figlio che si
dondolava avanti e indietro sul divano, le spalle scosse dal pianto, gli arrivò
fino all’anima. Diane attirò Max accanto a sé e lui le appoggiò la testa sul
petto. Mentre gli accarezzava i capelli, alzò gli occhi verso suo marito e lui
vide le lacrime luccicarle negli occhi.
“E’ tutta colpa mia.” Disse sconsolato Max. “E’ tutta colpa mia.” Le sue
lacrime bagnarono la camicetta della madre. “Non sono riuscito a proteggerla.”
Diane sentì il cuore stringersi in una morsa di gelida paura. Cosa voleva dire
‘Non sono riuscito proteggerla? Che cosa era successo esattamente a Liz e in
che modo Max era coinvolto? Lei gli aveva creduto quando aveva detto di non
aver fatto del male a Liz. Ma ora era sicura che lui sapesse cosa le era
successo.
“Cosa stai cercando di dire, Max? Devi dirci cosa è accaduto. Devi dirci tutto.
E’ l’unico modo che abbiamo per aiutarti.”
Max si allontanò dalla madre e, ancora una volta, si nascose il viso tra le
mani. Si sforzava di rallentare il suo respiro e cercava di evitare lo sguardo
dei suoi genitori. Diane avvertì che si stava richiudendo in se stesso, che
stava rientrando nella sua conchiglia.
“Max, non lo fare!” lo supplicò Diane. “Non chiuderci fuori. Niente più
segreti, Max. Ti prego.”
“Qualunque cosa sia, figliolo, devi sapere che puoi dircela.” Philip fece un
passo verso suo figlio, ma Max si alzò di scatto e si allontanò da loro. “Max,
tu sei in difficoltà. Grandi difficoltà.”
“Me ne rendo conto, papà.” Max lanciò un’occhiata in direzione del padre, ma fu
incapace di sostenere il suo sguardo e si girò.
“Te ne rendi conto? Davvero? “ replicò Philip, il tono di voce che cresceva di
pari passo con la sua frustrazione. “Stanno pensando di incriminarti per
omicidio! Tu eri con Liz l’ultima volta che è stata vista. Hanno trovato delle
macchie di sangue, giù al lago. Il suo sangue. Hanno trovato la tua Jeep, il
tuo zaino. Max, c’era sangue sui tuoi vestiti. Pensano che tu l’abbia uccisa.”
“LEI NON E’ MORTA!” Max urlò verso suo padre. “Lei non è morta.” ripeté, ma
questa volta sembrava più una supplica che una dichiarazione. “Lei stava bene,
l’ultima volta che l’ho vista.” Chiuse gli occhi e l’ immagine di lei gli
apparve alla mente. Gli occhi, il sorriso, la sensazione dei suoi capelli
soffici, il suono dolce della sua risata. Lei doveva stare bene. Lo doveva per
forza.
Diane si alzò dal divano e fece un passo verso suo figlio. “Cosa le è accaduto,
Max? Che cosa hai fatto?”
“Io non ho fatto niente, mamma!”Max guardò i suoi genitori e sentì che stava
per esplodere. “Non è che cosa ho fatto.” Disse improvvisamente “E’ che cosa
sono. Loro l’hanno presa per quello che io sono.” Le parole gli uscirono prima
che lui potesse fermarle. Fu preso dal panico. La sua vita gli stava crollando
addosso.
Diane e Philip si guardarono l’un l’altra, con espressione confusa. Insieme
guardarono Max, chiedendosi di cosa stesse parlando. ”Max,” cominciò Diane
“Cosa significa? Cosa ci stai nascondendo?”
Max si voltò a guardare i suoi genitori. Il momento che aveva temuto per tutta
la sua vita era arrivato. Aprì la bocca per parlare, ma le parole si
rifiutavano di uscire, Si guardò le mani e fece un respiro profondo cercando di
calmarsi. I suoi occhi fissarono gli occhi dei suoi genitori e disse. “Io non
sono … umano.”
Capitolo 16
La mente di Philip cominciò a mettersi
in azione, cercando di comprendere quello che Max stava dicendo. Cosa diavolo
stava cercando di dire? Max aveva forse fatto qualcosa di tanto orribile da
definire se stesso un animale? L’ aveva visto succedere molte volte nella sua
professione di legale. Una persona apparentemente normale si spinge a fare cose
disumane, senza che gli altri attorno a lui sospettino niente.
Max era sempre stato tranquillo e riservato. Aveva per così tanto tempo
nascosto le cose dentro di sé, da arrivare ad esplodere in una rabbia violenta?
Philip sapeva che Max nutriva per Liz un sentimento profondo. Lei lo aveva
respinto? L’aveva aggredita per una irrazionale vendetta? Suo figlio era
soggetto ad alterazioni psichiche?
Diane fissò suo figlio. Aveva sospettato per anni che ci fosse qualcosa di
diverso in lui, ma non aveva mai permesso a se stessa di approfondire la cosa.
Pensarci significava guardare in faccia la realtà e lei non voleva perdere
l’illusione di avere una famiglia perfetta. Sentì le ginocchia cedere e tornò a
sedersi sul divano. Afferrò la mano di Philip e lo tirò giù accanto a sé.
Max li guardò, chiedendosi cosa avrebbe detto ora. Scorse un misto di emozioni
sulla faccia di suo padre. Incredulità, preoccupazione, turbamento,
Compassione. Paura? Max vide lo sguardo rassegnato sulla faccia di sua madre e
si accorse che era molto più vicina a comprendere la verità di quanto non lo
fosse suo padre. Già era stata vicina a scoprire la verità qualche mese prima,
quando la cucina aveva preso fuoco.
“Io ho un aspetto umano.” cominciò Max, con le parole che si precipitavano
fuori della bocca “Io agisco come un umano. Io mi sento … umano … ma non lo
sono. Io non so cosa sono. O da dove vengo. O perché sono stato portato qui.”
Con la coda dell’occhio, vide Isabel che stava nell’ingresso.
Lo stava fissando con uno sguardo terrorizzato. Stando nell’ombra dell’atrio,
aveva sentito tutto. Isabel non aveva mai visto Max così sconvolto prima d’ora.
Lo aveva sempre visto forte. Aveva paura di guardare i suoi genitori, paura di
vedere come avrebbero reagito alle sue parole. Isabel aveva notato come Max
avesse detto che ‘lui’ non era umano tentando, perfino in quel momento, di
proteggerla.
“Io non capisco.” disse Diane sommessamente. Ma dentro di sé, sapeva di capire.
Lei lo sospettava da tanto tempo, ma aveva cercato di fingere che non ci fosse
nulla di differente nei suoi bambini. Ricordò l’uccello che Max aveva guarito
quando era piccolo e che lei aveva filmato. Nemmeno quando le prove erano sotto
il suo naso, si era permessa di vederle veramente. Philip guardò sua moglie e
si rese conto che lei era a conoscenza di qualcosa che lui, invece, ignorava.
“Cosa sta succedendo qui?” disse Philip allarmato “Max, cosa stai dicendo?”
“Ti sta dicendo la verità. Papà.” Isabel uscì dall’ombra ed entrò nel
soggiorno. Max la guardò per un attimo, poi tornò a sedersi. Stava appollaiato
sul bordo della sedia, le mani strette davanti e gli occhi che fissavano il
pavimento. Isabel si girò verso il padre e continuò.
“Siamo stati portati qui con un’astronave, quella che si schiantò nel 1947. Non
sappiamo perché e non sappiamo come. Eravamo in celle di incubazione e ne siamo
usciti appena prima che voi ci trovaste nel deserto.”
Isabel guardò sua madre. Era paura quella che le leggeva negli occhi? “Noi non
siamo cattivi, mamma.” disse, mentre i suoi occhi pregavano sua madre perché
comprendesse. “Abbiamo sempre cercato di fare le cose giuste, come voi ci avete
insegnato.” Isabel vide le lacrime luccicare negli occhi di sua madre, ma non
ne conosceva il motivo. Sua madre le avrebbe ancora voluto bene? O era
scioccata, terrificata da quello che aveva sentito?
Isabel guardò verso Max. Sedeva rigido sulla sedia, evitando il contatto con
gli occhi di tutti. Poteva avvertire la sua lotta interiore mentre cercava di
stare calmo. Isabel tornò a guardare sua madre. “Max non avrebbe mai fatto del
male a Liz. Quando fu ferita al Crashdown le ha salvato la vita. Il suo potere
è la capacità di guarire e quando l’ha vista in una pozza di sangue, non ha
potuto lasciare che morisse. Ha rischiato tutto, per salvarla.“
Isabel vide gli occhi di sua madre spostarsi su Max. Era compassione quello che
vi leggeva adesso? “Mamma … io avrei voluto dirvelo da anni, ma avevamo troppa
paura. Paura di cosa avreste fatto … paura che voi non ci avreste … più voluto
bene.” La sua voce si spezzò mentre diceva le ultime parole e sentì le lacrime
che minacciavano di scendere.
Diane si alzò dal divano e guardò sua figlia. Non importa cosa fosse, Isabel
era sua figlia. Diane si era sentita legata a lei ancora prima che portassero
lei e Max a casa dall’orfanotrofio. Nel momento in cui aveva posato lo sguardo
su quella bellissima bambina che vagava sperduta nel deserto accanto al bambino
con gli occhi più malinconici che avesse mai visto, Diane aveva saputo che il
suo scopo in questo mondo era proteggerli e dar loro l’amore di cui sembravano
avere così disperatamente bisogno. Velocemente attraversò la stanza e la tirò
tra le sue braccia. “Oh, Isabel.” cominciò Diane “ Come puoi pensare che io
potrei non amarti più? Tu sei mia figlia, Io ti vorrò sempre bene. Non è
importante chi … o … cosa sei.” Si allontanò, così da poterla vedere negli
occhi. “Avere te e Max nelle nostre vite è stata la cosa più bella che poteva
capitarci. Tu sarai sempre la mia bambina, dolcezza.”
Isabel si sentì pervadere dal sollievo. La sua peggiore paura era che, se sua
madre avesse saputo la verità, sarebbe scappata via terrorizzata. Si tenne
stretta a sua madre e guardò suo padre. Non aveva detto una parola, da quando
lei era entrata nella stanza. Poteva vedere lo shock nel sua viso e si
spaventò.
“Papà?” disse, con le labbra che le tremavano. Dall’espressione della sua
faccia, temeva che sarebbe corso fuori dalla stanza raccapricciato. “Puoi
ancora volermi bene? Tutti e due?”
Le parole le uscirono quasi sussurrate, ma penetrarono attraverso il turbamento
che Philip stava provando. I suoi occhi misero a fuoco il viso della figlia.
Quello che stava dicendo poteva essere la verità? Era vero che avevano trovato
lei e Max che vagavano nel deserto. Tutto quello che li riguardava era stato
strano. Non sapevano parlare, anche se erano in grado di comunicare tra di
loro. Non sembrava che conoscessero nemmeno le cose più basilari. Come usare il
bagno. A cosa servissero forchetta e cucchiaio. Sembrava che non avessero mai
assaggiato cibo prima di allora. Max si era bruciato una mano con una pentola
di acqua bollente, appena avevano cominciato a vivere con loro, ma solo il
giorno dopo la rossa bruciatura infiammata era miracolosamente scomparsa. Loro
due stavano l’uno accanto all’altra, nascondendosi sotto il tavolo della cucina
la prima volta che Diane aveva preparato il popcorn con il forno a microonde.
Il suono scoppiettante dei chicchi di mais li aveva spaventati. Philip dovette
ammettere con se stesso che aveva visto molte cose strane, ma le aveva messe in
disparte, non volendo mettere in discussione la vera natura dei suoi bambini.
Philip guardò in direzione di Max. Suo figlio. Era stato orgoglioso di chiamare
Max suo figlio. Pur pensando che fosse tranquillo e riservato, Philip aveva
sempre creduto che Max avesse un cuore puro e un animo gentile. Se quello che
aveva appena sentito era la verità, cosa cambiava? Era importante? Se loro
erano veramente … di origine aliena, poteva ancora guardarli allo stesso modo?
La sua mente lottava per comprendere. I suoi occhi si spostarono su Isabel,
stava in piedi accanto a sua moglie e poteva vederne il viso teso, il corpo che
tremava e le guance bagnate di lacrime.
Guardando i loro volti Philip realizzò che erano impauriti da lui. Impauriti da
quella che poteva essere la sua reazione. Avevano trascorso tutta la loro vita
nella paura. Paura di essere scoperti. Paura che i loro genitori li avrebbero
allontanati. Paura di essere catturati, torturati, perfino uccisi, solo perché
erano differenti. Non importava da dove provenissero Max e Isabel, nel profondo
erano molto più umani di tanta gente con cui lui lavorava ogni giorno.
“Papà?” sussurrò ancora Isabel, mentre tutto il suo mondo le stava crollando
addosso. Ora era certa che lui sarebbe scappato via, atterrito dai mostri che
stavano nel suo soggiorno.
Il suo sguardo sfondò tutte le resistenze di Philip. Lei era sua figlia, il
resto non importava. E Max era suo figlio. Lo avevano reso orgoglioso ogni
giorno della sua vita e adesso non c’erano differenze in loro. Si alzò in
piedi, guardò per un attimo Diane e poi ancora Isabel.
“Tu sei mia figlia.” disse quietamente “E’ naturale che ti voglio bene.” Isabel
corse verso di lui che l’abbracciò. Lei appoggiò la faccia contro il suo petto
e sentì l’umidità delle sue lacrime. “Noi vi ameremo sempre, te e Max.” La
tenne stretta e si voltò verso Max.
Lui stava ancora seduto sulla sedia. Guardò suo padre e lo sguardo desolato nei
suoi occhi addolorò Philip, che improvvisamente si rese conto delle difficoltà
e dei timori con cui era cresciuto il suo ragazzo.
Il loro segreto era un peso che si erano portati dietro da tutta la vita.
Philip voleva essere certo che non si sarebbero più sentiti soli.
Anche Diane notò l’espressione del viso di suo figlio. Prese Isabel dalle
braccia del padre e lui traversò la stanza. Si inginocchiò accanto a Max e gli
toccò la spalla.
“Noi ti vogliamo bene, Max. Non devi avere dubbi su questo. “ Philip abbracciò
suo figlio.
In un primo momento Max non rispose. Sedeva impietrito sulla sedia, il corpo
irrigidito dalla tensione. Philip aumentò la stretta e sentì il corpo di Max
rilassarsi.
“Papà.” sussurrò Max con voce rotta. Chiuse gli occhi e le sue braccia
circondarono il padre, tenendolo stretto. Stettero così finché Philip non si
alzò, guardando fissamente suo figlio.
“Ho bisogno di sapere tutto, Max. Comincia dal principio. E ho bisogno di
sapere esattamente cosa è successo a Liz.”
Capitolo 17
Liz si dondolava avanti e indietro,
stringendosi le ginocchia contro il petto. Era di nuovo nella stanza bianca,
con le pareti imbottite e senza porte né finestre. Ormai era chiusa lì dentro
da ore. Le guardie l’avevano trascinata con la forza dalla stanza di
trasferimento e portata lì urlante.
Nella sua mente si ripetevano gli eventi della notte scorsa. Il modo in cui la
porta verso la libertà si era chiusa proprio mentre la stava raggiungendo. Il
modo in cui Max aveva preso a pugni prima la porta e poi la vetrata. La sua
faccia era svanita davanti ai suoi occhi e la disperazione che lei vi aveva
letto le aveva fatto di nuovo uscire le lacrime. Max aveva fissato la vetrata
con le mani appoggiate contro il vetro, gridando parole che lei non poteva
sentire coperte dal suono dell’allarme. E poi era semplicemente scomparso e lei
non si era mai sentita così sola in tutta la sua vita. Era riuscito ad arrivare
a casa sano e salvo? Sarebbe tornato a prenderla o avrebbe dovuto passare da
sola gli ultimi giorni della sua vita in quel posto?
Cerò di combattere il panico che la stava sommergendo, mandando il pensiero in
altre direzioni. Poteva sentire le pareti della stanza chiudersi su di lei, La
claustrofobia era palpabile. Le sue labbra si muovevano al ritmo di una vecchia
canzone, una canzone per bambini di cui non ricordava il titolo. Si concentrò
sulle parole, cercando di ricordarne ogni riga, ogni strofa. Sua madre era
solita cantarla quando lei era piccola.
“Non aver paura dell’uomo nero sotto il letto. Lui non è veramente lì. Lui è
nella sua testa.”
Se si fosse concentrata, forse avrebbe scordato di essere chiusa in quella
stanza.
***
“DANNAZIONE!” urlò Miller, camminando avanti e indietro nel suo ufficio.
Rivolse la sua ira alle guardie che stavano accanto alla porta. “Che diamine
stavate facendo, voi? Dormivate? Come avete potuto lasciare che succedesse.”
“hanno ricevuto aiuto, signore.” disse la guardia cercando di giustificarsi.
“Joshua Lansing è stato trovato con loro. Crediamo che sia stato lui a
liberarli. Li abbiamo trovati tutti e tre nella stanza di trasferimento
primaria ed il ragazzo era andato prima che facessimo in tempo a raggiungerlo.”
“In nome di Dio, come hanno fatto ad arrivare là?Non stavate guardando le
telecamere? “ Miller era così arrabbiato da strozzare la guardia. Dette un
pugno sulla scrivania e la guardia fece un saltò. Miller era famoso per il suo
temperamento violento.
“”Sospettiamo che Joshua abbia chiuso il circuito interno. Abbiamo trovato un
nastro registrato con le immagini del corridoio vuoto. Le guardie non hanno
visto nessuno. E’ stato solo quando la consolle dei comandi e stata attivata,
che è scattato l’allarme.”
“Perché Joshua avrebbe fatto questo?” si chiese Miller, tra sé e sé. “Lui
lavora qui da anni. Non avrei mai sospettato di lui.” Miller ricominciò a
camminare nella stanza. “Dov’è adesso la ragazza?”
“E’ nella stanza di contenimento. L’abbiamo portata subito lì.” La guardia
stava rigidamente in piedi davanti a Miller, sperando di essere mandato via
presto.
“Liberatevi di lei. Disfatevi del corpo in modo che non sia ritrovato.” disse
Miller con voce gelida.
La guardia faticò a comprendere cosa Miller stesse dicendo. Lui non era stato
assunto per uccidere un’adolescente indifesa. “Lei vuole che io … vuole che la
uccida?” chiese incredula.
“Non penso che uccideremo nessuno, John.” disse Johnson entrando nella stanza.
Indossava un camice da chirurgo, sporco di sangue.
“Lei non ci serve più a niente adesso, Bob.” disse Miller squadrando il suo
collega. “ Abbiamo perduto il ragazzo. L’esperimento è fallito. E’ tempo di
riconoscere che abbiamo perso.”
“E cosa diresti si rivelassi che ho trovato un altro alieno?” disse Johnson,
aspettando la reazione di Miller.
“Di cosa stai parlando?” gli occhi penetranti di Miller lo stavano fissando
duramente.
“bene, sembra che il nostro Joshua non sia umano.” Johnson gli dette il tempo
di comprendere, prima di continuare. “Abbiamo avuto un alieno che lavorava
proprio sotto il nostro naso, per tutto questo tempo. Immagina. Credo che i
test per l’assunzione del personale debbano essere perfezionati.”
Vide le mascelle di Miller stringersi e non poté fare ameno di provare una
certa soddisfazione. “Gli ho estratto un proiettile dal torace e un altro gli
ha perforato il braccio sinistro da parte a parte. Ho fatto quello che ho
potuto per lui, ma ha perso molto sangue e dato che noi non abbiamo una grande
scorta di sangue alieno per le trasfusioni, non so se ce la farà.”
“Forse le cose si rimetteranno in sesto, dopo tutto.” Miller gli puntò un dito
contro. “Fai tutto il necessario per tenerlo in vita. Come sono le sue
condizioni, in questo momento?”
“Estremamente critiche. Le prossime 24 ore ci diranno se avrà o no una
possibilità di sopravvivere.”
Miller si girò per guardare di nuovo la guardia. “Riportate la ragazza nella
sua stanza. Sembra che dopo tutto ci sarà ancora utile.”
***
Liz sentì un rumore e si girò verso la porta che si stava aprendo sulla parete.
Due uomini vestiti di bianco entrarono nella stanza seguiti da due guardie
armate di fucile. Liz si fermò ed appoggio la schiena alla parete. Erano venuti
per lei, questa volta? Ora che Max non c’era più, avrebbero ancora avuto
bisogno di lei? L’ordinanza si avvicinò verso di lei e Liz cercò di scappare.
Sapeva che non ne sarebbe mai stata in grado, ma non voleva solo stare lì ad
aspettare qualsiasi cosa che le avrebbero fatto.
Una guardia l’afferrò rudemente e la tenne stretta. L’altra cominciò a
strattonare i suoi vestiti, cercando di sfilarle il pullover dalla testa. Lei
lottò, graffiando e tirando calci. Le sue grida echeggiarono tra le pareti
della stanza. Le sue dita ghermirono uno dei suoi assalitori e lasciarono segni
sanguinanti sulla sua guancia. La guardia tirò una mano indietro per colpirla,
ma il dottor Johnson l’afferrò, facendogli perdere l’equilibrio.
“Può bastare!” disse, controllando la rabbia a malapena. “Ora fuori! Penserò io
a lei.” L’uomo con la faccia ferita si rialzò in piedi, guardandola con sdegno.
“HO DETTO FUORI … ORA!” gli urlò Johnson.
I quattro uscirono dalla stanza e Johnson si voltò verso Liz. poteva vederla
tremare e la paura nei suoi grandi occhi lo rattristò. “
“Vieni qui, Liz. Ora è necessario che tu ti metta questo.” Le porse la
familiare veste da ospedale e la vide indietreggiare. Non fece nulla per
prenderla. “Liz, non hai scelta. Metti questa e ti riporterò indietro nella tua
stanza. Se non vuoi cooperare, chiamerò indietro le guardie e loro lo faranno
al posto tuo.”
Lentamente Liz prese la camicia. Johnson vide le lacrime uscire dai suoi occhi
e scenderle lungo le guance. Lei incontrò il suo sguardo e, per un breve
momento, lui vide la faccia di sua figlia che lo guardava. Liz gli voltò la
schiena e si sfilò il pullover dalla testa. Stava cominciando ad infilarsi la
veste, quando Johnson parlò di nuovo.
“Tutto, Liz. Ho bisogno che ti tolga tutto.”
Liz mise le mani tremanti dietro la schiena e si slacciò il reggiseno. Lo
lasciò cadere per terra e si tirò giù la camicia. poi si tolse i pantaloni e le
mutandine, formando un mucchietto di indumenti sul pavimento.
***
Liz entrò nella stanza e guardò la porta chiudersi dietro di lei. Camminò per
la camera vuota, lasciando che le dita accarezzassero la superficie dell’
armadio, del tavolo e delle sedie. Toccò la cupola rotonda che copriva il cibo
sul vassoio, e mentre rabbia, paura e frustrazione crescevano dentro di lei, lo
fece volare via dal tavolo col dorso della mano. Finì sul pavimento, mandando
il cibo in tutte le direzioni. Liz si passò le mani tra i capelli , ferma in
piedi, osservando la stanza. Ora sembrava vuota e fredda. Si diresse verso il
letto, vi si arrampicò, posò la testa sul cuscino di lui e poteva ancora
sentire il profumo della sua presenza. Piegò le ginocchia contro il petto e
lasciò che il suo corpo prendesse la posizione fetale. Passò molto tempo prima
che prendesse sonno.
***
Gli occhi di Liz si aprirono con la vista del volto della guardia sopra di lei.
I graffi sulla sua guancia sembravano infiammati e l’odio nei suoi occhi le
diceva che lui non era qui per augurarle la buona notte. Liz aprì la bocca per
gridare ma lui gliela chiuse con la mano.
“Nessuno può farmi questo e uscirne senza danni.” le sibilò.
Lei lo colpì ripetutamente con le mani, cercando di liberarsi di lui. Lui le
afferrò i polsi sottili con una mano e li strinse dolorosamente insieme. Le
tirò via la coperta da sopra e lei si divincolò, colpendolo sulle costole. Lui
cadde sulle ginocchia, piegandosi per il dolore. Lei saltò fuori dl letto e
cercò di allontanarsi, ma lui l’afferrò per i capelli e la tirò con violenza
sul letto. Liz urlò al dolore e dalla paura.
“Non ti può sentire nessuno.” gli disse con disprezzo. “Nessuno verrà in tuo
soccorso. Sei sola qui, piccola strega.”
Si sedette sopra di lei, bloccandole le braccia ai lati e le tirò su la veste
per scoprirle il corpo. Aveva un rotolo di nastro tra le mani e lei lo vide
staccarne una striscia. Cominciò a gridare per chiedere aiuto e lui le chiuse
la bocca con il nastro. Ne prese un altro pezzo e poi, afferrate le sue mani,
legò insieme i polsi.
La guardava con occhi cupidi, totalmente sotto il suo controllo, ora. Le mani
le afferrarono i seni, stringendoli forte di proposito. Lei chiuse gli occhi e
cercò di portare la mente in un angolo buio, lontano dall’incubo che stava
vivendo.
“Apri gli occhi, puttana.” disse afferrandole il mento. “Voglio che veda tutto
quello che ti farò.” Lui cambiò posizione e la costrinse ad aprire le gambe con
le ginocchia. Vedeva la paura nei suoi occhi e le lacrime che le scendevano
lungo il viso. Scoppiò in una risata ed allungo la mano verso la lampo dei suoi
pantaloni.
“NOOOOOOOOO.” Max urlò, uscendo dall’incubo. Si coprì la faccia con le mani e
il suo corpo tremava per le immagini terribili che aveva visto.
“Max!” gridò Isabel come si fu precipitata nella sua stanza. “Max, stai bene?”
“E’ stato un sogno. Soltanto un sogno.” Pregò Dio che fosse solo un sogno.
***
Liz piagnucolava nel sonno mentre il sogno cominciava a frammentarsi e a
sparire. L’immagine dell’uomo con la guancia graffiata si attenuò e si
trasformò nel viso familiare di Max. I suoi occhi gentili le sorridevano.”Ti
porterò in salvo, Liz.” Gli occhi di Liz si spalancarono ed il sogno finì.
“Vorrei veramente che ne avessi la possibilità, Max.” disse quietamente.” Ma
nessuno può salvarmi adesso.” Lei si girò ed abbracciò il cuscino di lui.
Capitolo 18
Max si stiracchiò quando la luce del
mattino si posò sopra la sua faccia, tirandolo fuori dal sonno. Si allungò per
toccarla, nel modo che si era abituato a fare da tante settimane. Ma dove
avrebbero dovuto essere le sue spalle calde, trovò solo il freddo e vuoto
lenzuolo.
Disorientato, si sedette e si guardò intorno. La sua stanza. Il suo letto.
Poteva sentire gli uccelli cinguettare fuori dalla finestra. Era tanto che non
sentiva gli uccelli cantare sugli alberi. Avrebbe dovuto essere un suono
confortante, ma non lo era. Serviva solo a ricordargli che lui era lì, a casa
sua, in salvo, e Liz era ancora in un mondo da incubo.
Stava sdraiato, con la testa sul cuscino e fissava il soffitto. Doveva fare
qualcosa. Cominciare da qualche parte. Isabel e Michael avevano cercato nella
biblioteca registrazioni su basi militari nei dintorni, ma non avevano trovato
nulla che potesse dare delle indicazioni. C’erano due basi abbandonate nella
zona. Michael le aveva controllate durante le settimane che Max era stato via,
ma non c’erano tracce di attività che potessero far pensare a qualsiasi tipo di
laboratorio in funzione. Era possibile che il laboratorio fosse situato in una
base attiva, ma Max non aveva idea di come riuscire ad accedervi. Fort Bliss
era a circa 400 chilometri e così pure White Sands. White Sands era chiusa al
pubblico, così era impossibile accedervi.
Poggiò le gambe fuori dal letto e si alzò. Prese la decisione di cercare
risposte all’UFO center. Doveva parlare con Milton e vedere se aveva ancora un
lavoro lì. Gli archivi di Milton erano enormi. Forse sarebbe riuscito a trovare
delle registrazioni di laboratori di bio-contenimento sospetti, presenti sul
territorio. Si vestì velocemente ed uscì.
***
Liz si svegliò con una sensazione di nausea. Cercò di riaddormentarsi, ma il
suo corpo si rifiutava di lasciarla riposare in pace. Si tolse le coperte ed
uscì dal letto. Quando fu in piedi, sentì un’ondata di vertigini ed appoggiò la
mano sul comodino, per evitare di cadere. Quando lo stordimento fu passato,
attraversò cautamente la stanza ed entrò nel bagno. Si appoggiò al lavandino,
aprì il rubinetto dell’acqua fredda e, in attesa che il bacino si riempisse, si
appoggiò ad un mobile. Quando il livello fu abbastanza alto, prese una
salvietta e la bagnò con l’acqua fredda. Dopo averne strizzato l’eccesso
d’acqua, si appoggiò l’asciugamano sopra la faccia. Aspirò forte la sensazione
del tessuto freddo ma, dopo pochi attimi si accorse che il rimedio non
funzionava. Con la nausea che si faceva sempre più forte, si mise in ginocchio
accanto alla toletta ed aspettò l’inevitabile. Qualche minuto più tardi, dopo
diversi conati di vomito, cominciò a sentirsi un po’ meglio.
Liz si alzò dal pavimento e ritornò al lavandino. Guardò la sua immagine
riflessa sullo specchio e si chiese chi stesse guardando. La ragazza allo
specchio sembrava pallida come un fantasma e i suoi occhi infossati le
sembravano irriconoscibili. Non era questo il momento di ammalarsi, si
rimproverò. Doveva stare all’erta ed in guardia ad ogni momento. Non aveva
nessun’ altro su cui contare, tranne se stessa.
Liz si chiese se stesse covando un’influenza o se avesse contratto qualcosa nel
laboratorio. Loro potevano averla infettata di proposito per vedere come il suo
corpo reagiva alle infezioni. O potevano solo essere i nervi. La sua mente
avrebbe potuto reagire allo stress della sua attuale situazione e far ammalare
il suo corpo.
C’era ancora una possibilità, a cui non voleva pensare. Era quasi sicura di
essere in ritardo. Era difficile tenere conto del tempo che passava, quando non
eri sicura di sapere che giorno fosse. Ma lei credeva che fosse domenica e se
aveva fatto il calcolo giusto, doveva essere il 14 maggio. Il che significava
che il suo ciclo sarebbe dovuto cominciare il 10, ma non era successo. E lei
ancora non avvertiva nessuno dei segni premonitori come crampi o gonfiore. Lei
di solito era molto regolare e sapeva esattamente quando aspettarlo.
“Oh, no!” esclamò improvvisamente e si portò la mano alla bocca. Poi guardò
l’immagine riflessa nello specchio e si chiese se quello che aveva ricordato
fosse un presagio. “Oggi è la Festa della Mamma!”
***
“Per favore, Isabel. Devi provare ancora.” la voce di Max suonava
disperata.”Devo sapere se sta bene.” Max andava avanti e indietro nella sua
stanza. L’immagine di Liz trascinata via dalla stanza di controllo, due notti
prima, gli bruciava ancora nel cervello. La paura che aveva visto nei suoi
occhi era come un coltello piantato nel suo cuore. “Devo sapere che cosa le
hanno fatto dopo … dopo che io …”
“Max, smettila di biasimare te stesso. Non è colpa tua se tu sei scappato e lei
non ha potuto farlo.” Isabel lo guardò attentamente. Il suo senso di colpa lo
stava mangiando vivo. Lo poteva vedere dagli occhi e dall’atteggiamento delle
sue mascelle. La tensione dell’ aria intorno a lui era così fitta, che potevi
tagliarla col coltello.
“Vieni qui e siediti!” disse, facendo segno con la mano al posto sul letto,
accanto a lei.
Max la smise di camminare e la guardò. Cercò di sorriderle, ma senza molto
successo. Sapeva quanto fosse preoccupata per lui, quanto tutti fossero
preoccupati, ma nessuno era in grado di capire cosa stesse passando. Si sedette
lentamente sull’orlo del letto e Isabel gli appoggiò una mano sopra la sua.
Sperava che questo potesse aiutarlo ma, durante le settimane che era stato via,
lei aveva tentato e ritentato di mettersi in contatto con Liz, ma non ci era
mai riuscita. Isabel non aveva idea del perché non riuscisse ad entrare nei
sogni di Liz. Con certa gente era così facile da fare. Lei poteva entrare ed
uscire dai sogni di Alex quando voleva. Lo stesso con Maria. Con altri, come
Liz o Valenti, non le riusciva mai.
Prima che lui sparisse, era stato semplice entrare nei sogni di Max. Loro erano
così in sintonia che entrare nei suoi sogni, per lei era facile come respirare
o chiudere gli occhi. Quando Liz e Max si erano avvicinati, i suoi sogni
avevano decisamente preso un indirizzo erotico e Isabel aveva smesso di fargli
visita. Era già abbastanza sgradevole vedergli fare gli occhi da pesce lesso a
Liz per tutto il giorno, ma vederlo anzi vederli, impegnati in quel genere di
attività nei suoi sogni, era qualcosa che non voleva vedere. Dopo che era
scomparso aveva tentato varie volte di raggiungerlo, ma era stato quasi
impossibile. Ora sapeva che era la droga che gli somministravano, che le aveva
impedito di raggiungerlo.
“Max non credo che riuscirò a raggiungerla.”
“Iz …” la supplicò Max.
“Okay. Dammi la foto.” Isabel lo guardò prendere la fotografia nella cornice
d’argento. Le sue dita toccarono il vetro, fermandosi sulle labbra sorridenti
di Liz. Isabel tese la mano e Max gliela posò sul palmo, riluttante a lasciarla
andare. Era tutto quello che le rimaneva di lei. Solo quella foto e i suoi
ricordi.
Isabel si appoggiò la cornice sul grembo; le dita di una mano appoggiate sulla
foto e l’altra mano stringeva quella di Max. lei fece un cenno ed entrambi
chiusero gli occhi. Dopo la scomparsa di Max, lei aveva fatto pratica ogni
giorno ed aveva scoperto che, se teneva per mano qualcuno, lei riusciva a
trasportarlo nel sogno. Si concentrò per trovare la connessione con Liz.
Mulinelli di nuvole grigie giravano intorno a loro e poi si affievolirono.
Isabel si ritrovò a vagare in un corridoio scarsamente illuminato. Era
intervallato da porte per tutta la sua lunghezza, ma tutte quelle che tentava
di aprire erano serrate. Un suono in lontananza attirò la sua attenzione. Lei
accelerò il passo ed arrivò vicino al rumore che si stava trasformando in un
grido di dolore.
Isabel allungò una mano verso la maniglia e all’improvviso sentì la mano di Max
che la spinse da parte. Lei guardò i suoi occhi preoccupati.
“Ho paura di quello che posso vedere, Isabel. Ho paura di quello che possono
averle fatto dopo che l’ho lasciata. E se non stesse bene? E se le avessero
fatto del male? Mi ucciderebbe sapere che non posso fare niente per lei!”
“Max, non sapremo niente se non apriamo quella porta. Forse lei non è nemmeno
dall’altra parte.”
Max tornò a guardare la porta. I suoi occhi riflettevano la paura e la
frustrazione che provava da quando era tornato a casa senza Liz.
“E’ lei. Riesco a sentirla. Sono sempre stato capace di sentire la sua presenza
ogni volta che è vicina a me.”
Isabel irrigidì le spalle e raggiunse la maniglia. Il cuore le doleva per
quello che stava passando il fratello. Lei non sapeva come fosse possibile, ma
in qualche modo Max era legato a Liz. Ed essere separato da lei lo stava
facendo a pezzi, sia fisicamente che psichicamente. I suoi occhi erano
tormentati e la notte non riusciva a dormire. Quando Isabel girò la maniglia,
Max chiuse gli occhi e le sue labbra si mossero in una silenziosa preghiera.
La porta si aprì lentamente e fecero capolino nella stanza debolmente
illuminata. Il respiro di Max si bloccò nella sua gola, quando la vide. Liz era
seduta al tavolo della piccola stanza, la stessa stanza che avevano diviso. Lei
girò la testa verso la porta e Max riuscì a vedere gli occhi cerchiati di rosso
e le lacrime che rigavano le sue guance. Lui tirò un sospiro di sollievo,
quando vide che fisicamente sembrava stare bene.
“Max?” disse lei esitante. Si alzò in piedi e si asciugò le lacrime col dorso
della mano. Max?” Poteva arrischiarsi a credere che lui fosse realmente lì? Era
tornato per lei? I suoi piedi si incollarono al pavimento, timorosi di
muoversi.
“Liz … “ Il suo nome gli uscì dalle labbra e si precipitarono uno nelle braccia
dell’altro. Le braccia di Max la circondarono e lei appoggiò la testa sul suo
petto. Lei chiuse gli occhi, respirando il suo profumo familiare e le sue
lacrime gli bagnarono la camicia. Lui appoggiò le sue guance sul capo di lei e
se la tirò accanto.
“Stai bene? Sono stato così preoccupato per te!” le sussurrò Max nell’orecchio.
La sentì annuire e la condusse verso il letto. Si sedettero uno accanto
all’altra e Liz lo guardò negli occhi. “Cosa è successo dopo che ti ho
lasciato?”
Una sequenza di immagini lampeggiò nella sua testa e sentì tutto quello che le
era successo. Come fosse stata riportata nella stanza bianca e lasciata lì e
come si era sentita sola quando l’avevano riportata nella loro camera. Ci fu
solo una cosa che non gli lasciò vedere. Non avrebbe potuto lasciarla, se
avesse saputo cosa sospettava.
Il tempo passava svelto mentre parlavano e Isabel stava in disparte,
lasciandoli da soli. Vedeva il modo in cui Max accarezzava i capelli di Liz e
le sue guance e il modo in cui si guardavano negli occhi. Lei l’aveva visto
guardare Liz in questo modo prima d’ora, mai si era accorta di come fosse forte
il suo sentimento per lei, ma ora l’ aveva veramente compreso. Poteva sentirlo
nell’aria intorno a lei.
Isabel sentì allentarsi la connessione e seppe che era ora di andare. Si mosse
verso Max per avvertirlo, poi decise di stare a vedere cosa sarebbe accaduto se
si fosse ritirata e li avesse lasciati soli. Il legame tra Max e Liz era
abbastanza forte da tenerli insieme o Max sarebbe svanito insieme a lei? Isabel
sentì la sua mente che si ritirava e la foschia grigia riformarsi di nuovo
attorno a lei. I suoi occhi si aprirono e si ritrovò nella stanza del fratello.
Guardo Max per vedere se era tornato con lei. La mano di Max era ancora stretta
alla sua, ma i suoi occhi erano chiusi e il suo corpo rilassato.
Lei si alzò e lentamente lo fece sdraiare sul letto. Sapeva che sarebbe stato
in grado di uscire dal sogno per conto suo, ma voleva controllarlo ancora per
un po’, giusto per essere sicura che andasse tutto bene.
Stava quasi per girarsi ed andarsene, quando vide una macchia di bagnato sulla
camicia di suo fratello. Era certa che la sua camicia fosse asciutta, prima che
entrassero nel sogno, allora come aveva fatto a bagnarsi? All’improvviso la
colpì l’immagine di Liz che piangeva quando si erano uniti al suo sogno, e che
lei aveva appoggiato la faccia sul petto di Max, proprio all’altezza della
macchia. Era possibile? Lei non aveva mai avuto manifestazioni fisiche nel
mondo reale prima. La loro connessione poteva essere così forte da trascendere
il confine tra il mondo dei sogni e quello reale?
***
Max sentì che la stanza cominciava a sbiadire e si concentrò più forte per
mantenere la connessione con Liz. Voleva farla sentire al sicuro. Voleva
distogliere la sua mente dal terribile mondo in cui stava vivendo.
I suoi larghi occhi lo fissavano e lui si augurava di riuscire a portarla via
da lì. Le pareti cominciarono a scintillare ed il soffitto faceva posto al
notturno cielo stellato. Le stelle tremolavano contro il nero manto del cielo e
la luna quasi piena brillava su di loro. Max si guardò intorno nell’ambiente
familiare e sorrise. La squallida stanza in cui erano un momento prima, si era
trasformato nel confortevole terrazzo davanti alla finestra della camera di
Liz.
Max si ritrovò disteso sulla sdraio dove era stato tante volte dallo scorso
autunno. Liz era accoccolata accanto a lui e il sorriso sul suo viso gli
ricordava le sere trascorse assieme ad osservare le stelle.
Max passò le dita sulle guance di Liz, poi le loro bocche si unirono. Il sapore
delle sue labbra era dolce e la sensazione del suo corpo contro quello di lei,
lo faceva stare bene. Lentamente si allontanò da lei e i suoi occhi
scintillanti le sorrisero. “Non ancora.” sussurrò e poi la baciò sulla fronte.
Poi si alzò dalla sdraio e si avvicinò alla finestra. Saltò dentro e Liz lo
vide cercare qualcosa nella stanza. Improvvisamente le soffici note di Sarah
McLachlan arrivarono alle sue orecchie attraverso l’aria calda della notte e
Max riapparve alla finestra. Salì sul terrazzo ancora una volta e si fermò
davanti a lei con la mano tesa.
“Posso avere questo ballo?” le chiese e lei fece scivolare la sua mano su
quella di lui. La fece alzare e la guidò al centro del terrazzo. Il suo braccio
si posò intorno alla vita di Liz e la veste da ospedale si trasformò in un
liscio vestito di seta. Lui guardò il lungo, morbido abito e non poté fare a
meno di notare come carezzasse il suo corpo e come il profondo colore rosso si
intonasse alla sua pelle. Il corpetto le lasciava scoperte le spalle e i lunghi
capelli neri le ricadevano attorno sciolti.
“Non c’è niente di più bello al mondo di te. Liz.” le disse dolcemente
stringendola più vicino. La mano di Liz stringeva la sua e l’ avvicinava al suo
petto. Seguivano la musica mentre avevano gli occhi incollati l’uno all’altra.
Entrambi sapevano che il sogno sarebbe terminato molto presto, ma almeno per un
altro po’, tutto quello che esisteva erano loro due.
Continua...
Scritta
da Debbi aka Breathless
Traduzione italiana con il permesso dell'autrice dall'originale in inglese
a cura di Sirio, con la collaborazione di
Coccy85 |