Memento mori
Riassunto: se la serie si fosse conclusa dopo la terza stagione questo sarebbe stato un finale. Il mio.
Periodo di composizione: dal 7 marzo 2001 (così dice il mio computer) al 14 luglio 2002 (perché non ho avuto solo questo da fare)
Adatto: a chi ha voglia e pazienza di leggerlo; niente scene di sesso violento, per stavolta vi lascio a bocca asciutta. Giusto un po’ di sangue… non siate impressionabili: è tutto finto!
Disclaimer: ovviamente
nessuno dei personaggi della serie o la serie stessa è di mia proprietà, li ho
usati senza il permesso degli autori e non a fini di lucro… etc… etc… Ragazzi è
davvero deprimente! Quale diavolo sborserebbe un centesimo per leggere i deliri
di una fan di Jarod?!
Tutti i diritti del racconto sono di proprietà del sito "Jarod il Camaleonte
Italia".
NOTA DELL’AUTRICE: il racconto è stato scritto in fasi diverse della mia vita, durante le quali si sono susseguiti stati d’animo e sensazioni contrastanti. Vogliate tener presente che ho scritto questo racconto per me personalmente in primo luogo, per mantenere una parvenza di sanità mentale, ma spero comunque che vi piaccia, e che non vi annoi troppo. So che alcune parti vi ricorderanno alcune scene della quarta serie, ma la storia era stata sviluppata molto prima che cominciasse. Mi scuso se troverete patetiche certe cose, ma cercate di capire il mio punto di vista, dopotutto sono una ragazza e questa è la mia prima fanfiction. La storia si svolge come se la conclusione della terza stagione fosse la conclusione della serie intera e questo è il finale mancante. Buona lettura.
Prologo
«Jarod!» gridò Miss Parker «Fermati!»
Ma lui non le dava retta, anzi, correva più veloce che poteva, schivando e
scartando gli alberi uno dopo l'altro.
«Jarod!»
Jarod non si voltò, continuando dritto davanti a sé, fuggendo da quella voce
tanto perentoria quanto minacciosa.
«Jarod!»
Con la pistola in pugno Miss Parker seguitava a non perderlo di vista. Era la
sua grande occasione, come non ne aveva mai avute in passato: oramai mancavano
davvero pochi metri alla libertà, all'addio al Centro...
«Jarod!» Ma non serviva a nulla gridare, doveva prenderlo, afferrarlo,
atterrarlo, riportarlo al Centro. Doveva.
Era così vicina da sentire il fruscio della sua giacca ed il suo incessante
ansimare.
Da quanto tempo lo stava inseguendo nel bosco?
«Jarod!»
Una buca. Jarod la saltò, Miss Parker fece lo stesso.
Una radice. Jarod la evitò, Miss Parker fece lo stesso.
Gli alberi si facevano via, via meno fitti, segno che il bosco avrebbe in breve
lasciato il posto a... un dirupo non previsto nel piano di fuga di Jarod.
«Jarod!» Miss Parker lo aveva quasi raggiunto sull'orlo dello strapiombo, con un
sorriso di trionfo gli afferrò il braccio.
«Sei mio, genio! Ora si torna a casa.»
Ma lui non era dello stesso avviso.
Un elicottero sbucò sopra le cime degli alberi: un elicottero nero, senza
scritte o insegne, un elicottero del Centro, che non esitò a fare fuoco su di
loro.
Esistono tra noi individui straordinari,
dei simulatori, capaci di diventare chiunque vogliano essere.
Un'organizzazione chiamata "Il Centro"
ha isolato un giovane simulatore di nome Jarod
e ha sfruttato le sue capacità per le proprie ricerche.
Ma un giorno, Jarod fugge...
«Ma che diamine sta succedendo?»
«Chiedilo ai tuoi amici, Miss Parker!» le rispose Jarod spingendola all'interno
della boscaglia più fitta. Sentivano il ronzio assordante dell'elicottero sopra
di loro che li seguiva a vista e ogni qual volta ne aveva occasione sparava
qualche pallottola nelle loro vicinanze, ed ogni volta mirava sempre più vicino.
Si era alzato un vento gelido, e lo spostamento d'aria dell'elicottero spazzava
a terra i rami secchi, le foglie, le pigne, facendo paurosamente oscillare le
cime degli alberi.
«Jarod!»
«Per di qua!» Jarod la trascinò sulla destra.
«Che cosa hai in mente?»
Ad un tratto si fermò. L'elicottero si stava allontanando, ne era certo.
«Ma che ti prende?»
«Sh!» la zittì lui «Perché se ne vanno?»
Purtroppo la sua domanda non tardò a ricevere risposta: una decina di uomini
armati si facevano largo tra la boscaglia, pronti a sparare a vista, ed il loro
bersaglio era un simulatore fuggito dal Centro quattro anni prima.
«Miss Parker…»
«Si?!»
«… scappa!»
Tornarono entrambi sui loro passi in una corsa frenetica sino al dirupo. L'unica
loro possibilità di fuga era saltare. E lo fecero.
Jarod la afferrò per il braccio e la trascinò con sé, senza esitazione; sotto di
loro il pendio scosceso, gli alberi, i rami, le foglie, …
Ruzzolarono assieme lungo l’irta discesa, senza possibilità di arresto.
L’elicottero era ormai volato via, e ora si potevano distintamente udire i
rumori e gli ordini dei cecchini del Centro che gridavano, e nella foresta
riecheggiò la condanna: «Uccideteli! Non devono uscire vivi da questo bosco!»
La caduta si arrestò poco più giù, sotto le fronde degli abeti, su di uno
spinoso tappeto d’aghi.
«Tutto bene?» Se le fosse successo qualcosa per colpa sua non se lo sarebbe mai
perdonato.
«Si…» Si alzarono in piedi, entrambi apparentemente incolumi, a parte
escoriazioni varie, i capelli arruffati ed i vestiti infangati.
«Andiamo via di qui.»
Saggia decisione: pochi secondi dopo la squadra di cecchini era sulle loro
tracce nel bosco sottostante. Potevano sentire il loro scalpiccio alle loro
spalle, le considerazioni, gli ordini impartiti, sempre più vicini. Jarod e Miss
Parker non potevano far altro che correre dritto davanti a loro, cercando di non
lasciare tracce del loro passaggio, senza farsi scoprire. Corsero a perdifiato
finché non si sentirono al sicuro, lontani dagli spazzini, dal Centro, da tutto
ciò che era civiltà, in mezzo alla foresta, in mezzo al nulla.
Ansimando forte e senza più la forza di proseguire giunsero nei pressi di una
stradina sterrata che costeggiava un fiume di montagna. Era il crepuscolo. Miss
Parker si sedette sulla sponda erbosa del fiume, abbracciando le ginocchia e
sospirando: «Che cosa è successo? Per quale assurda ragione dovrebbero volere la
mia morte? … La tua poi?! Il Centro ti rivuole indietro vivo, o non se ne
farebbe nulla di un simulatore inutilizzabile!»
«Mpf… “simulatore inutilizzabile”?» replicò Jarod andandosi a sedere al suo
fianco.
Miss Parker si voltò divertita: «Scusa, non volevo degradarti, io… mi sono
espressa male.»
«È così che mi hai sempre considerato: una cavia da laboratorio? Un computer? …»
«Non avrei potuto dirlo meglio! … Non essere così melodrammatico! Jarod, so
quanto il Centro ti abbia fatto soffrire, la conosco la tua triste storia, -
commentò sarcastica - ma il mio compito è quello di riportarti al Centro, nulla
di più, nulla di meno, e non c’è niente di personale devi credermi!»
«Già, chi meglio di te?!»
Miss Parker sospirò: «Il tuo posto è al Centro.»
«Io non ti capisco: Sydney mi ha detto che volevi liberare Gemini, perché con me
dovrebbe essere diverso?»
Miss Parker non rispose. Strinse le labbra.
Trrrr. Trrrr. Trrrr. Entrambi scattarono in piedi. Trrrr. Trr… «Pronto?»
«Miss Parker,» bisbigliò la voce all’altro capo del telefonino cellulare.
«Broots! Che cosa fai? Dov’eravate tu e Sydney mentre ci sparavano addosso?»
«Perdonaci, ma ci siamo trovati davanti gli spazzini del Centro, ci hanno
puntato le armi contro, e ora stiamo viaggiando su di un furgone anonimo, e Dio
solo sa dove ci stanno portando! … Jarod è con te, state bene?»
«Si. Che cosa sta succedendo?»
«Vorremmo tanto saperlo anche noi, ma… ora ti devo lasciare… Ah, state attenti
a…»
«Broots! Broots! … Ma che ha questo coso?!» infuriata iniziò a sbattere il suo
telefono contro la mano.
«Finirai per romperlo, e ho l’impressione che ci servirà ancora.»
«È caduta la linea. Chissà cosa ha combinato quell’idiota di Broots.»
Jarod rise della cattiveria con cui trattava il suo povero collaboratore. Sapeva
che in fondo lo stimava molto per il suo prezioso aiuto e che avevano instaurato
una sorta di rapporto di amicizia, ma Miss Parker doveva pur sempre mantenere la
sua posizione di “donna di ghiaccio”.
Si guardarono intorno. Alberi, alberi, alberi, una stretta stradina sterrata che
si perdeva nel nulla in entrambe le direzioni perseguibili.
Un lontano cinguettio. Fruscii. Fruscii alle loro spalle. Silenzio.
Jarod sussultò. «Giù!» gridò, solo qualche istante prima che la sparatoria
avesse inizio. Si tuffarono nelle acque gelide del fiume quasi simultaneamente,
cercando di raggiungere l’altra sponda prima che la corrente li trascinasse via,
e fuggire nuovamente tra le protettrici fronde della macchia.
I proiettili sibilavano accanto alle loro tempie come aliti di morte e bucavano
l’acqua facendo tremare ogni loro speranza di salvezza.
La corrente li trasportava lontano, a valle. Erano salvi, almeno per ora.
Miss Parker conquistò la sponda, traendosi a fatica sulle rocce coperte di
muschio scivoloso che in quel tratto avevano occupato il posto dell’erba. Aiutò
Jarod.
Tossendo si trascinarono nel più fitto del verde.
«Dove siamo?»
«Più a valle di quanto non fossimo prima.»
«Grande intuizione ragazzo prodigio!» sbraitò con una smorfia.
«Stai perdendo sangue.»
«Dove?» fece stupita Miss Parker.
Jarod si avvicinò, prendendole il viso tra le mani e rigirandolo delicatamente:
«Hai una ferita sulla fronte, poco sopra il sopracciglio… devono averti colpito
di striscio con una pallottola. Ti fa male la testa?»
«No.» rispose liberandosi dalla presa e tastandosi la fronte. Si sporcò le dita
di sangue, con l’unico risultato che il dolce liquido purpureo scese più
copiosamente e un dolore lancinante le invase l’emisfero destro.
«Lasciati stare, non è molto grave, ma dovremmo disinfettarla e fasciarla.»
«Ah, si?! E con che cosa, genio?»
Miss Parker tornò al fiume, non prima di essersi assicurata che gli assassini
del Centro non fossero nei paraggi, ed immerse il viso nell’acqua gelata.
Il tramonto era passato da quasi un’ora e l’aria iniziava a farsi pungente.
Nell’agguato il telefono cellulare era andato perso e Jarod e Miss Parker non
avevano più smesso di camminare, in silenzio, l’uno accanto all’altra. Ogni
tanto sbirciavano alle loro spalle, ma Jarod era quasi convinto che la squadra
di spazzini avesse abbandonato l’inseguimento. Almeno per quella notte.
«Dove stiamo andando?»
«Incontro al destino, Miss Parker»
«…»
Jarod si voltò a guardarla. Era pallida.
«Non hai la minima idea di dove siamo?» chiese lei.
Jarod pensò un istante. «Probabilmente dietro quella montagna c’è una strada
statale, non credo che ci passino molte auto e comunque non è consigliabile
andarci, rischieremmo di trovarci in una nuova imboscata. Ma da qualche parte
qui intorno c’è una baita: il mio rifugio per questa settimana; se riuscissimo a
raggiungerla potremmo medicarti la ferita alla testa e mettere un po’ d’ordine a
tutta questa… strana faccenda.»
«È così buio.» mormorò Miss Parker scavalcando un ramo caduto.
“Già” pensò Jarod.
L’aria della sera spazzava le cime degli alberi lasciando scivolare al suolo
foglie ed aghi che andavano a coprire il loro cammino.
Erano tutti bagnati e gocciolanti, infreddoliti e disorientati. Dove e a che
cosa li avrebbe portati quell’inutile fuga? La ricerca della libertà, la volontà
di vivere, la speranza di una vita normale, sembravano ogni giorno sempre più
irraggiungibili, sia per l’uno che per l’altra. Erano stanchi di attendere il
destino. Ora stava solo a loro decidere se fuggirlo o inseguirlo.
La tenue luce lunare che riusciva a filtrare tra il fitto dei rami permetteva
ben poca chiarezza nella traduzione dei segnali che Jarod aveva lasciato
nascosti sui tronchi per ritrovare la baita. E alla luce lunare appariva così
fragile Miss Parker.
«Ci siamo quasi! È laggiù!» esultò Jarod.
Miss Parker sorrise inconsapevolmente ascoltando l’infantile entusiasmo che solo
Jarod riusciva a trasmetterle. Per un istante tornò bambina. E mentre Jarod già
si affrettava verso la piccola costruzione di legno, la sua vista venne meno, le
girava la testa, fece un passo in avanti, barcollò, cadde.
Le tenui ombre dipinte sul suo viso lasciavano trasparire dalla sua espressione
una spontanea gentilezza, che non le apparteneva abitualmente; ma quel candido
pallore l’aveva trasformata. Sembrava così graziosa, e fragile.
Tentò delicatamente di disinfettarle la ferita con un batuffolo di cotone, ma
Miss Parker girò il capo di scatto al primo contatto. Strizzando gli occhi
gemette di dolore.
«Scusa. Stai ferma, farò in un attimo.»
«Brucia.» si lamentò.
«Resisti.» Lentamente le pose una benda attorno alla testa, fermandola con un
paio di garze a cerotto.
«Ahi!»
«Ho fatto!»
Miss Parker era stesa sul divanetto accanto al fuoco che Jarod aveva acceso nel
camino della baita. Era ancora scossa da brividi. Jarod sparì per pochi minuti
nella penombra, e tornò con un paio di jeans ed una felpa che le porse,
indicandole il bagno: «Sistemati, togliti i vestiti bagnati e… metti questi. Non
sono di Armani, ma è il meglio che ti posso offrire.»
Miss Parker si alzò e raggiunse faticosamente la porta del bagno.
«Vuoi una mano?» chiese Jarod
«No, grazie!» rispose acida lei. Ma sorrise maliziosamente chiudendosi la porta
alle spalle.
Non era stato prudente accendere il fuoco, i cecchini del Centro avrebbero
potuto localizzarli, ma si era alzato il vento, e qualche goccia già iniziava a
cadere. Molto presto si sarebbe trasformato in un grosso temporale, a giudicare
dai lampi e dai tuoni che ne anticipavano l’arrivo. La luna aveva ceduto il
posto a dense nubi opprimenti che schiacciavano al suolo le svettanti e
ondeggianti cime dei pini. La montagna si preparava ad essere investita da un
diluvio.
Con uno scricchiolio sinistro si riaperse la porta del bagno. Jarod sorrise.
«È enorme.» sentenziò Miss Parker cercando di raggruppare le maniche della felpa
al di sopra delle dita, mentre i pantaloni le scivolavano dai fianchi ed era
costretta a sostenerli con una mano.
Jarod le si avvicinò portandole sulle spalle una coperta di lana. Si accorse che
tremava, e che faceva un enorme sforzo a reggersi in piedi.
«Ti fa male la testa?»
«No!» rispose lei, forse un po’ troppo in fretta: Jarod comprese il suo vano
tentativo di salvare la sua fama di imperturbabile, ed era riuscita ad
ingannarlo per tutta la sera, ma ora, era evidente, la febbre stava salendo.
«È solo un capogiro.» continuò Miss Parker mentre le sue gote si tingevano.
«Faresti meglio a stenderti.» la accompagnò al divano. Un sereno tepore e uno
strepitio appena accennato e il profumo del legno. Ma non riusciva a godere di
nulla in quel momento: qualcuno voleva ucciderla; e, cosa ancora più
impensabile, volevano uccidere Jarod contravvenendo alle direttive del
Triumvirato.
La testa le doleva terribilmente, ma non voleva che Jarod se ne accorgesse, non
voleva che se ne preoccupasse. Non riusciva a credere di trovarsi con lui dopo
tanto tempo, dopo che aveva cercato di catturarlo tante volte senza successo;
ora, quando meno se lo sarebbe aspettato, Jarod era lì tutto per lei.
«Chi sapeva che saresti venuta qui a cercarmi?»
«Lo sapeva… bhè, credo che lo sapessero tutti.»
«Tutti chi?»
«Mio padre, Raines, Brigitte, Lyle, … Sydney e Broots erano con me quando siamo
arrivati, poi sei scappato per il bosco, ti ho inseguito e… non c’erano più.»
Jarod pensò per qualche istante: «Forse sono stati fermati dagli uomini del
Centro prima di noi, e quindi portati via. Spero solo che stiano bene.»
«Chi credi che sia il mandante?»
Miss Parker ritirò i piedi lasciando a Jarod lo spazio per sedersi.
«Non so chi, ognuno di loro ha un valido motivo per eliminarci, ed è proprio
questo che dobbiamo inquadrare: il perché.»
«Come facevano a sapere che eravamo in riva al fiume? Credi che ci abbiano
seguito in silenzio per coglierci di sorpresa?»
«Non ha alcun senso: se ci volevano uccidere, perché aspettare?! … a meno che
non sapessero esattamente la nostra posizione in qualunque momento.»
«Come?»
Il sospetto s’insinuò nel loro pensiero deridendo la loro ingenuità.
««Una spia. Una cimice!»
«Nei miei abiti?! E come avrebbero fatto?»
Jarod recuperò in bagno il tailleur grigio fumo, frugando le tasche, i risvolti
del collo, gli orli, … Una piccola, minuscola spia infilata in un bottone rivelò
la sua presenza svelando il mistero.
«Jarod… allora anche adesso sanno dove siamo!»
Però avevano il tempo dalla loro parte: nessun elicottero avrebbe potuto alzarsi
da terra con quelle condizioni atmosferiche, si stava scatenando una vera e
propria tempesta là fuori, nessuno si sarebbe avventurato per il bosco al loro
inseguimento.
Potevano davvero stare tranquilli?
D’altra parte nemmeno loro potevano muoversi; erano costretti nella piccola
costruzione in legno protetta tra gli alberi. All’esterno il vento gelido
scuoteva i rami e qualcuno di questi franava al suolo, sguazzando sul terreno
fangoso.
«Siamo sicuri che questa baracca reggerà?» chiese la donna guardandosi intorno
non troppo fiduciosa.
Miss Parker stava male, Jarod lo leggeva nel suo sguardo.
C’era freddo, il fuoco non bastava a scaldare l’ambiente, anche se piccolo.
Jarod si alzò e raggiunse la finestra. Se la febbre di Miss Parker fosse
peggiorata non avrebbe avuto nulla con cui curarla, inoltre nella sua scatola
per le emergenze non rimaneva garza a sufficienza per una nuova fasciatura alla
testa. Doveva portarla all’ospedale. Come?
Jarod osservava i fusti degli alberi tremolare come fili d’erba piegati dal
vento, la pioggia si scaraventava furente sui vetri e sul tetto, guidata dalle
folate che si facevano via, via più violente.
Tornò a posare lo sguardo sul viso di Miss Parker, le gote rosse per la febbre.
Tremava. Gli occhi chiusi. Rannicchiata in un canto del divanetto. Avvolta in
una coperta di lana. Sembrava una bimba, la stessa che aveva incontrato per la
prima volta al Centro.
Chi poteva essere tanto crudele da volere la sua morte?! Miss Parker non era
cattiva come voleva far credere, e Jarod questo lo aveva sempre saputo. E forse
era per questo che ora rischiava la vita.
Le si avvicinò lentamente sfiorandole la fronte calda. Doveva trovare il modo di
proteggerla… e di salvare sé stesso dal Centro.
La pioggia cadeva ancora incessantemente al suolo, quando Jarod e Miss Parker si
avventurarono tra i boschi dopo un’intera notte di tempesta passata nella baita
scricchiolante. Ovunque c’erano arbusti e rami spezzati, fango, melma, acqua;
lentamente superarono la cima della montagna sotto la pioggia battente,
arrampicandosi su scivolosi pendii o rocce coperte dal muschio.
Erano in cammino dall’alba, vale a dire da quando Jarod aveva costretto Miss
Parker a trascinarsi fuori.
Miss Parker non stava affatto meglio della sera precedente, non riusciva a
reggersi in piedi, le girava la testa, aveva la febbre alta, la ferita alla
testa le sanguinava ancora, tremava ed era pallidissima. Jarod la teneva per
mano per aiutarla nella salita.
Il Centro li avrebbe trovati. Dovevano fare presto, raggiungere il motel sulla
statale il più in fretta possibile: la padrona li avrebbe di sicuro nascosti,
Jarod l’aveva aiutata una settimana prima a ritrovare il figlio scomparso.
«Jarod…»
«Si?»
«Io… aspetta, non ce la faccio più.»
Miss Parker non aveva la forza di guardarlo negli occhi. Era un’ammissione
dolorosa per lei, così orgogliosa, ma ciò significava che era davvero allo
strenuo delle forze.
Jarod si fermò di fronte a lei. Una sosta avrebbe comportato la perdita di un
po’ di quel vantaggio che avevano accumulato. Erano entrambi bagnati da capo a
piedi, gocciolanti ed infreddoliti.
«Ti prego.» implorò la donna.
«Ormai manca davvero poco…»
Jarod la guardò negli occhi. Due lucidi occhioni grigio-azzurri, severi e
sconsolati allo stesso tempo. Come poteva rifiutarsi?!
Dopo aver trovato la cimice nel vestito di Miss Parker, Jarod aveva staccato il
bottone e l’aveva legato con dello spago alla zampa di un uccellino che aveva
poi lasciato libero nella foresta. Sperava così di guadagnare qualche minuto, ma
non sarebbe servito più di tanto, avrebbero scoperto in fretta il trucco.
Dovevano sbrigarsi.
Impiegarono più di due ore per raggiungere la strada statale di cui Jarod aveva
parlato. E non erano ancora in salvo.
Tremavano entrambi, lui per il freddo, lei per la febbre. Non c’era nessuno in
vista, ma era sempre meglio essere prudenti: si mantenevano un po’ scostati dal
ciglio della strada, tra la vegetazione, più riparati dalla pioggia dagli
alberi, camminavano in mezzo alla fanghiglia, con zaino ed impermeabile sulle
spalle.
«Sei stanca?»
«Un po’.»
«Vuoi che ci fermiamo di nuovo? tanto ormai manca poco.»
«No, no… tanto ormai manca poco.» ripeté.
Ed era vero, mancavano solo un paio di miglia al motel, quando qualcuno sparò
nella loro direzione.
Erano di nuovo i cecchini del Centro.
Si accucciarono tra l’erba, cercando di capire la provenienza della pallottola,
ma altre pallottole piovvero loro addosso, da tutte le parti. Era il caso di
mettersi al riparo, ma dove? Non c’era nulla lì attorno!
Miss Parker estrasse la pistola dalla fondina e si preparò a rispondere al fuoco
cercando di mantenere lucida la sua vista. Jarod le teneva stretto il braccio
sinistro, e lentamente scivolavano verso l’interno del bosco.
Ancora spari, si misero a correre. Sempre più veloce, per quanto potevano. La
volontà di vivere superava ogni stanchezza e ogni malattia, e li spingeva ad una
impossibile sfida intrapresa contro la morte, una lotta sfrenata al destino che
inesorabile si sarebbe abbattuto su di loro impugnando una falce. L’ultimo
giorno era stato segnato. Ma non volevano ancora arrendersi all’evidenza.
«Fermi!» gridò uno dei cecchini parandosi di fronte a loro con l’arma in pugno.
Jarod e Miss Parker si bloccarono. Uno sparo.
«No!» mentre un secondo sparo riecheggiava nell’aria schiumosa del bosco.
Broots passeggiava nervosamente su e giù per la cella nella quale erano
rinchiusi lui e Sydney, impaziente di sapere che cosa stava succedendo
all’esterno e preoccupato per ciò che sarebbe accaduto loro nei prossimi minuti.
Sydney era pazientemente seduto su una branda sfondata.
«Ma come fai ad essere tanto calmo? - sbraitò Broots - È incredibile, potrebbero
anche ucciderci e tu te ne stai lì come se niente fosse a rigirarti i pollici!»
«Chi ha detto che ci uccideranno?»
«Nessuno, ma… Ci hanno sequestrato in un bosco, caricati come merce su un
furgone anonimo, sballottati chissà dove, e rinchiusi in questa… come la
chiameresti? Cella?! Prigione?! - riassunse - E tu insisti ancora a
tranquillizzarmi dicendomi che non ci uccideranno?! E invece è proprio ciò che
faranno! - fece sconsolato - È incredibile: non rivedrò mai più la mia Debbie!»
e così dicendo si sedette accanto a Sydney con le mani fra i capelli, quelli che
gli rimanevano.
Sydney sospirò: «Non essere tanto tragico.»
«Ah no! Perché diavolo ci avrebbero… rapito se…»
«Stia tranquillo signor Broots.» rantolò un’ombra sulla soglia della cella.
Broots e Sydney si voltarono di scatto verso la porta che si era improvvisamente
aperta. Mr Raines entrò lentamente trascinandosi dietro la sua fidata bombola
d’ossigeno.
«Mr Raines!» esclamò.
«Sorpresa.» fece con poco entusiasmo.
Dietro di lui si schierarono in fila a scudo della porta tre dei suoi uomini.
«Che cosa significa tutto questo? Dove sono Jarod e Miss Parker?» domandò Sydney
alzandosi.
«Oh, non si preoccupi di Jarod e Miss Parker, in questo momento ha cose molto
più importanti a cui badare. E in ogni caso presto ci raggiungeranno: i miei
uomini se ne stanno già occupando.» Detto questo, con un cenno dell’indice
destro chiamò avanti uno degli spazzini e gli impartì segreti comandi. L’uomo se
ne andò.
«Ora voglio sapere esattamente che cosa sa Jarod di Adam.»
Jarod era a terra, ma incolume, invece il cecchino del Centro aveva un braccio
grondante di sangue e gridava per il dolore.
«Jarod?» Miss Parker gli si avvicinò per aiutarlo ad alzarsi.
«Che dire… sono felice che ora tu sia dalla mia parte! - commentò sfilando dalle
mani insanguinate dell’uomo la pistola che gli era stata puntata contro: -
Questa la prendo io!»
Continuarono la loro frenetica fuga per i boschi trascinandosi dietro lo
spazzino ferito.
Camminarono lungo il fiume che li aveva salvati la sera prima tenendo l’ostaggio
sotto tiro: «Chi ti manda? Per chi lavori?»
Silenzio.
«Non ti conviene fingere il muto, perché rischi di diventarlo realmente! Parla!»
L’uomo strinse i denti. Se avesse parlato lo avrebbero ucciso.
«Lasciami indovinare: Raines?» ipotizzò Miss Parker.
«Perché ci vuole uccidere?»
«Non servite più.»
Che cosa significava? Che cosa intendeva dire con “Non servite più”?
«Adam…?» bisbigliò fra sé Jarod. Mai come prima d’allora si era sentito
arrabbiato.
«Allora avevo ragione: quel verme, … cadavere ambulante di Raines! Asmatico
figlio di…! - lo maledisse Miss Parker - Sdraiati qui!» ordinò al cecchino.
«Che cosa vuole fare?» fece allarmato l’uomo vestito di nero.
«Non preoccuparti per il tuo fondoschiena, pivello, voglio solo che ora tu ti
metta sdraiato a pancia in giù.»
L’uomo eseguì riluttante. Si sdraiò lentamente sulla sponda del fiume con le
mani alzate sulla nuca, infangandosi i vestiti e sporcandosi la faccia. Miss
Parker lo osservò divertita per qualche istante, poi gli posò un piede sulla
schiena e lo spinse con un calcio deciso di fronte e sé. La melma la aiutò e un
istante dopo lo spazzino era scivolato dritto nell’acqua schiumosa e gelida del
fiume.
Jarod rise: «Speriamo che sappia nuotare. Miss Parker, andiamo.»
«Hai qualche idea per sfuggire al blocco?»
«Non possiamo fare altro che tenerci nel bosco, per ora.» La pioggia non era di
grande aiuto; certo, non era una tempesta come quella della sera prima, ma di
sicuro non era di alcun giovamento per la febbre di Miss Parker.
«Ci troveranno.»
«Non pensarci.»
«Come sarebbe a dire, Jarod!?»
Lui camminava velocemente, spostando i rami degli alberi che pendevano
sgocciolando sulla sua persona; e tutti i rami che così scostava finivano
immancabilmente per arrivare sulla faccia di lei, che arrancava alle sue spalle.
Avrebbe voluto tirargli un pugno in viso dalla rabbia, lo odiava quando assumeva
quell’aria di superiorità.
«Jarod!»
Lui si voltò di scatto nello stesso istante in cui un lampo ruppe il silenzio
della foresta che li circondava: nella luce bianca che illuminò tutto d’un
tratto il suo sguardo Jarod apparve incredibilmente imponente e severo, quasi
indemoniato. I suoi occhi ed il suo viso, bagnati di pioggia, lasciavano
trasparire una dolce vena di follia, che, per quanto potesse ricordare, gli era
sempre appartenuta, e che costituiva una parte importante del suo fascino. Jarod
la trasse a sé stringendole le spalle: «Non capisci perché non hanno più bisogno
di noi?! Perché hanno trovato qualcun altro! Un altro simulatore! Un altro
bambino strappato alla sua infanzia! Un’altra vita distrutta!» gridò
scuotendola.
Miss Parker rabbrividì, di freddo, di paura, di tensione. «Come lo sai Jarod?»
Lui la lasciò. Ora il suo sguardo era di nuovo quello sornione di sempre, con
circospezione si guardava attorno. Alberi.
«… Lo so perché mi sono imbattuto in un file protetto tra le cartelle di Raines,
l’ultima volta che sono entrato nel sistema del Centro: cercavo notizie sul mio
passato e ho trovato un file denominato “Adam”, e che per quanto sono riuscito a
capire riguarda un bambino di tre anni con doti particolari.»
«Doti che Raines ha intenzione di sfruttare per creare un suo simulatore?»
concluse Miss Parker.
Jarod asserì silenziosamente. Non poteva assolutamente permettere che ciò che
gli era successo si ripetesse. Aveva giurato che nessuno più avrebbe vissuto
come lui.
Miss Parker lo guardava in silenzio.
«Ti prego, … ti prego dimmi che tu non lo permetteresti mai.» la supplicò.
«Jarod…»
«Tua madre non l’avrebbe mai accettato. Lei voleva liberare me ed altri sette
bambini, e avrebbe cercato di impedirlo anche stavolta, ne sono certo… Dimmi che
sei con me.»
«Ma certo.»
«Glielo ripeto, Raines, non sappiamo nemmeno di che cosa stia parlando!» sbottò
Sydney.
L’uomo si ergeva minaccioso su di lui, coprendo la luce con la sua ombra: «Non
ti credo. So per certo che hai avuto una conversazione telefonica con Jarod la
sera che è penetrato nel computer centrale del Centro. Ora voglio sapere che
cosa vi siete detti?»
«Jarod non mi ha parlato del Centro.»
«Sei un bugiardo Sydney. Stai solo cercando di proteggere il tuo pupillo, ma non
ti servirà a nulla, perché ormai è troppo tardi, per lui e per Miss Parker.»
«Che cosa intende con “troppo tardi”? cosa vuole fare?» intervenne Broots
alzandosi in piedi.
«Lo scoprirete presto… se non vi deciderete a collaborare.»
Sydney rimase pensieroso sulla branda disfatta. Jarod era in pericolo, e si era
trascinato dietro anche Miss Parker. La situazione si delineava sempre più
delicata. Jarod rischiava di essere ucciso, Raines sapeva che aveva scoperto
Adam, e gli avrebbe impedito di salvarlo, anche a costo di ucciderlo: ora aveva
la possibilità di crearsi un simulatore tutto suo, libero da vincoli con il
Triumvirato poiché esterno al Centro. Sebbene avesse intenzione di adoperarne le
strutture, il suo lavoro con Adam non avrebbe figurato tra i suoi esperimenti
per il Centro. Adam sarebbe stato una sua creazione.
Adam era soltanto suo.
«Non ti illudere Sydney. Questa volta Jarod non ha scampo: non riuscirà a
rubarmi anche Adam.»
«Ne parli come se ti appartenesse. Dì, Raines, che cosa vuoi realizzare con
Adam?»
«Dunque tu conosci Adam!» sorrise l’uomo spalancando i suoi occhi grigi a palla.
«Io non ho detto questo, ma suppongo che si tratti di un nuovo simulatore:
siccome Jarod è riuscito a sottrarti, o a “rubarti” il suo clone hai intenzione
di riprovare con un altro bambino. Dico bene?»
«Jarod non mi avrebbe mai sottratto il ragazzo se tutti voi, compresa Miss
Parker, non lo aveste aiutato. E ora voglio impedire a voi tutti di ripetere una
simile sciocchezza.»
Broots sbiadì paurosamente e tornò a sedersi accanto a Sydney. Ora tremava di
paura e di rabbia: non avrebbe più rivisto la sua cara Debbie.
Raines si diresse verso la porta della cella con passo lento ed affaticato,
trascinando con sé la bombola d’ossigeno che cigolava fastidiosamente.
«Quando Adam sarà qui Jarod e la Parker saranno solo un doloroso ricordo… grazie
a voi.»
Uscì facendo chiudere a chiave la stanza da uno dei suoi uomini in nero.
«Sydney! - fece concitatamente Broots - Che cosa vuol dire “grazie a noi”? Jarod
e Miss Parker… Loro…» Non riuscì a concludere la frase.
«Raines li vuole morti.»
«Ci riuscirà?»
«Non lo so. Non dobbiamo sottovalutare Jarod, ma Raines sembra davvero pronto a
tutto. … “grazie a noi”… che cosa avrà voluto dire?»
«Sei pronta?»
Miss Parker fece cenno affermativo col capo.
Erano sul ciglio della statale, di fronte ad una diramazione stradale che li
avrebbe condotti dalla signora che Jarod aveva aiutato la settimana prima.
Avevano evitato accuratamente le sentinelle del Centro camminando tra la
boscaglia più fitta. Aveva da poco smesso di piovere, e dagli alberi ancora
gocciolava acqua piovana, che scendeva a carezzare fastidiosamente la loro
figura.
Il bendaggio sulla fronte di Miss Parker era oramai zuppo di sangue. La ferita
le faceva girare la testa, ma non potevano fermarsi, nemmeno un istante.
Dovevano attraversare la strada e raggiungere il motel in fondo al sentiero
sterrato, pochi metri più a sud. Allora e solo allora avrebbero tirato un
sospiro di sollievo. Ma non potevano rischiare di farsi scoprire proprio ora.
«Jarod, …»
«Manca poco.»
Rapidamente lui la prese per mano e la trattenne al suo fianco, spingendola
delicatamente.
Con pochi passi furono dalla parte opposta. Intrapresero la camminata
costeggiando il sentiero all’interno del bosco, coperti dagli alberi, e giunsero
finalmente al motel.
Era segnalato da una striscia luminosa posta sulla tettoia del porticato, e
pubblicizzato qualche chilometro prima sulla statale. Si avvicinarono
cautamente: c’erano delle auto nere parcheggiate nel piazzale, auto del Centro.
«Adesso che facciamo genio?»
«Sono sicuro che la signora Dealy ci coprirà.»
Pochi secondi più tardi una squadra di spazzini uscì dal locale, salì in auto e
se ne andò sgommando.
Jarod e Miss Parker uscirono furtivamente, sbirciando all’interno della
reception. Nessuno.
«Jarod!» gridò una voce alle loro spalle.
Si voltarono di scatto: «Mikey! - Un bimbetto color cioccolato gli corse
incontro tuffandosi a braccia aperte su di lui. Jarod lo afferrò al volo: -
Mikey! Dov’è la mamma?»
«Sono qui Jarod.»
La madre era una giovane donna di colore, con i capelli neri raccolti in tante
minuscole treccioline che aveva legato in una coda morbida. Aveva un’espressione
dolcissima e sorrideva.
«Grazie al cielo stai bene, sono così felice di rivederti! - continuò
raggiungendo il figlio - Sono passati alcuni signori a cercarti, proprio come mi
avevi detto, li ho mandati via.»
«Hai fatto bene, Michelle.»
La ragazza squadrò Miss Parker: «Ma che cosa vi è successo?»
Miss Parker le lanciò un’occhiataccia.
«Ci siamo imbattuti in quelli che hai mandato via. - spiegò Jarod - Michelle, ci
potresti aiutare?»
«Certo.»
Entrarono.
La stanza era piccola, ma confortevole ed accogliente, con carta da parati rosa
antico ed un motivo floreale in rosso scuro, e mobili in legno di quercia. Un
letto a due piazze, una scrivania, una poltrona e un armadio. Il bagno era sulla
destra.
«Scusatemi, non è molto, ma è l’unica stanza con due uscite, se… per caso
dovesse servire… Io sono sempre a disposizione, sopra la reception.»
«Non preoccuparti Michelle, è perfetta.» rispose Jarod osservando sorridendo la
stanza da letto.
«Certo, se non c’è di meglio.» bisbigliò acidamente Miss Parker con le mani
incrociate sul petto.
Dopo essersi asciugati e cambiati con alcuni vestiti che molto gentilmente aveva
prestato loro Michelle, Jarod sistemò il suo portatile sulla scrivania e la
Parker si coricò finalmente sul letto.
«Aspetta, fammi vedere prima quella ferita.»
Sospirando Jarod le tolse il bendaggio sporco di sangue. La pallottola non era
stata devastante, ma nemmeno troppo gentile: la cute era lacerata abbastanza in
profondità da richiedere l’intervento di punti di sutura. Sfortunatamente Jarod
non aveva il necessario alla baita, e trascorse più di sei ore dall’incidente il
rischio di infezione non consentiva l’applicazione di tali punti. Jarod le
fasciò la testa con della garza pulita, dopodiché le provò la temperatura
corporea. La febbre non la abbandonava un istante, e aumentava di ora in ora.
«Resterà la cicatrice?» chiese allarmata Miss Parker.
«No… o per lo meno non si vedrà molto. - la rassicurò - Perché non prendi un po’
d’antibiotico prima di dormire?»
«Non voglio nessuna medicina: voglio essere sveglia e lucida quando ammazzerò
quel figlio di un cane di Raines!»
Jarod sorrise amaramente.
«Se non ti curerai non riuscirai a muovere un solo passo fuori di qui.»
Spazientita si girò dall’altra parte. Aveva ragione, forse, ma… Cedette: afferrò
il bicchiere che lui le porgeva e trangugiò tutto il liquido rossastro con una
smorfia di disgusto.
«Ah, ah! - rise Jarod - Ora dormi, ti farà bene.»
«E tu, cosa farai?»
«Cercherò informazioni su Adam, e vedrò cosa fare per non incorrere più nei
cecchini di Raines.»
Miss Parker si sistemò meglio tra le coperte.
«Che cosa intendi fare? Vuoi salvare il bambino?»
«Non possiamo fare altro.»
Sbuffando Miss Parker si rigirò nel letto.
Jarod alzò gli occhi dal computer per osservarla. Era stata irriconoscibile in
quelle ore trascorse, distesa tra le coperte con gli occhi chiusi e
l’espressione rilassata non sembrava affatto la donna di ghiaccio che aveva
sempre dimostrato di essere. Qualcosa lampeggiò sullo schermo, attirò di nuovo
l’attenzione su di sé: la ricerca aveva dato i suoi frutti ed aveva incontrato
un file protetto denominato “Adam”.
«Bingo!» sussurrò.
Purtroppo il file era stato inserito in un programma di protezione ideato da
Broots che faceva scattare un allarme al primo tentativo di apertura. Una volta
scoperta la sua presenza nel sistema il Centro l’avrebbe estromesso entro pochi
minuti, ma poteva contare sulla momentanea mancanza dell’ideatore, e senza di
lui sicuramente avrebbe avuto più tempo per curiosare tra le pagine di Adam.
«Che cosa stai facendo?»
«Ben svegliata, Miss Parker. Vieni a vedere, ho appena trovato la gallina dalle
uova d’oro!»
«Adam?» Si mise a sedere sul letto rovesciando le coperte.
Jarod voltò leggermente lo schermo verso di lei.
«Che aspetti, aprilo!»
La pagina iniziale di Adam apparì sotto i loro occhi: una fotografia a colori di
un bambino, di poco più di tre anni, occhi verdi vivacissimi, pelle chiara,
capelli castani scompigliati, sorridente.
«Ma è piccolissimo!» costatò Miss Parker.
«Addestrali sin da piccoli e ti obbediranno meglio. Credi che a Raines importi
qualcosa di lui?! Io avevo quattro anni quando mi hanno sottratto ai miei
genitori.»
Una brevissima biografia collocava la sua nascita nello stato del Montana, da
madre Veronica e padre Joshua, entrambi deceduti il mese scorso.
«Opera del Centro, scommetto.» commentò Jarod guardando Miss Parker con la coda
dell’occhio. Lei inarcò le sopracciglia e continuò a leggere: “ospite
dell’orfanotrofio di Whitehall sino al 10/15…”
«…Che giorno è oggi?»
«Giovedì 15 ottobre.»
Si guardarono negli occhi, pensando entrambi la medesima cosa, e cioè che se non
si fossero mossi per tempo quel bambino sorridente sarebbe stato perso per
sempre.
In quel mentre il terminale di Jarod fu estromesso dal sistema.
Il Centro aspettava già Adam. A che ora avevano appuntamento gli uomini di
Raines a Whitehall? E dove l’avrebbero portato dopo?
«Jarod si è inserito nuovamente nel computer centrale del Centro. Vogliamo
sapere come ha fatto, e che cosa può avere scoperto.»
Broots era legato mani e piedi ad uno scomodissimo sgabello di ferro, con la
pancia contro le gambe e le ginocchia sotto il mento. Gocciolava abbondantemente
di sudore per i soffioni di aria calda che aveva puntati addosso. L’odore fetido
di fogna e rifiuti invadeva la stanza e pungeva le sue narici ogni qual volta il
lento roteare delle pale di uno stanco ventilatore mandava nella sua direzione
folate di asfissiante aria calda. Si sentiva prigioniero di un phon. Aveva i
pantaloni bagnati e la gola secca. In più non sapeva come giustificare il
fallimento del suo programma di sicurezza senza offenderli; la colpa era stata
principalmente loro se Jarod era in qualche modo riuscito a carpire informazioni
dal computer centrale. Soprattutto la sua mancanza aveva contribuito a far sì
che avesse più tempo a disposizione, … ma come dirlo a qualcuno che potrebbe
ucciderti all’istante, o peggio ancora potrebbe uccidere tua figlia?
Broots tossì raucamente: «Dunque… avrei bisogno di un po’ d’acqua… se… se non vi
dispiace… troppo.»
Lo spazzino del Centro si sollevò dal muro e gli andò alle spalle con passo
pesantemente minaccioso. Si chinò su di lui per gridargli nell’orecchio: «Ah!
Vuoi dell’acqua?! Danny, il pidocchio vuole dell’acqua!» ridacchiò.
Danny era evidentemente fuori della porta alle sue spalle e poco dopo la aprì
con un cigolio acusticamente insopportabile.
L’acqua arrivò: una secchiata atterrò sulla sua spina dorsale con tutta la
violenza necessaria ad annullare ogni effetto di sollievo che in quelle
condizioni il ricevere una rinfrescata comportava.
«Ti è bastata l’acqua?» chiese sarcastico l’uomo in nero.
Broots fece cenno affermativo colla testa, tentando di raccogliere con la lingua
le gocce che cadevano dal naso e dalle gote. Jarod era entrato nel computer
centrale. Perché?
«Allora, ti vuoi decidere a collaborare?»
«Che cosa volete sapere?»
«Che cosa sa Jarod?»
Broots tremava di paura e timidamente azzardò: «Ma come faccio io a saperlo?!»
L’uomo sorrise e sparì alle sue spalle. Pochi istanti dopo fu di ritorno con un
carrello ed un computer su di esso.
«Ora rispondimi: che cosa sa Jarod?»
«Sai, Miss Parker, ci ho pensato parecchio mentre dormivi…»
«A cosa?» gli chiese lei mantenendo lo sguardo sulla carta stradale.
Si stavano dirigendo a nord, a Whitehall, sulla strada statale che secondo loro
era la più diretta.
«A tutta questa faccenda: se davvero mi vogliono ammazzare per quel bambino…
bhè, posso anche capirli, dopotutto ho sottratto loro me stesso, Davy Simpkins e
Gemini, sono decisamente scomodo, ma… tu invece, che cosa hai fatto per farti
odiare tanto?»
«Bhè, che motivo ha Raines per fare quello che fa?!»
«Non credo che Raines voglia ucciderti per divertimento. - un breve sguardo a
destra: Miss Parker seguitava a fissare la carta - La mia sensazione è che tu
non me la racconti giusta: c’è di più sotto, e voglio sapere cosa!»
Silenzio. Miss Parker piegò in malo modo la mappa stradale e sospirò voltandosi
verso il guidatore: «Sentiamo, ragazzo d’oro, che cosa credi che nasconda?»
«Dimmelo tu»
«…» Miss Parker esitò, rimase a labbra semichiuse, nell’intento di esprimersi,
ma senza successo. Alla fine rinunciò e si rimise appoggiata allo schienale.
Jarod rallentò improvvisamente.
«Ma che fai!?»
«C’è una pattuglia, dietro quel cespuglio, se ci ferma la polizia addio Adam!»
«… Jarod, … si, hai ragione, il motivo per cui quello schifoso residuo d’umano
mi vuole morta… non è il bambino, né una sua vendetta personale… o almeno non
solo.»
Jarod riprese a schiacciare sull’acceleratore. La strada era sgombra e umida per
il violento temporale della notte precedente. Erano le due e venti del
pomeriggio, ed un pallido sole faceva capolino tra le nubi solo da pochi minuti.
L’aria era fresca, all’esterno.
«Il bambino non c’entra.»
«Questo l’hai già detto.»
Miss Parker si sforzò di non tossire. Non voleva che Jarod si preoccupasse della
sua salute nuovamente. La febbre era sparita da sole due ore, e Jarod sapeva
perfettamente che non poteva sentirsi bene, ma fece finta di niente. Ora la loro
priorità era Adam.
«Ho detto a mio padre che voglio andarmene dal Centro.»
Silenzio.
«Ovviamente non me lo permetterà mai, ma non mi importa più. Questa volta non mi
tiro indietro. Non voglio passare il resto della mia vita a rincorrere te! Non
riuscirei mai a riportarti al Centro.»
«Se ne sei tanto sicura perché non te ne sei andata prima?»
Un cartello con la scritta “Welcome to Whitehall” comparve in lontananza.
Miss Parker lo guardava avvicinarsi sempre di più. Voleva… anzi, doveva trovare
quel piccolo simulatore prima che Raines ci mettesse le grinfie. Non poteva
permettergli di rovinare un altro essere umano.
Sua madre avrebbe fatto lo stesso, ne era certa.
«Sono contento che tu voglia andartene dal Centro, davvero, ma… ancora non
capisco perché Raines voglia eliminarti. E nemmeno perché tuo padre glielo lasci
fare!»
«Non sono affari tuoi Jarod.»
«Ah, davvero?!»
«Già!» scattò Miss Parker. Tossì. E tossì di nuovo.
«C’è una bottiglia d’acqua nella borsa, sul sedile posteriore…»
«Non ne ho bisogno.»
L’orfanotrofio di Whitehall era a soli due isolati.
«Hai freddo?» le chiese.
«No»
«Allora perché stai tremando?»
Spazientita lo freddò con una gelida occhiataccia. «Fermati qui. Che cosa
facciamo se il bambino non c’è?»
Slacciando la cintura di sicurezza Jarod le rispose: «Prega che ci sia ancora.»
Raggiunsero un edificio di cinque piani, in pietra a vista, finestre alte ad
arco, adiacente ad una chiesa. Un convento: l’orfanotrofio di Whitehall.
Entrarono da una minuscola porticina sul lato ovest e si ritrovarono in
un’entrata rettangolare, di fronte a loro un enorme portone di legno intagliato
con due sottili feritoie. Bussarono.
«Chi è?» si sentì dalla parte opposta. Mentre ad una feritoia si affacciava
l’occhio miope di una suora.
«Jarod Heye, assistente sociale.»
L’anziana suora aprì lentamente il pesante portone, indietreggiando e
zoppicando.
«Assistente sociale?!» fece stupita.
«Si, Jarod Heye - ribadì mostrando alla donna il tesserino che lo qualificava -
lei è la mia collega.» Miss Parker strinse le labbra incrociando le mani dietro
la schiena.
«In che cosa posso esservi utile?»
«Siamo qui per Adam. - Jarod lesse l’incomprensione negli occhi miopi della
suora - Doveva essere trasferito oggi, vero?!»
«Si, certo, ma sono già venuti.»
«Quando?» domandò istintivamente Miss Parker.
«Chi?» la corresse Jarod
«Gli assistenti sociali, pochi minuti fa.»
Jarod avrebbe voluto dare sfogo alla rabbia e frustrazione che tentava di
reprimere di fronte alla suora, ma i suoi sentimenti vennero pienamente espressi
dal viso di Miss Parker, tanto che la povera anziana suora si fece prendere dal
panico: «Oh mio Dio! Il bambino! … non erano assistenti sociali?»
«No!» sbraitò Miss Parker spaventando ancor più la già atterrita suora.
«Dove lo stanno portando?»
«I… io non lo so.»
«Da che parte sono andati?»
«A destra, si, a destra, verso l’autostrada, già,…»
«Prendi l’auto!» ordinò Jarod
«Devo chiamare la polizia?»
«Ci pensiamo noi, sorella, non si preoccupi.» intervenne Miss Parker avviandosi
di corsa a recuperare la berlina rossa. “Meglio non avere la polizia tra i
piedi” pensò.
«Oh, che cosa ho fatto! Che cosa ho fatto! Il bambino!» continuava a disperarsi
la donna.
Accorsero altre consorelle allarmate dai lamenti.
Jarod le lasciò nell’atrio a consolare l’anziana suora, salì in macchina
velocemente e Miss Parker voltò bruscamente a destra in direzione
dell’autostrada.
«Come facciamo a rintracciarli?»
«Non lo so.»
«Ah! E tu saresti un genio!» ironizzò
Raggiunsero l’autostrada quasi subito, non c’era praticamente nessuno.
L’adrenalina doveva aver miracolosamente acuito i sensi di Miss Parker, Jarod se
ne accorse dal modo in cui schiacciava il pedale dell’acceleratore. Scartava e
seminava le altre automobili, incurante di tutto. La sua espressione accigliata
era divenuta più intensa ed arrabbiata. “Stupida suora,” pensò Miss Parker “come
ha potuto scambiare degli assassini del Centro per assistenti sociali!?”
«Eccoli!» gridò Jarod puntando l’indice verso un’auto grigio antracite che
viaggiava a poca distanza.
Miss Parker sterzò improvvisamente, mettendosi alla sinistra dell’auto dei
“rapitori”.
Immediatamente riconosciuti, ricevettero il saluto che spettava loro: il
finestrino oscurato si abbassò lentamente e una mano armata emerse dal nulla,
scaricando sulla fiancata della berlina rossa un intero caricatore costringendo
Miss Parker a tornare in carreggiata dietro l’auto.
«Ma porca…! - imprecò Jarod - È la macchina di Michelle!»
Miss Parker sembrava davvero spazientita; si riportò sulla sinistra e sterzò
violentemente. Il contatto produsse scintille e lasciò sgommate sull’asfalto. Le
due auto procedettero affiancate in una danza scricchiolante di lamiere e
scintille, con un assordante rumore di contatto indesiderato.
«Vacci piano, è la macchina di Michelle!» ripeté Jarod
La loro corsa ebbe termine nel canaletto che costeggiava la strada statale da un
paio di chilometri. L’auto scura aveva accartocciato il suo muso sulla sponda
opposta, mentre la berlina rossa era riuscita a rimanere parzialmente sulla
strada.
Miss Parker slacciò la cintura e scese, Jarod fece lo stesso, con un po’ più di
difficoltà. Il suono lamentoso di un clacson proveniva incessante dall’auto dei
rapitori.
«Maledetti bastardi!» sbraitò uno dei due spazzini uscendo a fatica dal posto di
passeggero. Miss Parker lo raggiunse puntandogli la pistola alla tempia
sinistra. «Dammi la tua e non ti ucciderò.» gli intimò. Lo sventurato obbedì
imprecando. «La mamma non ti ha insegnato a non offendere chi ha in mano
un’arma?!»
Jarod scostò il guidatore dal volante e il fastidioso sibilo del clacson cessò.
Una piccola contusione al naso: se la sarebbe cavata. L’acqua aveva invaso
rapidamente l’abitacolo, sebbene non fosse più alta che mezzo metro era meglio
prendere il bambino subito.
Il sedile posteriore era vuoto. “Adam!”
«Jarod…» fece Miss Parker per attirare la sua attenzione sul bambino.
Spostandosi un po’ più a destra Jarod scorse una piccola ombra che si nascondeva
sotto il sedile del passeggero, sperando di non essere scovata.
«Adam?»
Jarod aprì la portiera posteriore e scivolò lentamente accanto al bimbo.
«Adam, mi chiamo Jarod, non avere paura, è tutto passato.»
Il bambino stranamente non piangeva, né dava segno di insicurezza o
preoccupazione, semplicemente osservava inespressivo quel volto nuovo che gli
tendeva una mano per aiutarlo ad uscire dal suo nascondiglio. Lentamente si
trasse fuori, Jarod lo prese in braccio e lo fece salire sull’altra auto.
Miss Parker intanto continuava a tenere sotto tiro il rapitore e con passo
malfermo si allontanò, salì in macchina accanto al bambino.
«Grazie ragazzi, alla prossima. Ah, dimenticavo, questo è per Raines,
assicuratevi che lo riceva, - Jarod gettò all’uomo un dischetto per computer -
un regalino da parte mia. Non fare quella faccia, non sempre si vince!»
Dopodiché se ne andarono rapidamente ripercorrendo il tragitto d’andata.
Un uomo in nero entrò sbattendo bruscamente la porta.
Broots sobbalzò aspettandosi un’altra dolorosa ed inarrestabile secchiata
d’acqua, che però non arrivò mai: il nuovo arrivato si era avvicinato al suo
torturatore e gli bisbigliava qualche segreta informazione nell’orecchio; magari
proprio ora giungeva la notizia che sua figlia era stata presa in ostaggio e che
poteva utilizzare quella carta, o che avevano invece ucciso Jarod e Miss Parker
e che la sua collaborazione non era più richiesta, che potevano procedere al suo
assassinio quindi, … forse. O forse no, forse lo avrebbero torturato ancora per
tutto il giorno o tutta la notte, tanto non aveva idea dell’ora che fosse.
Ma invece l’uomo in nero se ne andò pochi istanti dopo e l’altro, sorridendo
malignamente al povero ostaggio fece lo stesso.
Broots era rimasto solo col computer nella stanzetta puzzolente, legato come un
salame, infastidito da orribili pensieri e dal calore insopportabile.
E vi sarebbe rimasto ancora per parecchio tempo.
Dalla sua stanza al primo piano Michelle vide arrivare in lontananza la berlina
rossa che aveva gentilmente prestato a Jarod. Scese sotto il portico ad
attenderli con un sorriso, sollevata che fossero tornati: Jarod le aveva
raccontato tutto.
Man mano che si avvicinava l’auto riuscì a scorgere la sagoma al volante in
controluce, poi la figura di Miss Parker, poi la testolina di un bambino. Ciò
significava “missione compiuta con successo”. Ma man mano che si avvicinavano,
che proseguivano per la strada sterrata, man mano che le figure non erano più
solo sagome e volumi, ma diventavano dettagliatamente visibili, Michelle scorse
l’irreparabile danno arrecato alla fiancata destra: sedici fori di pallottola e
due enormi squarci sulla portiera anteriore.
«Jarod!… ma… la macchina!» balbettò sconsolata con le mani nei capelli non
appena l’uomo parcheggiò.
«Scusami, te la riparerò io.» fece scendendo dall’auto.
«Dovevo ancora finire di pagarla!»
«Non preoccuparti, tornerà come nuova, promesso. Sono stato anche meccanico,
sai?!»
«Davvero?» Miss Parker tese la mano ad Adam per aiutarlo a scendere.
«Si, due mesi fa. A San Francisco.»
Michelle osservò garbatamente sorridendo al nuovo ospite: «Così è questo, Adam.»
Entrarono.
«Non possiamo stare qui.» sussurrò Miss Parker.
«Non hai nulla da temere, Michelle è una brava persona.»
«Io non temo un accidente!… ma troveranno l’auto prima o poi e verranno a
riprendersi il bambino, io dico che è meglio tagliare la corda prima di mettere
la tua cara Michelle e suo figlio ulteriormente in pericolo.»
Non aveva tutti i torti.
Mikey stava giocando con Adam nella stanza accanto. Michelle stava preparando la
cena.
«Dove andiamo? - le chiese - e come?»
Miss Parker sospirò. Il suo mal di testa non faceva che peggiorare. Si strofinò
il dorso della mano sull’occhio sinistro con fare stanco; erano solo le sei del
pomeriggio ma l’adrenalina di quelle ultime ore l’aveva sfinita. Tornando si
erano fermati un istante all’orfanotrofio, accolti apprensivamente dalla miope
suora e dalle consorelle preoccupate; mostrato ancora una volta il tesserino di
assistente sociale Jarod aveva rassicurato le povere donne che stavolta
avrebbero lasciato Adam in buone mani. Miss Parker aveva atteso in auto onde
evitare di compromettere tutta la commedia. Dopodiché se ne erano andati. Adam
non aveva mai parlato, non aveva mai nemmeno mostrato alcun segno di paura,
stupore, curiosità o qualunque altro sentimento ammissibile in quella
straordinaria circostanza. Le suore sostenevano che fosse così da quando era
stato portato loro. Era comprensibile, dopotutto, che un bambino di soli tre
anni che aveva assistito alla morte di entrambi i genitori fosse rimasto
shockato e…
«Non so, Jarod, forse…»
Passeggiava nervosamente in cerchio da quando aveva messo piede di nuovo nella
cucina di Michelle.
«Non avete nessuno che vi possa ospitare per un po’ in un’altra città?» domandò
la donna continuando a mescolare la minestra in brodo che stava preparando per
la cena.
Miss Parker le gettò un’occhiata gelida: non sopportava essere interrotta, meno
che meno da lei; anche se li aveva aiutati non poteva sopportare la confidenza
che dava a Jarod e soprattutto che Jarod la tenesse tanto in considerazione.
La donna si accorse del notevole risentimento di Miss Parker e pensò bene di
cambiare aria per un po’: «Ah, io vado a vedere che cosa combinano i bambini.»
Si allontanò asciugandosi le mani in uno strofinaccio che portò con sé oltre la
porta. Un istante dopo il suo braccio si affacciò dallo stipite e lo gettò sul
tavolo.
Finalmente soli. «Jarod, dobbiamo trovare Sydney e Broots e portare via da qui
Adam… non sei d’accordo anche tu? … Potremmo anche, che ne so… girare un po’ per
il Paese e…» Lui la guardava senza convinzione.
«E su, Jarod! Sei tu l’esperto! Come facciamo a far perdere le nostre tracce?»
«Che cosa credi che facessero quegli spazzini sulla strada statale questa
mattina presto?»
«Aspettavano noi?!»
«Come sapevano che saremmo venuti da quella parte? E perché non ci hanno seguito
lungo tutta la strada e nel bosco?»
Miss Parker lo guardò con aria interrogativa, come per chiedergli spiegazioni
riguardo quel repentino cambiamento d’argomento. Quella mattina non avevano
certo avuto troppo tempo per pensare alla dislocazione degli spazzini lungo la
via statale, o in un suo tratto, l’unico loro pensiero era rivolto alla
salvaguardia della loro vita.
«Non stavano aspettando noi.» concluse infine con più incertezza che
convinzione.
Sydney era seduto su di una branda da carcerato in una vuota, anonima, piccola
stanza nel seminterrato di un edificio sconosciuto. Uno spazzino passeggiava
lentamente e sicuro di sé accanto alla porta chiusa a chiave. Impugnava la
pistola che teneva nella fondina sotto la giacca e si lisciava la barbetta
incolta.
Aveva rivolto a Sydney le stesse domande che erano state rivolte a Broots,
ricevendo analoghe risposte.
I due non sapevano nulla di concreto. Stando alle loro affermazioni.
Sydney sospirò stropicciandosi gli occhi stanchi. Sperava ardentemente che Jarod
e Miss Parker fossero entrambi in salvo, lontani dal Centro e lontani da quel
pazzo di Raines.
Lo spazzino passò di fronte alla stanza e sbirciò dalla feritoia verticale sul
lato della porta e scomparve oltre il cemento armato. Sydney lo guardò truce e
tornò ai suoi pensieri; un’ombra strisciò fulminea fuori della porta e catturò
la sua attenzione. Il corridoio era semibuio e Sydney si avvicinò alla porta
arrugginita per vedere meglio. Accanto al muro due piccoli occhietti vispi e
chiari lo fissavano incuriositi. Sydney si appoggiò alla porta e alla fioca luce
di una lampadina scorse una manina bianca, stretta a pugno sulla gonna a pieghe
blu.
«Ciao!»
La bambina non rispose.
«Io mi chiamo Sydney, e tu?»
Dalla penombra la bambina lo osservava zitta stropicciando la gonna a pieghe con
le manine.
«Che cosa ci fai qui sotto?» chiese Sydney gentilmente.
Silenzio.
«Chi sei?» chiese di nuovo.
«Eve.» rispose flebile una vocina.
Dei passi risuonarono minacciosi sul cemento del corridoio di là dalla porta. La
bambina impaurita sparì nell’oscurità. Avvicinandosi i passi divennero più
chiari e più forti, distinti, e Sydney sentì anche il cigolio che li
accompagnava ritmicamente. L’attesa fu rotta dall’apertura della porta
arrugginita; Raines si affacciò trascinandosi dietro quella sua inseparabile
bombola dell’ossigeno, il suo viso illuminato da uno sguardo di superiore
consapevolezza.
«Non è più necessario, oramai Jarod è nostro.» sentenziò.
«Stavano aspettando il bambino?»
«Non credo, sono venuti a prenderlo solo questo pomeriggio, …»
Miss Parker passeggiava massaggiandosi le meningi doloranti col pensiero che
forse la minaccia della febbre o, peggio ancora, di un’infezione non era del
tutto archiviata.
«Non stavano aspettando noi, non aspettavano Adam, non aspettavano nessuno, in
fondo perché avrebbero dovuto aspettare qualcuno armati fino ai denti?!» sbottò
lei.
Jarod sospirò.
Michelle si affacciò alla porta della cucina. La minestra stava bollendo e
nessuno si era preoccupato di spegnere il fuoco. Bisbigliando azzardò un cenno a
Jarod che si affrettò a spegnere i fornelli sotto lo sguardo critico di Miss
Parker a cui non importava nulla della cena.
«Ah! - sobbalzò improvvisamente - Sydney e Broots! Ma certo, quei cecchini non
stavano cercando, ma vigilando, proteggendo qualcosa!»
«Sydney e Broots?! Chi sono? Altri bambini?» chiese timidamente Michelle.
«No, - le spiegò Jarod versando nei piatti la minestra col mestolo - sono due
collaboratori di Miss Parker.»
«Lavorano per il Centro?»
«Si.»
«Ma certo! Lì nei dintorni ci devono essere Sydney e Broots! E non cercavano
noi, ci stavano solo tenendo lontani.»
Jarod approvò la sua intuizione, dopotutto era plausibile anche se un po’
azzardata.
Miss Parker uscì dalla stanza e trovò Mikey davanti a lei con le braccia tese e
i palmi aperti, Adam lo imitava, in attesa di qualcosa. Li squadrò per qualche
istante, poi incrociò le braccia sul petto ed inarcò le sopracciglia. Mikey si
guardò le mani, poi disse debolmente: «Ci siamo lavati le mani, guarda.»
«Oh si, davvero perfetto.» rispose acidamente andandosene.
«Credi di poterti fidare di lei?» chiese Michelle.
«Credo di si, in fondo è fuggita dal Centro e dai suoi sicari con me, non vedo
perché dovrebbe rischiare di farsi uccidere.» le rispose Jarod.
Michelle terminò di sistemare i piatti in tavola e chiamò i bambini.
«Non so, Jarod, è molto fredda e… se devo essere sincera quella donna mi fa un
po’ paura.»
Jarod sorrise.
La prima volta che aveva incontrato Miss Parker era stata al Centro, quando
entrambi erano ancora bambini. Crescendo aveva imparato a conoscerla e, anche se
era molto cambiata nel corso degli anni, Jarod non poteva non pensare che in
fondo avesse solo dimenticato la sua dolcezza al Centro, senza mai perderla.
Certamente Miss Parker non era cattiva, non c’era cattiveria nelle sue azioni.
La sua vita sino a quel momento era stata difficile e la prospettiva che la
situazione rimanesse tale non era facile da sopportare.
«Miss Parker è molte cose, ma non è senza cuore.»
L’aria fresca della sera le accarezzava timidamente il viso e il pungente odore
dei pini le attraversava l’anima. Quell’ebbrezza la faceva sentire carica di
forza e determinazione. A braccia conserte in piedi rimase per qualche istante
ferma nella penombra del crepuscolo, ad ammirare lo splendido paesaggio del
bosco che si stendeva sulla vallata nel retro del motel. Poteva chiaramente
sentire l’adrenalina scorrerle nelle vene come un brivido elettrizzante ad ogni
respiro.
Chiuse gli occhi e le parve di cadere in un vortice; li riaprì. Inspirò
profondamente di nuovo socchiuse gli occhi, ma di nuovo quella sensazione di
vuoto si impadronì di lei, lasciandola senza fiato. Ora le girava la testa, le
facevano male gli occhi e il sangue nelle vene scorreva più velocemente. Con lo
sguardo severo rivolto al tramonto di una estenuante giornata Miss Parker si
chiese come sarebbe stato il domani. Avrebbe dovuto fuggire per sempre dai
cecchini del Centro? Avrebbe continuamente rischiato la propria vita per la
libertà, come Jarod? Che cosa ne era stato di Sydney e Broots? E che cosa ne
sarebbe stato del bambino, di Adam? Ponendosi tali domande il suo mal di testa
aumentò. Avrebbe voluto chiamare suo padre, magari avrebbe chiarito tutto, ma…
era troppo rischioso.
L’odore dei pini ebbe la meglio e quell’attimo di frenesia la rese ebbra al
punto che vacillò reggendosi a stento sulle gambe, e quando quella intensa
sensazione si dileguò improvvisamente non le restò se non il nulla. La desolante
solitudine di quel posto e il flusso dei suoi incerti pensieri fu interrotto:
«Miss Parker.»
Si voltò di scatto. Troppo in fretta forse per il suo equilibrio compromesso e
la sua ormai fragile stabilità. Dovette fare un passo indietro per non cadere.
Jarod le tese una mano che lei prontamente scostò fulminandolo con uno sguardo
più freddo del ghiaccio.
«Non vieni a mangiare qualcosa?»
Ancora infastidita dal suo evidente mancamento Miss Parker scosse la testa
lievemente indietreggiando.
«Sei pallida.»
«…» non lo guardò.
Jarod le passò una mano delicatamente tra i capelli neri, scostando il ciuffo.
Lei si ritrasse, troppo tardi.
«Ti è tornata la febbre!»
«No!»
«Vieni dentro.» le ordinò.
Rimase immobile a fissare la distesa delle cime degli alberi che si ergevano a
perdita d’occhio nella valle sotto il pendio. Gli occhi lucidi, si sentiva
svenire, se solo avesse azzardato un passo era sicura che le sue gambe non
avrebbero retto.
Jarod la prese in braccio.
Broots e Sydney si trovavano ora in celle contigue, separate da una parete di
sbarre.
Broots se ne stava chiuso nelle spalle avvolto in un panno e rannicchiato sulla
sua branda accanto al muro, ancora tremolante per lo spavento.
Sydney sedeva a braccia conserte sempre pensieroso.
Nessuno dei due sapeva dove si trovava e se ne sarebbe uscito.
Broots, rimasto solo nella puzzolente stanzetta delle torture, aveva preso il
computer accanto a lui sul carrello e con fatica aveva scritto e spedito
un’e-mail all’indirizzo “Refuge”, ovvero “Rifugio”: la posta elettronica che
utilizzavano Sydney e Jarod. Sperava così che Jarod o Miss Parker in qualche
modo li avrebbe rintracciati e fosse venuto a liberarli dallo sguardo vigile e
minaccioso degli spazzini fuori della porta. A dire il vero non sapeva nemmeno
lui dove si trovasse in realtà, ma nel messaggio aveva indicato alcuni
particolari che avrebbero potuto aiutarli a rintracciarli, come il rumore di un
fiume che aveva sentito distintamente mentre erano sul furgone, il fatto che
dovesse essere una struttura abbastanza grande e che si estendeva anche nel
sottosuolo a un’ora circa di viaggio in macchina dal luogo in cui erano stati
prelevati; sempre che non avessero fatto deviazioni per disorientarli.
Comunque il messaggio era stato inviato. Ora Broots contava su Jarod e Miss
Parker, sempre che fossero ancora vivi.
In fondo al corridoio si aperse una porta e il carrello col computer venne
spinto all’interno da uno spazzino di Raines. Si fermò di fronte alla cella di
Broots e con voce roca gli ordinò di controllare che cosa conteneva il dischetto
che Jarod aveva consegnato loro. Una squadra di impiegati aveva tentato
inutilmente fino a quel momento di aprire il file ma senza successo. Broots si
avvicinò lentamente e timidamente infilò le braccia tra le sbarre. Il file
necessitava di una password nascosta, ma non era inaccessibile e in pochi minuti
Broots lo aprì. Il suo aiuto era davvero prezioso, comunque pensasse Lyle. Una
volta aperto, il file lanciò un programma e una traccia audio con la
registrazione della voce di Jarod: «Salve! Spero che non vi arrabbierete troppo
se salvo un bambino dalle vostre torture mentali, ma ho altri progetti per lui.
Ora, il programma che si è lanciato all’apertura del file è un virus ideato da
me. Scommetto che vi dispiace non avermi dalla vostra parte! Comunque, il virus
attaccherà principalmente il programma di sicurezza del Centro, dopodiché
passerà alla distruzione dei dati e se ci arriverà manderà in tilt il vostro
computer centrale. Buona fortuna!» Broots rimase a fissare lo schermo senza
parole. E ora? Lo spazzino sgranò gli occhi e si mise a gridare: «Fermalo!
Brutto idiota, fa qualcosa!» Broots non sapeva che fare il terminale si era
oscurato, evidentemente il virus aveva già iniziato la sua opera estromettendo
tutti i computer collegati al Centro ed impedirlo era davvero impossibile senza
un accesso al computer del Centro, che era appena stato disconnesso dalla rete.
Jarod era davvero un genio.
Miss Parker era distesa sul letto con aria avvilita. La sudorazione era intensa
e non riusciva a mettere a fuoco la vista. L’unica cosa di cui era certa era la
presenza di Jarod nella stanza: la sua colonia la inebriava come l’odore dei
pini. Avrebbe voluto parlare ma le parole le si strozzavano in gola. Non era una
piacevole sensazione.
«Jarod, - chiamò Michelle affacciandosi alla porta della stanza - il tuo
computer in cucina lampeggia. Che cosa significa?»
Jarod alzò lo sguardo dalla cartina che stava consultando nell’intento di
individuare il luogo in cui Sydney e Broots potevano essere prigionieri. Pensò
per qualche istante. «È arrivata un’e-mail.»
Michelle rimase sola con Miss Parker nella stanza. Timidamente si guardò intorno
e si avvicinò al letto cercando di capire se la ragazza stesse dormendo oppure
no. Miss Parker si scostò una ciocca dal viso infastidita e Michelle si ritrasse
improvvisamente.
«Vuoi un po’ d’acqua?» fece sorridendo mesta.
Miss Parker agitò una mano nella sua direzione e mormorò qualcosa.
«Come?!»
«Dov’è… - ripeté sforzandosi - …»
«Jarod?! È in cucina ha ricevuto un’e-mail. Adam e Mikey sono qui fuori che
giocano. Aspetta… - si avvicinò di nuovo e le rinfrescò il viso con un
fazzoletto bagnato - Jarod dice che è necessario abbassare la temperatura.»
Strizzando gli occhi Miss Parker si voltò dall’altra parte.
«Jarod mi ha parlato molto di te, sai?»
Miss Parker sospirò e le rivolse uno sguardo che parlava da solo: “Ma davvero?!
Sentiamo un po’!”
Michelle sorrise: «Si, quando è stato qui la prima volta. Credo che lui ti stimi
molto, ma che non voglia dirtelo apertamente. - mestamente inclinò la testa e
chiuse gli occhi per un istante - Jarod è un uomo magnifico, sei davvero
fortunata ad averlo incontrato; riesce a far sentire le persone importanti, non
trovi?! È una di quelle persone che è raro trovare sul tuo cammino, e io… bhè,
se non fosse stato per Jarod credo che Mikey non sarebbe qui ora, io gli devo
molto, e farò il possibile per aiutarlo, come lui ha aiutato me.» si tacque
soprappensiero. Miss Parker la guardava febbricitante. Ormai la voce angelica
della negretta assomigliava molto più ad un’eco lontana, ma percepiva
ciononostante il senso languido e malinconico di quelle parole quasi sussurrate,
ed il tepore del corpo di Michelle la fece rabbrividire.
In quel mentre Jarod rientrò di corsa: «Broots mi ha inviato un’e-mail! - gridò
- Avevi ragione Miss Parker, sono più o meno là dove ci hanno assaliti.»
Miss Parker tossì faticosamente tentando di alzarsi sui gomiti, ma era talmente
debole che non poté neppure sollevare la testa dal cuscino.
«Michelle, che cosa c’è in questa zona abbastanza grande da poter nascondere un
laboratorio, o qualcosa del genere?» le chiese porgendole la carta stradale che
aveva consultato sino a poco prima. Michelle osservò attentamente: «Non so, qui
dovrebbe esserci una fattoria abbandonata, ma dubito che nascondano qualcosa lì
dentro, ma… forse qui: la vecchia cartiera è in disuso da anni ed è una
struttura abbastanza grande.»
Jarod segnò il punto sulla mappa. Una vecchia cartiera…
Jarod le si avvicinò e le chiese a bassa voce: «Michelle, ho bisogno del tuo
aiuto: prepara una borsa con un paio di vestiti, prendi dell’acqua fresca e
porta Miss Parker all’ospedale più vicino. Registrala sotto un nome falso,
inventalo, poi aspetta lì finché non sarò tornato con Sydney e Broots. Ok!? … -
Michelle asserì colla testa e lo guardò dritto negli occhi con sguardo
preoccupato; Jarod strinse le labbra e per tranquillizzarla ripeté: - Tornerò
presto, vedrai, è una promessa.»
Michelle sapeva che le promesse di Jarod venivano regolarmente mantenute e voltò
il viso sull’esile figura di Miss Parker che si agitava tra le coperte.
«Porta sempre con te Adam e Mikey, mi raccomando, non perderli mai d’occhio.
Conto su di te.» aggiunse.
«Va bene.»
Michelle si ritirò al piano di sopra e Jarod si sedette accanto a Miss Parker.
«Jarod… - bisbigliò - che cosa hai in mente di fare?»
«Ancora non lo so, ma a qualcosa penserò. Il dischetto che ho dato agli spazzini
di Raines conteneva un virus, se lo hanno portato a Broots a quest’ora avrà già
cominciato ad agire, pensavo di usarlo per inserirmi di nuovo nel loro computer,
ma ci sarà più utile del previsto, ora.»
Miss Parker si strofinò gli occhi con il palmo della mano.
«Ho già chiesto a Michelle di portarti all’ospedale, vedrai che con una flebo
d’antibiotico e un paio di giorni di riposo ti sentirai meglio.»
Adam si tirò faticosamente sul letto e camminando a gattoni raggiunse Miss
Parker.
«Non voglio andare in ospedale!»
«Non puoi fare niente in queste condizioni e questi continui sbalzi di
temperatura non fanno di certo bene al tuo fisico, mi sarà più utile saperti in
un posto sicuro che con me.»
«Non dire idiozie, non puoi farcela da solo! Dammi quella roba rossa che mi hai
fatto bere stamattina, ha funzionato!»
«No! Ora tu vai in ospedale con Michelle e i bambini, e guai a te se non ti
trovo in perfetta salute quando ritorno.»
Adam si accoccolò sul cuscino di Miss Parker e si mise a giocare con i suoi
capelli. Jarod le sentì la fronte bollente e sospirò impaziente.
«Non mi piace Michelle, non mi fido di lei.»
«Cosa?! E perché?»
«Fa troppe domande e non… non mi piace come mi guarda! Potrebbe anche lavorare
per il Centro, in fondo cosa ne sappiamo noi!»
Jarod rise, ricordandosi della conversazione che aveva avuto con Michelle prima
di cena a proposito di Miss Parker. «Non temere, è un’amica.» concluse.
Lei scostò nervosamente le manine di Adam che le attorcigliavano i capelli neri.
Forse Jarod aveva ragione, ma non le andava di essere accudita da quella donna.
Si sentiva pateticamente inerme.
«Da bravo Adam, lascia stare Miss Parker.» Jarod lo prese in braccio e lo posò a
terra mentre Adam salutava con la mano Miss Parker. Lei sorrise amaramente.
«Che cosa ne sarà di lui, ora?»
«Per ora è affidato alle tue “amorevoli” cure finché non torno… mi raccomando.»
Miss Parker sorrise di nuovo, ma senza convinzione e tossì debolmente un paio di
volte: «Non ci posso credere, che cosa diavolo mi sta succedendo: la febbre deve
avermi fatto impazzire. Fare da mammina ad un moccioso che ho salvato dal
Centro!… E pensare che il mio compito è di riportartici… Come ho potuto scappare
insieme a te! Avrei dovuto consegnarti a loro invece di aiutarti a fuggire!»
strizzò gli occhi, le girava la testa.
«Ma ci stavano sparando addosso.» obiettò.
«Non avresti dovuto trascinarmi con te!» fece lei.
«Non avresti dovuto inseguirmi.»
«E tu non avresti dovuto fuggire dal Centro!» replicò spazientita.
«Non avrei mai dovuto nemmeno mettere piede al Centro!» la zittì.
Miss Parker si tacque fissandolo negli occhi. Il suo dolce sguardo era pieno di
triste consapevolezza.
«Come avete fatto a rintracciarmi, in mezzo al bosco, ieri?» chiese Jarod.
«Angelo. - rispose Miss Parker sospirando - Ci ha segnalato un ritaglio di
giornale che riportava la notizia di un salvataggio nel bosco di un bambino da
parte di un forestiero. Ho pensato di venire a controllare.»
Jarod strinse le labbra maledicendo tra sé i giornalisti.
«Angelo… non vi avrebbe mai mostrato quell’articolo perché voi mi catturaste.»
«Che vuoi dire?»
«Forse lo ha fatto perché sapeva che il Centro voleva uccidermi.»
«E io?! Che cosa avrei dovuto fare, io?! Salvarti?!» commentò scetticamente.
Jarod sbatté le palpebre scacciando un raggio di sole infiltrato tra le tende.
«È proprio quello che hai fatto.» rispose quasi sussurrando.
Miss Parker spostò il suo sguardo sul bambino che la guardava con occhi verdi
curiosi e vispi.
«Sai, credo che lui si sia già affezionato: mentre dormivi si è seduto qui
accanto e mi ha chiesto che cosa avevi; ti ha anche lasciato il suo pupazzetto
sotto le coperte per aiutarti a guarire.» Miss Parker tirò fuori un coniglietto
bianco spelacchiato che il bambino si era portato dietro dall’orfanotrofio.
«Perfetto.» commentò in tono acido. Chiuse gli occhi stanchi stropicciando le
lenzuola.
Jarod contemplò il pezzo di cielo che si riusciva a scorgere dalla finestra; le
nubi si stavano diradando, sarebbe stata una notte serena, forse, e l’indomani
una giornata impegnativa. Meglio agire in fretta, prima che il Centro corresse
ai ripari.
«Non c’è niente da fare, non funziona più nulla, telecamere, sistema
antincendio, cancelli elettrici, interfono, niente…»
«Non è possibile! Riprova!» ordinò lo spazzino puntandogli la pistola alla
testa.
«Ma non so cosa fare, il computer è andato, si è come bloccato, non posso fare
niente!» cercò di giustificarsi Broots alzando le spalle.
«Che cosa sta succedendo?» tuonò una voce rauca e minacciosa avvicinandosi con
un cigolio.
«Bhè, ecco, si tratta del dischetto che vi ha consegnato Jarod. - spiegò -
Dunque, io non sapevo che fosse un virus, e… mi hanno chiesto di aprire il file
e…» cercando le parole più adatte Broots si impappinò e balbettò
involontariamente.
«Ripari a questo imperdonabile errore signor Broots!» ordinò Raines perentorio.
Voltandosi lentamente squadrò Sydney che sorrideva sornione senza farsi notare
troppo.
«Che altri scherzetti ci ha preparato il tuo pupillo, Syd?»
«Non saprei, Jarod è davvero imprevedibile.» rispose con quel suo mezzo sorriso
sulle labbra Sydney.
Raines si voltò. Il suo spettro si trascinava per i corridoi del Centro da quasi
tutta la vita, quei corridoi erano diventati casa sua e si sentiva Dracula nella
sua bara: perfettamente a suo agio; ma ora, tra le spesse mura di una cartiera
abbandonata era diverso; Sydney osservò la sua sagoma agghiacciante sparire
nell’ombra di quel tetro magazzino, scivolare scricchiolando verso una tana più
sicura. Si sentiva vulnerabile, ne era certo.
«Non cantare vittoria Sydney, non hai ancora visto di che cosa sono capace.»
mormorò chiudendosi la porta di ferro alle spalle con un pesante frastuono.
La foschia mattutina si stava gravemente infiltrando tra gli alberi svettanti.
La tensione di quelle ultime ore stava via via raggiungendo il suo culmine.
Dipendeva tutto da lui. Si era alzato un po’ di vento e gli aghi e le foglie si
sollevavano da terra volteggiando lentamente sopra la sua ombra. Jarod si
incamminò velocemente in mezzo al bosco in direzione ovest, parallelamente alla
strada statale costeggiando il fiume, armato di una torcia elettrica, del suo
portatile e della pistola di Miss Parker. La visibilità era poca, ma non sarebbe
stato un viaggio molto lungo, giusto un paio di miglia.
Se l’intuizione di Miss Parker fosse stata giusta Broots e Sydney non erano
lontani. Sperava che stessero bene. Il Centro aveva tentato di ammazzare lui,
perché con loro avrebbe dovuto essere più clemente?! Pensò che se davvero quella
cartiera abbandonata era un laboratorio segreto di Raines da quelle parti
avrebbe dovuto essere pieno di cecchini, specialmente dopo lo scherzetto del
virus.
Scorse in lontananza la sagoma nera e massiccia dell’edificio che si ergeva tra
gli alberi a una ventina di metri di distanza dalla strada statale; un posto
riparato dalle attenzioni dei passanti, che non dovevano essere molti comunque.
Jarod spense la torcia e si fece largo tra i rami dei pini a tentoni. A
quest’ora Miss Parker e Michelle dovevano aver raggiunto l’ospedale.
Con il binocolo sbirciò lungo il perimetro: tre cecchini armati di mitra e in
assetto da combattimento passeggiavano burberi accanto al cancello e a turno
facevano il giro della recinzione. Aspettavano lui. Riconobbe Willy, lo spazzino
di Raines che aveva sparato a Miss Parker tentando di colpire il padre, e Sam,
lo spazzino di Miss Parker. Il terzo non lo conosceva. Si avvicinò ancora un po’
e aspettò. Il perimetro della cancellata esterna era controllato da tre spazzini
su ogni lato, ciò significava che Broots aveva aperto il file e lanciato il
virus. Jarod aprì il suo portatile e digitò qualcosa. E attese.
La sirena scattò pochi secondi dopo, alzando il suo lamento al cielo nero e
singhiozzando una luce rossa irradiò il cortile d’entrata ed i corridoi
dell’edificio. Jarod sorrise sornione. I tre spazzini si posizionarono intorno
alla recinzione guardinghi, pistola in pugno. Willy fece cenno silenzioso agli
altri due di controllare in giro.
«Che cos’è, Sydney?» fece allarmato Broots scattando in piedi al primo lamento
della sirena.
«Jarod.»
Lo spazzino accanto alle celle afferrò la sua arma pronto ad utilizzarla sul
simulatore e chiese istruzioni via radio. “Sparate a vista” fu la risposta.
Raines ansimò nei tubicini che gli occupavano le narici. Cominciava la
battaglia, anche se questa volta era sicuro di vincere. Doveva, a tutti i costi
o il Triumvirato gli avrebbe sottratto la paternità dell’operazione, e questo
significava perdere ogni potere di controllo sugli esperimenti futuri del
Centro. Jarod non aveva scampo. Stavolta aveva pensato a tutto.
«Voglio che lo prendiate, sono stato chiaro!?» sibilò alla radio.
Jarod scese silenziosamente il pendio e sottraendosi rapidamente alla luce dei
fari si avvicinò alla recinzione.
Raines rimase immobile in piedi nella stanza della sorveglianza, lo sguardo
fisso sul monitor spento, sembrava una statua di sale, la pelle raggrinzita e
gli occhi infossati rispecchiavano l’aspetto demoniaco del suo carattere. Ma
nonostante la sua impassibile figura il suo nervosismo aumentava di minuto in
minuto. Infilò la mano nella tasca della giacca nera e prese fuori un pacchetto
di sigarette già parzialmente consumato. Uno degli spazzini che lo attorniavano
gli porse l’accendino. Il primo tiro diede seguito ad una serie di spasmi
polmonari che fecero contrarre l’uomo come fosse epilettico. Ripresosi, Raines
inspirò più profondamente dai tubicini e ripeté.
«Questa roba mi ucciderà Grey.» ansimò tossendo soddisfatto.
«Sempre che prima non ti uccida io!»
Raines ed i tre spazzini si voltarono improvvisamente.
«Jarod! Come hai fatto ad arrivare fin qui?» rantolò Raines gettando la
sigaretta ai sui piedi e schiacciandola con piacere perverso.
«Non lo immagini? Mi deludi.»
I tre spazzini estrassero le loro armi automatiche e uno di loro prese in mano
la radio per richiedere rinforzi.
«Ah, se stai cercando Willy e gli altri… mi spiace ma credo che non siano in
condizioni di risponderti ora.»
«Che cosa ne hai fatto?»
«Io?! Io non ho fatto nulla, hanno fatto tutto da soli. - commentò sorridendo e
ripensando ai tre uomini ammanettati tra loro con le loro stesse manette - Non
vi pare strano che servano tante persone per uccidere un uomo solo?»
«Infatti, ne basta una sola!» fece uno degli spazzini alzando la pistola.
«Ah-ah, attenzione, non è così facile…»
Lo spazzino si fermò. Jarod sospirò divertito e con una fulminea mossa gli
sottrasse la pistola dalle mani colpendolo ai polsi. L’uomo gridò e gli altri
spazzini alzarono le armi di riflesso in difesa.
«Sparategli!» gridò Raines indietreggiando.
Ma Jarod era già sparito oltre la porta che si chiuse alle sue spalle.
«Maledetto… prendetelo!»
Gli uomini in nero gli corsero appresso, ma la porta era bloccata: Jarod li
aveva intrappolati.
Sydney aspettava pazientemente nella sua cella con un mezzo sorriso stampato in
faccia guardando divertito lo spazzino di guardia che girava su sé stesso
guardingo, pistola in pugno e radio nell’altra mano. Broots era sempre più
sconvolto, gli occhi sbarrati e l’espressione atterrita, se ne stava tremante
con le mani strette alle sbarre della sua cella.
«Signor Raines, qui è tutto normale, passo.»
«Assicurati che i due prigionieri non fuggano. - ordinò dalla sala di controllo
- Danny, dammi la situazione.»
Danny non rispose. «Ripeto, Danny, dammi la situazione!» gridò spazientito al
microfono della radio sibilando.
«Scusalo, ma ora ha da fare. - ridacchiò Jarod all’altro capo del microfono -
Passo e chiudo!» scherzò.
Raines era su tutte le furie: «È nel settore otto, ha neutralizzato Danny!
Prendetelo, vivo o morto!» sentenziò.
Scese i pochi gradini che precedevano la porta con passo felpato, stringendo
saldamente la sua pistola. Seguiva le grida. Quei lamenti erano terrificanti,
atrocemente pietrificanti. Un brivido scosse la sua schiena mentre tendeva una
mano alla maniglia in ferro della porta. Era spessa, ma ciononostante i lamenti
di dolore laceravano i suoi timpani e la sua coscienza. Si sentiva responsabile,
anche se non si rendeva ancora conto per che cosa. Lentamente afferrò la
maniglia e la spinse, uno spiffero gelato la investì e l’odore del sangue le
invase le narici. Chiuse gli occhi schifata. Un altro brivido la fece vacillare,
riaprì gli occhi e spinse la porta. Entrò.
«Jarod… Jarod!» mormorò rigirandosi nel letto.
Michelle le si fece accanto e le carezzò una guancia per svegliarla: «Miss
Parker… era solo un sogno.» disse dolcemente guardandola in viso.
Miss Parker si guardò intorno sbattendo le palpebre e cercando di mettere a
fuoco l’immagine di una minuscola stanzetta dall’aspetto asettico e pulito:
niente quadri, niente colori, niente luce, solo un letto vuoto accanto al suo e
due sedie di plastica all’apparenza scomode.
«Dove siamo?»
«Saint Catherine’s Memorial Hospital di Whitehall, Montana.» rispose.
Miss Parker gemette ricordandosi la dolorosa esperienza di quegli ultimi due
giorni. Lentamente i suoi occhi si abituarono al buio.
«Devi essere molto legata a Jarod, se chiedi di lui anche nel sonno.» commentò
Michelle ridacchiando.
«Non sono legata a Jarod in nessun modo!» sbraitò più sveglia di prima.
«Ora so che ti stai davvero rimettendo: questa è la Miss Parker che ho
conosciuto.»
«Tu non mi conosci affatto!»
Michelle sorrise bonariamente. Il leggero colorito che già cominciava a
dipingersi sulle gote della donna la faceva apparire molto meno fragile di
quanto le era sembrata prima. «Lui mi ha molto parlato di te, te l’ho già detto,
no?! Io non volevo farti arrabbiare, credimi.»
Miss Parker strinse le labbra e sussurrò minacciosamente: «Ma tu non mi hai
ancora vista arrabbiata.»
«Miss Parker sta male?» chiese una vocina dal pavimento.
Si sporse oltre la sponda del letto e vide Adam che se ne stava seduto su di un
tappeto con il coniglio bianco e Mikey, e la guardava curioso.
«No, Adam, ora sta già meglio.»
«Io… Ahm, … ho avuto un incubo, tutto qui.» confermò.
«Ah! Ricordati Miss Parker, tu ora ti chiami Catherine.» le bisbigliò
all’orecchio Michelle.
«Cosa?!» gridò.
La ragazza sembrò imbarazzata, si ritrasse timidamente e balbettò in segno di
scusa: «Bhè, io non ho molta immaginazione, e quando ho dovuto registrarti con
un falso nome ho visto quello dell’ospedale e… non ti piace?»
Miss Parker arrossì violentemente. Era imbarazzante sentirsi chiamare col nome
di sua madre; era così strano come tutti le dicessero che era proprio uguale a
lei. Rimase in silenzio per qualche istante nel ricordo della sua mamma
scomparsa e si sentì le lacrime salire agli occhi. Si scrollò improvvisamente
quell’immagine dalla mente e riprese: «No, va bene.» In realtà pensò che
l’averla registrata sotto il nome di Catherine Parker avrebbe sicuramente
aiutato il Centro a rintracciarla, se lo avesse voluto.
Michelle le prese una mano tra le sue, era calda e rassicurante.
«Il dottore assicura che starai molto meglio dopo qualche giorno di riposo, ma
vorrebbe tenerti in osservazione in ospedale per via dell’ulcera, potrebbero
sorgere complicazioni.»
Miss Parker rimase sdraiata a letto per qualche secondo senza dire nulla, poi
improvvisamente si alzò a sedere e si strappò i tubi della flebo che aveva
attaccati alle braccia e subito cominciò a sanguinare.
«Ma che fai?»
«Devo andare da Jarod.» rispose tranquillamente tastandosi la testa fasciata.
Michelle le afferrò il polso tenendola seduta. Miss Parker si voltò di scatto e
la fissò negli occhi con uno sguardo gelido.
«Sei impazzita, che cosa vorresti fare?!» insisté strattonandola.
Miss Parker si liberò dalla presa e scese dal letto. Michelle le si parò
davanti.
«Non puoi uscire, non stai ancora bene!»
«Me ne infischio, Jarod si farà ammazzare! Devo andare da lui.»
«No! - gridò - Non devi! Jarod mi ha chiesto di tenerti qui e io farò
esattamente come ha detto.»
«Ma chi sei tu, il suo cagnolino?»
Michelle imbarazzata fece un passo indietro e distolse lo sguardo. «S… smettila!
- balbettò - Stai spaventando i bambini.»
Lei si voltò e posò l’attenzione su Adam e Mikey che si erano nel frattempo
andati a sedere accanto alla finestra e assistevano alla scena con attenzione.
Fuori c’era vento e le pesanti persiane nere sbattevano con violenza, lasciando
a tratti intravedere come un lampo le fronde degli alberi nel cortile agitarsi e
frusciare contro il muro dell’imponente edificio.
«Io mi fido di Jarod. Mi ha promesso che tornerà!»
«E Jarod mantiene sempre le promesse, non è vero?!»
Michelle tentennò, non capiva l’assurda ostinazione di Miss Parker: «Certamente.
Miss Parker, se non ti fiderai di lui non potrà mai aiutarti!»
Lei sospirò spazientita e scosse la testa.
«Credimi! - Michelle le prese di nuovo il polso e la spinse indietro verso il
letto - Se Mikey è qui con me è unicamente merito di Jarod.»
«Smettila con questa commedia! Non ti sopporto! - gridò - Piantala di fare
l’innocentina!»
«Ma che dici?!» balbettò Michelle.
«Tira fuori le unghie invece di appoggiarti a Jarod come una stupida, ho visto
come lo guardi, ti sei innamorata di lui!» fece in tono tagliente.
Michelle sbarrò gli occhi sorpresa: «Allora è questo…?»
«Questo cosa!?» scattò Miss Parker.
«È gelosia! Sei gelosa, è per questo che mi odi tanto!»
Miss Parker impallidì, avvicinò il suo viso a quello di Michelle e con uno
sguardo più freddo del ghiaccio, tagliente e arrogante, le sibilò: «Non dire
sciocchezze ragazzina.»
«Ti prego… ti prego aspetta. Jarod tornerà! Me lo ha promesso e io gli credo!»
Miss Parker si guardò le braccia: due rivoli di sangue sgorgavano dai buchi
degli aghi delle flebo. Alcune gocce erano già cadute a terra e aveva sporcato
il camice bianco e azzurro dell’ospedale. “Ma che diavolo ci faccio qui?” si
chiese. Strinse le labbra e tornò a sedersi sul letto.
«Si era perso nel bosco, non è vero?»
«… »
«Tuo figlio Mikey.»
«Già. Una sera è uscito in cortile a giocare; non era la prima volta, quando ho
guardato fuori e non l’ho visto ho pensato che fosse andato sull’amaca nel
retro, ma venti minuti dopo sono uscita e… e il mio bambino non c’era più. -
singhiozzò - Jarod era un cliente del motel… - riprese - … lui e Mikey avevano
fatto amicizia. Jarod si offerse di organizzare le ricerche, ma dopo tre giorni
non c’era alcuna traccia di Mikey. Ero disperata! E Jarod mi consolò
assicurandomi che sarebbe andato tutto bene, e che se avessi avuto fiducia in
lui sarebbe riuscito a trovare il mio bambino sano e salvo. Il giorno dopo Jarod
e la sua squadra tornarono con Mikey… - Michelle prese in braccio il figlio e lo
coccolò con tanti baci - Devi fidarti di Jarod.»
Adam li osservava inespressivo, ma le sue manine strette alla pelliccia
consumata del coniglio fecero sentire Miss Parker terribilmente in colpa per non
averlo affatto considerato.
Doveva fare qualcosa per porre fine a tutta quella storia, impedire a Raines di
fare una strage e liberarsi del Centro una volta per tutte: doveva chiamare suo
padre.
«Siamo al settore otto…» annunciò un uomo in nero correndo per il corridoio buio
seguito da altri sei spazzini.
«Sparategli, non deve uscire vivo da qui, intesi!?» gridò Raines alla radio.
«Signore, qui non c’è.»
«Trovatelo, era lì un secondo fa, trovatelo!» ripeté spazientito.
Gli spazzini si aggirarono guardinghi agitando le pistole e controllando le
stanze del corridoio male illuminato dalla luce intermittente delle sirene che
ululavano alla notte nera.
Jarod sorrise loro sornione da dietro l’angolo e sparì nel buio senza che
nessuno dei sette uomini si fosse accorto di lui.
Lo spazzino di guardia osservava severo Sydney che aspettava seduto sulla sua
branda con fare rilassato, stoico, quasi irritante. Jarod era ancora vivo e non
si era dimenticato di loro. Presto sarebbero stati liberi.
Con un preciso colpo alla base del collo Jarod atterrò l’uomo di fronte alle
celle prima che lo stesso potesse accorgersene. Emerse dall’ombra come un
vendicatore e si chinò a prendere le chiavi dalla tasca della giacca dello
spazzino sotto gli occhi increduli di Broots e quelli divertiti di Sydney.
«Che piacere rivederti Jarod! Credevamo fossi morto! Meno male… hai ricevuto
l’e-mail?» chiese felice Broots non appena la cella fu aperta.
«Si, ora fuori di qui.» suggerì.
«E Miss Parker?» domandò Sydney.
«È all’ospedale… vi spiegherò più tardi.»
«Già, meglio andarcene da qui.»
«Troppo tardi Sydney.» tuonò una voce dal fondo del corridoio.
«Raines! Come avete fatto a sbloccare le porte?» Jarod si voltò di scatto con la
pistola alzata.
Avvicinandosi scricchiolando lentamente la figura arcigna e spiritata si delineò
in controluce come la sagoma di un mostro.
«Ora sei tu che mi deludi, Jarod, io credevo che fossi un genio, invece sei solo
uno stupido incosciente. Credevi davvero di poter uscire da qui con tanta
facilità? Pensavi forse che ti avrei lasciato andare perdendo questa grande
occasione?»
Jarod mantenne la mira della sua arma sulla fronte del mostro. Era solo, niente
spazzini, a parte l’uomo svenuto a pochi passi di distanza; gli altri erano
stati accuratamente neutralizzati e rinchiusi.
«Non ti vergogni, Raines?!»
«Io sto solo facendo il mio lavoro.» ghignò borioso.
Broots era rimasto impietrito accanto a Sydney, impassibile nonostante la sua
rabbia crescente.
«Che cosa vuoi ancora Jarod, ormai hai il bambino, no?!»
Jarod scosse la testa. «È stato facile. … che cosa vuoi tu, ora?… non ti
permetterò di distruggere la vita di un altro innocente!»
«Già, lo immaginavo.»
Jarod rimase perplesso. Non capiva dove volesse in realtà andare a parare.
«Jarod… - si intromise Sydney - andiamo via.»
Raines lo fissava ancora con quei suoi spiritati occhi grigi a palla. Aveva
qualcosa in mente era più che evidente, per non circondarsi di spazzini e non
portare nemmeno un’arma con sé.
«Non farò il tuo gioco!»
«Ah, ah! Lo stai già facendo.» replicò l’uomo inspirando profondamente dai
tubicini.
Jarod si stava innervosendo era visibile.
«Continua, sono curioso.»
«Jarod andiamocene!»
«Sono d’accordo.» fece Broots guardandosi intorno per cercare una via di fuga.
«Basta giochetti, basta bugie! Sono stufo di te, Raines!»
«Avanti!» sibilò l’uomo.
Jarod fremette di rabbia. Avrebbe voluto ucciderlo.
Le sirene ancora lampeggiavano nella notte, e la luce intermittente pigolava
lungo tutti i corridoi dell’edificio.
«Che cosa mi impedisce di ucciderti?!» gridò in preda alla frustrazione.
«Le cose che so di te.» rispose tranquillo Raines.
«…» la rabbia lo fece rabbrividire, si sentì vuoto, di tutto. Non poteva cedere.
Non doveva cedere. Non adesso e non lì.
«Pensi ancora di potertene andare?!»
«Non sarei mai entrato senza un piano per uscire.»
Sydney sorrise: Jarod era riuscito a controllarsi ancora una volta.
«E quale sarebbe il tuo piano per uscire, Jarod?»
«… Chiedere permesso!» scherzò.
Raines rimase immobile.
Jarod, Sydney e Broots gli passarono accanto e lo superarono, diretti alla porta
che li avrebbe condotti fuori. Raines non tentò nemmeno di trattenerli.
«Se te ne vai ora… ti pentirai di essere mai fuggito dal Centro!» sibilò Raines.
Ma nessuno dei tre si voltò per ascoltare quell’ultima minacciosa constatazione.
L’odore del sangue le punse le narici mentre apriva lentamente la porta. Scese
l’ultimo gradino, trovandosi sulla soglia della stanza: un grande ambiente male
illuminato. Un laboratorio per simulazioni. Tornò a tendere la sua arma davanti
a sé, ispezionando l’aria. Le grida disumane penetravano la sua pelle come lame
affilate, scuotendola nell’anima, facendola rabbrividire ad ogni passo, ad ogni
grido, ad ogni sguardo. Sapeva che era lì, ma non riusciva a vederlo. Non lo
vedeva. Perché? Perché non riusciva a fermarli? Non voleva più sentirlo gridare,
era più forte di lei, doveva fermarli, lo avrebbero ucciso, ucciso dal dolore!
La stanza buia sembrava più piccola ancora di quel che in realtà era. Si scrollò
le coperte di dosso e rabbrividì. Rigirandosi nel letto si accorse di non essere
sola: una piccola palla di pelo morbido era schiacciata sotto il suo braccio
sinistro e una presenza calda poco più in là si contorceva tra le lenzuola. Miss
Parker si trasse a sedere ed accese l’abat-jour sul comodino alla sua destra:
Adam sbadigliava beatamente rannicchiato in un canto del letto, stringendo il
coniglietto. Miss Parker rimase a fissarlo cercando di immaginare come quel
piccolo esserino avesse fatto ad arrampicarsi sulla sponda, poi pensò che
probabilmente doveva aver ottenuto la complicità di Michelle. Si guardò intorno.
Non ricordava nemmeno di essersi addormentata, anzi, l’ultima cosa che le era
rimasta in mente era la lunga conversazione che aveva avuto con Michelle la sera
prima.
Le persiane erano chiuse, ma dalla fessura sbirciava uno spiraglio di luce
tenue. Sospirò e si alzò andando ad aprire la finestra. Fu investita da un vento
gelido che spazzò via ogni sintomo di sonno dal suo corpo e fece entrare
un’atmosfera poco rassicurante nella piccola stanza. Adam mugugnò strofinando
gli occhietti vispi contro il cuscino. Miss Parker richiuse la finestra
rabbrividendo e si riportò sotto le coperte accanto al bimbo.
Adam la guardò inespressivo.
«Che cosa ci fai tu qui?! Dove sono Michelle e Mikey?»
Il bambino non rispose, ma sbadigliò di nuovo e si fece più stretto a Miss
Parker che corrugò la fronte e fece finta di nulla inorridita.
Bussando alla porta entrò un’infermiera con un carrello: «Buongiorno, … -
salutò, e guardando sulla cartella medica - … Catherine Parker. Io sono Tess,
ecco la colazione.» disse porgendole un vassoio.
Miss Parker osservò la scodella con i cereali e il succo di mela e decise che
non aveva fame.
«Come si sente, oggi? - continuò l’infermiera bionda ossigenata andando ad
aprire la finestra. Una folata di vento l’investì e lei inspirò profondamente: -
Oh, che splendida giornata, non le pare?»
Miss Parker la guardò perplessa, ma la donna non se ne accorse nemmeno,
concentrata com’era sulla vista del parco che circondava la clinica: «Una
splendida giornata di sole, ci voleva proprio!» sentenziò, lasciando a Miss
Parker una smorfia di incomprensione sul volto. In effetti, il pallido e singolo
raggio di luce che penetrava a fatica nella stanzetta asettica era molto
differente dalle belle giornate soleggiate e calde di Blue Cove.
«A dire il vero ho un tremendo mal di testa, - fece Miss Parker massaggiandosi
le tempie - non potrebbe portarmi un’aspirina?»
«Un’aspirina?! Prima deve mangiare tutto quello che vede sul vassoio, e poi
chiederò al dottore.» rispose bonariamente.
Miss Parker la guardò storto, ma si accinse anche se riluttante a mangiare
qualcosa.
L’infermiera uscì canticchiando per proseguire il suo giro di distribuzione e
Adam e Miss Parker rimasero soli con la finestra spalancata. Adam rabbrividì.
Lei si voltò a guardarlo con aria rassegnata e si alzò di nuovo faticosamente
per chiudere la finestra.
«Hai fame? - chiese al bambino - Perché non mi aiuti a mangiare quella roba?»
Adam aveva fame e mangiò quasi tutti i cereali, a Miss Parker toccò il succo di
mela, che mandò giù di malavoglia.
Ripensò a Jarod… sperava che stesse bene.
«… Miss Parker…»
Michelle le posò una mano gelida sulla spalla e lei trasalì.
«È la seconda volta che ti chiamo, non mi hai sentita?»
«Ero soprappensiero…»
Michelle era in piedi accanto al letto con la borsa a tracolla e il figlio in
braccio, e si accingeva sorridente a starle accanto per un’altra giornata.
«È tornato Jarod?» chiese sottovoce.
Michelle scosse le treccine imbronciata, ma cambiò in fretta la sua espressione
e affermò: «Non stare in pena, sono passate solo poche ore, sarà di ritorno
quanto prima.»
Adam e Mikey intanto si erano appartati a giocare con le macchinine.
«Il marmocchio è rimasto qui stanotte.» fece Miss Parker seguendo i suoi
movimenti con lo sguardo.
Michelle sorrise dolcemente: «Si, ieri sera non è voluto venire via… credo che
non volesse lasciarti sola.»
«Che premura!» ironizzò.
«Non dire così: si è molto affezionato a te, molto più che a me… Mi chiedo
perché.»
Miss Parker si voltò lentamente verso la donna fissandola con sguardo incredulo
e di rimprovero.
«Scusa.» si affrettò a rimediare Michelle sbattendo gli occhi e recuperando una
sedia.
«Michelle, devi fare una cosa per me.»
«Cosa?»
«Se hai un telefono cellulare prestamelo.»
«Non ce l’ho. A che cosa ti serve? Chi vuoi chiamare?»
«Mio padre, prima che sia troppo tardi.»
Michelle rimase interdetta: «Oh, no, ti prego, Jarod ha detto…»
«Lo so cosa ha detto Jarod, - la interruppe Miss Parker - ma se non chiarisco
questa situazione immediatamente rischiamo di non vederlo più tornare il tuo
caro Jarod!»
Michelle ammutolì.
Adam e Mikey si erano voltati a guardare la scena e Miss Parker scocciata
sbraitò: «La volete smettere?! Continuate a giocare!»
«Ti prego…»
«Oh, basta! Mi hai proprio scocciata: se non mi vuoi aiutare tu mi aiuterò da
sola!» e così dicendo si alzò dal letto e raggiunse il corridoio a grandi passi
sbattendo la porta della camera.
Michelle le corse dietro gridando: «Aspetta, ferma, che vuoi fare?! Ragiona! …»
Un’infermiera si girò a guardare la donna che procedeva speditamente lungo la
corsia senza sapere che fare. La finta bionda che distribuiva la colazione uscì
da una delle camere e le andò dietro gridando: «Ehi! Si fermi, dove ha
intenzione di andare scalza!?»
Imperterrita Miss Parker procedette lungo il corridoio sino all’ascensore e
spinse il bottone, ma venne raggiunta da Michelle e dall’altra infermiera.
«Aspetta, torna a letto!»
«Ha ragione, non può uscire in camicia da notte e a piedi nudi.»
«Sai quanto me ne frega!»
Michelle le mollò un sonoro schiaffo sulla guancia destra che la fece vacillare.
Le porte dell’ascensore si aprirono in quell’istante e Miss Parker indietreggiò
involontariamente. Michelle la trattenne per un braccio; i suoi occhi color
cioccolato erano spalancati e velati. L’infermiera si avvicinò ad uno degli
scaffali in rete metallica che c’erano lungo il corridoio e prese una coperta
per la paziente.
Miss Parker non riusciva a parlare, le parole le si strozzavano in gola tanta
era la sua incredulità e sorpresa. Non si aspettava un gesto tanto forte da una
donna come Michelle; forse la aveva giudicata male: era molto più determinata di
quanto non apparisse.
Michelle ora tremava di rabbia: «Non ti permetto di parlare così! Sei solo
un’egoista! Che cosa ci sto a fare io qui?! È solo per te! Credi che non sia
preoccupata anch’io per Jarod?! - gemette - Io mi faccio in quattro per te, per
Adam, per Mikey, e… tu non fai altro che rendere tutto più difficile! -
singhiozzò - Stupida!»
Miss Parker non la guardò. Ma si fece riaccompagnare in camera dall’infermiera.
«Perdonami, - mormorò Michelle tirando su col naso - non volevo farti male, ma
non sapevo come fermarti.»
«Non preoccuparti. - Miss Parker fissava Adam - … forse non te ne rendi conto,
ma quello che hai fatto era molto simile al gesto di un suicida.» fece a denti
stretti.
Michelle sorrise debolmente.
«Se davvero vuoi andrò a cercarti un telefono cellulare, ma devi promettermi che
non farai sciocchezze, che non metterai in pericolo la tua vita né quella di
Jarod, d’accordo?»
Miss Parker annuì.
Si stava ormai facendo sera. Il pallido sole del mattino aveva lasciato posto
molto presto a nuvole candide e fredde, come batuffoli gonfi di ghiaccio. Il
parco della clinica di Whitehall era spazzato dal vento e le poche foglie
rimaste ancora attaccate ai rami planarono a terra danzando.
Jarod, Sydney e Broots entrarono dall’entrata principale diretti
all’accettazione per chiedere di Miss Parker.
Mentre l’impiegato controllava sul computer Michelle sopraggiunse con un
bicchiere di plastica in una mano ed un giornale nell’altra.
«Jarod! - gridò correndogli incontro - Mio dio! Sono così felice che tu sia qui!
Miss Parker…» non riuscì a finire la frase dall’emozione.
Jarod le sorrise e le presentò Sydney e Broots.
«Come sta Miss Parker, meglio?» si informò.
«Si, è molto agitata, non ha fatto altro che contare le ore.»
Jarod sorrise: «E Adam? E Mikey?»
«È tutto a posto, sono in camera, la trecentotto.»
Michelle fece strada. Sydney e Broots entrarono e Miss Parker li guardò
trattenendo il respiro: «Ah! Syd, Broots! … Jarod!»
«Ce l’abbiamo fatta.» rise lo psichiatra.
«State tutti bene, vero?!» fece apprensiva.
«Si, ma c’è mancato davvero poco che non ci ammazzassero, se non fosse arrivato
Jarod forse ora saremmo sottoterra!» piagnucolò Broots.
Jarod si inginocchiò accanto ad Adam e Mikey e li carezzò sulla testa
amorevolmente. Michelle si avvicinò e gli sussurrò mentre gli altri parlavano:
«Sai, Adam e Miss Parker sono diventati molto amici.»
Jarod le rivolse uno sguardo interrogativo: quando la aveva lasciata Miss Parker
amava i bambini solo quando se ne stavano pacificamente lontani da lei: non
sopportava essere infastidita dalla loro ingombrante presenza, dai loro
elementari bisogni e dalle loro spiazzanti domande.
«Penso che in un qualche modo Adam stia cercando la figura materna che ha perso…
in Miss Parker, anche se non ti so dire perché abbia scelto una donna tanto
insensibile.» sbuffò incrociando le braccia sul petto.
Jarod rise e sollevò Adam dal pavimento e lo adagiò ai piedi del letto di Miss
Parker, lui gattonò sino alla pancia della donna e vi posò la testa. Lei
inorridita scostò le braccia, ma non disse nulla.
Sydney sospirò e Jarod si accorse dell’espressione infelice che lui e Broots
avevano assunto: «Abbiamo un nuovo problema - cominciò a dire lo psichiatra -
Miss Parker ha telefonato a suo padre…»
«Mr Parker?!» lo interruppe allarmato con uno sguardo di rimprovero nei
confronti della ragazza che lo fissava sospirando.
«Già, - proseguì - Mr Parker ha assicurato la sua totale estraneità al progetto,
e garantisce la nostra incolumità per i prossimi giorni, richiamerà al Centro le
squadre di spazzini di Raines, ma afferma di aver ricevuto una telefonata
proprio da Raines questa mattina: … - Jarod annuì invitandolo a continuare - …
Raines sostiene di avere nascosta la sorella gemella di Adam: Eve.»
Jarod sbarrò gli occhi.
«Pensi che sia vero? Forse è solo una trappola.»
Sydney sospirò: «Purtroppo credo di no: in quella cartiera abbandonata ho visto
una bambina piccola, bionda, credo che si tratti della gemellina.»
«Il file di Adam non diceva nulla in proposito.» intervenne Miss Parker.
«Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo tutto… Lo ha fatto apposta, il bastardo!
Lo sapeva! Dannazione!… avrei dovuto capire che nascondeva un asso nella manica
per lasciarci andare via così…»
Rimasero tutti in silenzio.
«Jarod… mio padre ha avanzato una proposta.»
L’uomo si voltò a guardarla negli occhi. Miss Parker aveva un’espressione
triste, quasi di scusa.
«Sentiamo.»
«Raines rinuncerà alla bambina e ad Adam, per sempre, se tu tornerai al Centro…
per sempre.»
Fine prima parte
«Non devi decidere subito, abbiamo ancora dodici ore per pensare a come togliere
la bambina a Raines.»
«Non importa, Syd, non c’è molta scelta.»
«Perché dici così?!» intervenne Miss Parker.
Jarod si voltò a guardarla. La sua figura longilinea si stagliava in controluce,
inquadrata dal rettangolo della finestra, in una cornice arancione e rossa. Un
altro giorno era passato senza che Mr Parker avesse richiamato. Il limite di
tempo fissato per la risposta era la mattina del 18 ottobre, lunedì; e lo
scambio sarebbe avvenuto il pomeriggio stesso in località neutra ancora da
definire. I termini dell’accordo erano chiari: i due gemelli sarebbero stati
liberi se Jarod fosse tornato al Centro di sua spontanea volontà, Raines si
impegnava ad abbandonare il progetto “Simulatore” ed i bambini, il Centro
assicurava il lecito utilizzo delle future simulazioni di Jarod a favore
dell’umanità intera e non a scopo di lucro.
«Non sarà così facile come lo è stato per Adam, questa volta non se la faranno
sfuggire da sotto il naso… inoltre… non sappiamo nemmeno dove sia, ormai la
cartiera sarà stata sgomberata.»
Erano tornati al motel di Michelle; il dottore aveva dimesso Miss Parker con la
raccomandazione di stare a riposo e soprattutto di stare lontana dallo stress,
prescrizione che ignorò completamente.
Jarod sospirò sedendosi sul letto. Avrebbe dovuto sacrificare la sua vita, ma
almeno una bambina sarebbe stata libera.
«Ti rendi conto di che cosa significherebbe per te, Jarod, tornare al Centro?»
insistette Sydney.
«Certo, - rispose l’uomo con rammarico - altri anni di torture e sofferenza, non
è così?! - il suo tono era acido e sarcasticamente pungente. - Ma sono solo dei
bambini! - non aveva fatto altro che dare questa giustificazione alla sua scelta
negli ultimi due giorni - Meritano molto di più, e io non intendo sottrarli alla
loro infanzia!»
«Non tu, Jarod, ma il Centro!»
«… Sydney…»
«Troveremo una soluzione, non sarai costretto a tornare al Centro.» continuò lo
psichiatra andando a sedersi accanto a lui.
Jarod sospirò di nuovo poco convinto.
Miss Parker rimase accanto alla finestra, illuminata dalla luce calda che si
affievoliva lentamente coperta dalle cime degli alberi sulla montagna. Proseguì
il suo silenzio immobile, osservando il crepuscolo che tingeva la foresta
sottostante. Broots e Michelle erano seduti sotto il portico sul davanti e con
loro c’erano i bambini. Miss Parker non poteva sentire le loro parole, ma vedeva
le loro labbra muoversi, ogni tanto sorridere, i loro occhi parlare da soli.
«Se io tornerò Adam ed Eve potranno condurre una vita normale, Raines ha
promesso, questo mi basta.»
«Come puoi fidarti delle parole di quell’uomo?» chiese Sydney polemico.
«Io mi fido di te, Syd, … e so che né tu né Miss Parker permetterete che il
progetto “Simulatore” riprenda con nuovi soggetti.» rispose alzando il capo in
direzione della donna.
Miss Parker si voltò verso di lui con aria inaspettatamente mesta. Lo guardò con
compassione e strinse le labbra. Jarod aveva ragione, il suo lavoro era
riportarlo al Centro, preferibilmente vivo, ma c’era qualcosa di personale tra
loro due: erano cresciuti insieme, non poteva dimenticarlo, lui era stato
l’unica persona alla quale aveva aperto il cuore in quel freddo luogo, dopo la
morte di sua madre. Si rese conto che non sarebbe mai stata capace di ucciderlo,
sebbene gli avesse sparato molte volte, che aveva veramente avuto paura per lui
quella notte, e che non voleva che Jarod soffrisse; voleva che nessuno più
soffrisse, compresa lei.
«Inoltre… - il flusso dei suoi pensieri fu interrotto - … inoltre, se tornassi,
il Centro ti lascerebbe libera di andartene, Miss Parker.»
Miss Parker scosse la testa e tornò a guardare il tramonto, e poi Broots e
Michelle nel portico.
«Una volta al Centro non credo che potrò farti fuggire, Jarod.» disse Sydney
alzandosi.
«Non importa, non cercherò più di fuggire.»
«Ne sei sicuro? Non credo che questa sia una…»
«Non ti preoccupare, Syd.»
Sydney sospirò impaziente ed irritato.
«Va bene così, credimi: finché io resterò al Centro, il Centro non avrà bisogno
di altri simulatori.» concluse Jarod.
Quella notte Jarod non riuscì a prendere sonno. Rimase in silenzio sdraiato
sotto le coperte calde a fissare la finestra. Pensava alla sua libertà
rinnegata. Quelle ore sarebbero state le sue ultime ore da uomo libero. Alla
fine il Centro aveva vinto.
Si rigirò nel letto a fissare la parete scura, in ombra.
In fondo non poteva dire di essere mai stato veramente libero: aveva sempre
avuto qualcuno che lo inseguiva, lo incalzava, gli sbarrava la strada, … erano
stati anni davvero incredibili, sempre con la paura di svegliarsi di nuovo in un
incubo. Però aveva anche imparato molto sulle persone, sul mondo e su sé stesso.
Anche se non era riuscito a ritrovare la sua famiglia ora era sicuro di non
essere solo, sapeva che da qualche parte sua madre, suo padre e sua sorella
erano ancora vivi, e non lo avevano dimenticato.
Si alzò a sedere e accese la luce. La stanza era vuota, la sua valigetta
argentea contenente il lettore dsa era riposta con cura sul comodino accanto al
letto; Jarod la prese e la sistemò sulle ginocchia, la aprì e scelse un filmato:
23/07/72.
Un ragazzino dai capelli castani che gli cadevano sugli occhi si trovava nel
laboratorio per simulazioni assieme a Sydney ed era intento a leggere alcuni
libri di geografia. Si sistemò meglio sulla sedia scomoda e buttò un occhio
verso il tutore che non lo perdeva di vista un istante.
«Che cosa c’è, ti vedo inquieto, Jarod.» disse un giovane Sydney.
Il ragazzino tornò a posare gli occhi sul suo libro, seguendo col dito i
contorni dell’immagine di una piramide. Poi tornò al suo tutore: «Tu ci sei mai
stato in Egitto?»
«No Jarod, ora continua a studiare.»
Il giovane Jarod si alzò dalla sedia con il libro in mano e raggiunse lo
psichiatra seduto sui primi gradini di una scala in ferro. Gli porse il libro e
lo invitò a guardare le immagini con un gesto dello sguardo: «Tu le hai mai
viste queste?» insistette.
«Jarod, non ti stai concentrando a sufficienza. Finisci di studiare e procedi
nella simulazione.»
Visibilmente insoddisfatto il ragazzino tornò al suo posto sotto la luce fredda
di un riflettore e l’obiettivo di diverse telecamere.
«Credi che un giorno riuscirò a vederle, Syd?»
«Jarod, sono stufo di sentire certi discorsi, ora torna alla simulazione.»
«Sono stanco di fare solo simulazioni, Sydney, io voglio sapere per che cosa
faccio tutto questo, perché non posso uscire, perché… ?»
«Jarod, le tue simulazioni servono a salvare molte vite, il tuo lavoro è
importantissimo, per questo non puoi perdere tempo!»
«Ma io voglio uscire, voglio vedere il mondo, voglio sapere che cosa c’è là
fuori e… e magari andare a visitare le piramidi in Egitto e…»
«Ma non è possibile, Jarod!» lo interruppe lo psichiatra.
«Potrò mai uscire da qui, Sydney?»
Sydney non rispose e lo guardò severamente.
Lo schermo in bianco e nero faceva risaltare poco le sfumature sul suo volto, ma
dove prima Jarod aveva letto severità ora si accorse che quell’espressione
somigliava molto più a compassione, e forse a dispiacere. Jarod sospirò e si
guardò intorno. Le pareti di quella stanza gli impedirono di guardare oltre, ma
la sua mente viaggiava attraverso tutti i luoghi nuovi che aveva visitato, le
città, le persone che aveva incontrato ed aiutato.
Nessuno di loro avrebbe più dimenticato Jarod: il suo arrivo segnava sempre una
svolta.
Jarod non era mai stato in Egitto, non aveva mai visto le piramidi, ma la sua
mente conservava comunque molto fresca l’immagine di quei giorni di libertà
apparente che gli avevano permesso di essere chiunque avesse voluto, tranne sé
stesso.
Chiuse la valigetta e la ripose di nuovo con cura accanto al letto. Tornò a
stendersi per qualche minuto, poi si alzò sospirando, si vestì e uscì nel
portico. L’aria era fresca, ma non sentì il bisogno di allacciarsi la giacca. Si
guardò intorno: non vide nessuno, le luci nelle camere erano spente, persino
l’insegna luminosa non lampeggiava. L’unico punto di riferimento era la luna
circondata dalle stelle.
Jarod si sedette sul dondolo accanto alla porta della reception e si cullò
silenziosamente nell’oscurità immobile.
Quella notte stellata, l’aria fresca e pungente sul viso gli portarono alla
memoria il cielo nero, il profumo del mare e tante, tante stelle come non ne
aveva mai viste prima, in una notte del 1974, la notte nella quale Miss Parker
gli aveva detto che avrebbe lasciato il Centro. Quel giorno stava studiando i
moti dei corpi celesti rinchiuso all’interno della cupola di un planetario al
sottolivello sedici, circondato da libri, da immagini e da fotografie scattate
da satelliti. Invano aveva tentato di convincere Sydney a portarlo fuori per
osservare le costellazioni con i propri occhi, il Centro non glielo permetteva.
Poi era arrivata Miss Parker.
Jarod gettò un’occhiata alle finestre buie. Forse stava dormendo, o forse era
insonne anche lei, avvolta nell’oscurità delle coperte; se anche lei avesse
visto quelle stesse stelle probabilmente avrebbe ripensato a quando erano solo
ragazzini, quando l’aveva raggiunto nel laboratorio per simulazioni con gli
occhi tristi e si era seduta accanto a lui a parlare di niente. O forse di
tutto, tutto ciò che passava loro per la mente, senza mai toccare l’argomento
per il quale lei era andata a trovarlo, l’argomento del quale non era ancora
pronta a parlare. Jarod le aveva chiesto com’era la notte e lei gli aveva
raccontato di rumori innocui che improvvisamente diventavano sinistre avvisaglie
di agguati, di cieli neri senza luna, di temporali violenti, di ombre maligne e
di mostri nascosti nei sogni; ma gli aveva accennato anche di silenziose
ninnananne, della voce di sua madre che la tranquillizzava nel buio, di letture
notturne, di coperte calde e abbracci materni. L’unica notte che Jarod conosceva
era il Centro, avvolto in una perenne oscurità, metri e metri sottoterra, senza
mai aprire le porte alla luce del sole.
La aveva vista titubante, tesa, inquieta, ma ancora non capiva il perché; finché
Miss Parker lo aveva preso per mano intimandogli di non far rumore, e lo aveva
condotto lungo gli immensi corridoi deserti e bui, sino in cima alle scale, fin
dove a lui era proibito arrivare, e poi oltre. Oltre la porta.
Jarod non voleva uscire, se li avessero scoperti avrebbero di certo passato
grossi guai, ma Miss Parker aveva insistito col sorriso sulle labbra per la sua
insicurezza, per la prima volta in quel giorno l’aveva vista più serena, come se
non le importasse nulla di essere scoperta. Miss Parker lo aveva portato sul
tetto più alto dell’intero edificio, il terrazzo della Torre.
«Io venivo sempre qui con mia madre quando volevamo parlare da sole.» gli aveva
detto. Jarod era rimasto a bocca aperta: il cielo era limpidissimo e la luna era
solo una falce dorata circondata da miliardi di puntini luminosi, scintillanti,
affascinanti. Si erano seduti uno accanto all’altra, in silenzio, ad osservare
lo spettacolo del cosmo, col naso all’insù. I loro occhi erano lucidi per
l’emozione. «Parlami del cielo, Jarod.» gli aveva chiesto gentilmente. Jarod le
aveva mostrato con entusiasmo le costellazioni, indicandole e raccontandole gli
aneddoti mitologici che le distinguevano. Si sentivano soli al mondo.
«Questa è la cosa più carina che qualcuno abbia mai fatto per me.» le aveva
sussurrato all’orecchio. Miss Parker si era voltata a guardarlo con un sorriso
compassionevole e gli aveva risposto: «Questo è davvero molto triste.» Poi si
era sdraiata sospirando e aveva aggiunto che almeno entro due ore sarebbero
dovuti tornare dentro, purtroppo. L’aria fresca pungeva i loro visi e il profumo
del mare e il rumore ritmico della risacca accompagnavano i loro intimi silenzi.
Jarod si era sdraiato accanto a lei e ricordò di aver pensato che fosse in vena
di coccole, perché Miss Parker si era accoccolata nel suo abbraccio ed aveva
chiuso gli occhi prima che una lacrima le scendesse sulla gota. L’aveva sentita
piangere sommessamente poco dopo, mentre ascoltava il battito regolare del suo
cuore.
«Vuoi rientrare?» le aveva domandato bisbigliando tra i suoi capelli neri,
profumavano di cocco; lei aveva fatto cenno di no con la testa e si era
asciugata in fretta le lacrime, vergognandosi un poco.
«Vorrei restare così per sempre.» gli aveva confidato. Jarod le aveva sorriso ed
erano rimasti così per un’altra oretta, a chiacchierare, finché Miss Parker gli
aveva parlato del progetto di suo padre: sarebbe dovuta partire appena due
giorni dopo per andare a studiare all’estero, in collegio, fra estranei, sola. E
probabilmente non sarebbe tornata prima di sei mesi. Jarod l’aveva lasciata
sfogare, con lo sguardo fisso alle stelle, l’aria pungente gli riempiva gli
occhi di lacrime.
«Non ci vedremo più?»
Miss Parker non aveva risposto, si era limitata a stringergli forte le mani tra
le sue.
Chiuse gli occhi imponendosi di non pensare più al Centro. Era così rilassante
sentirsi avvolto nella giacca pesante, il dondolio al quale si era abbandonato
lo lasciò scivolare lentamente verso il mondo dei sogni.
«Jarod…» sussurrò Sydney avvicinandosi.
Era stato solo un fruscio lontano, un impercettibile richiamo, che bastò a
riportarlo alla realtà. Lo psichiatra gli posò una mano sulla spalla: «Che cosa
ci fai qui?»
Jarod si voltò verso di lui tirando su col naso. La barba incolta gli graffiò la
faccia sfregando contro il collo della giacca.
«Non faccio nulla, non riuscivo a dormire.»
«Sei preoccupato?»
«No.» mentì.
Sydney si chinò su di lui e sorrise beffardamente. Jarod abbassò lo sguardo, si
alzò e insieme attraversarono il porticato di legno, scesero sulla strada
sterrata diretti con passo stanco verso la foresta.
«Se non te la senti di accettare i ricatti di Raines io ti capisco benissimo.»
«Non è così, Syd.»
Si sedettero sull’erba umida.
«Troveremo un altro modo per salvare la bambina.»
«Sydney… sono stanco di fuggire, e Miss Parker è stanca di inseguirmi, io voglio
solo che Adam ed Eve abbiamo un’esistenza normale.»
«Quella che tu non hai potuto avere?» aggiunse Sydney. Anche se non lo aveva
detto a voce alta era ciò che Jarod in effetti pensava.
«Non rimpiango di essere fuggito dal Centro, non rimpiango nessun momento
passato in libertà, - disse sommessamente - … però, se non me ne fossi andato,
forse Raines non avrebbe cercato nuovi simulatori, non avrebbe tentato di
ricreare un nuovo me stesso, non avrebbe ucciso la famiglia di quei due bambini,
…»
«Non è stata certo colpa tua.»
Jarod alzò il viso al cielo. La luna si rifletteva sui suoi occhi velati di
tristezza. Non avrebbe più visto notti come quella.
«Voglio che domani tu e Broots torniate al Centro.»
«Perché?»
«Sarà Miss Parker a consegnarmi a Lyle e Raines, la farà felice.»
Sydney rise: «Tu pensi? Sai, in fondo non credo che lei ti voglia realmente
rivedere rinchiuso al Centro.»
«Miss Parker fa solo il suo lavoro.»
«Ma io so che non vorrebbe farlo. - replicò lo psichiatra. Jarod fece una
smorfia. - Avete parlato in questi giorni?» chiese Sydney.
«Di che cosa avremmo dovuto parlare?»
«Non le hai detto nulla?»
Jarod non rispose. Il cielo quella sera era più nero del solito, e le stelle
erano così affascinanti che non volle rispondere. Lo sguardo perso nel vuoto,
nell’infinità dell’universo, restò immobile a decifrare le costellazioni. Sydney
non disse nulla, aspettando di sentirlo parlare di nuovo. Attese.
«Non riuscivi a dormire, Sydney, perché non vuoi che torni al Centro, non è
così?»
Sydney annuì col capo.
«Sei sempre stato molto protettivo nei miei confronti, grazie, Syd, io ti devo
tutto quello che sono.»
Sydney non disse nulla.
«In questi anni sei rimasto al Centro solo per me, ma ora voglio che tu te ne
vada.»
Sydney si voltò stupito verso l’uomo: «Ma che cosa dici?»
«Devi lasciare quel posto, il più presto possibile, vai da tuo figlio e sii un
buon padre per lui come lo sei stato per me.»
«Jarod…»
«Non voglio che tu passi la tua vita in quella prigione, non voglio che altri
bambini debbano rinunciare alla loro infanzia, non voglio che Miss Parker
rimanga al Centro, quel posto la sta distruggendo!»
Sydney si accorse che stringeva i pugni involontariamente, e che le lacrime
erano arginate a fatica sotto le ciglia. Jarod aveva una sensibilità
particolare, spontanea, come se fosse rimasto un bambino. Non avrebbe mai potuto
abbandonarlo. Gli posò una mano sulla spalla e si alzò.
«Hai pensato a me, ad Adam ed Eve, a Miss Parker, … ma non hai pensato a te
stesso. - concluse - È proprio questo che vuoi?»
La domanda di Sydney non ebbe mai una risposta. La mattina dopo Sydney e Broots
rientrarono al Centro, non prima che Miss Parker avesse chiamato suo padre.
Jarod accettava la proposta, era disposto a consegnarsi nelle mani del Centro
quel pomeriggio stesso, in una radura nel bosco, nei pressi del motel di
Michelle. Lyle e Raines sarebbero arrivati con un elicottero, avrebbero
effettuato lo scambio e se ne sarebbero andati mentre Miss Parker avrebbe
portato al sicuro i due bambini prima di ritornare al Centro.
L’auto si arrestò nel punto prestabilito seminascosta da una siepe. Mancavano
ancora venti minuti all’appuntamento, ma avevano preferito presentarsi in
anticipo per evitare spiacevoli inconvenienti. Jarod sorseggiò dell’acqua da una
bottiglietta fissando il cielo. Miss Parker si guardava in giro nervosa.
Scesero dalla macchina. Era una bellissima giornata, come preannunciava la sera
precedente: un bel sole illuminava il bosco e l’aria era quieta; faceva fresco,
ma non era freddo, tanto che nessuno dei due aveva il cappotto. Controllarono
con lo sguardo lo spazio circostante: un prato erboso circondato da alberi
sempreverdi, con un tappeto di aghi ai loro piedi. C’erano ancora rami caduti,
spazzati dal vento qualche notte prima; qualche centinaio di metri più a nord
c’era la strada, ma non la si poteva vedere da lì. Erano soli, per il momento.
Adam rimase in macchina, sdraiato sul sedile posteriore in un ritaglio strappato
al sole, in compagnia del suo peluche.
Jarod incrociò le braccia sul petto e si appoggiò al cofano anteriore dell’auto,
in attesa. Rimasero in silenzio.
Miss Parker inspirava profondamente l’acre odore dei pini. Era veramente
inebriante, si sentì svuotare i polmoni, rimase senza fiato per qualche istante,
poi riprese affannosamente a respirare. Era di nuovo pallida. Jarod se ne
accorse, ma non volle urtare le corde scosse della donna e non disse nulla.
«Non avrei mai immaginato che potessi affezionarti ad un bambino come Adam.»
Miss Parker rabbrividì un istante e si voltò verso la macchina nella quale
riposava il bimbo. Poteva vedere solamente un piedino al sole.
«Adam è un bambino particolare.»
«Su questo non c’è dubbio.»
Miss Parker mantenne lo sguardo su quel piccolo piedino. «Non è come gli altri
bambini: non strilla, non salta, non gioca, non tocca tutto ciò che vede, … e
soprattutto fa tutto ciò che gli dico di fare.»
Jarod sorrise amaramente. Se Adam non era come gli altri bambini era colpa del
Centro: erano stati gli uomini di Raines ad uccidere i suoi genitori sotto i
suoi occhi e a dividerlo dalla sorella. Avrebbe tanto voluto aiutarlo, ma non ne
aveva avuto il tempo.
«Quando sarò nelle mani di Lyle dovrai andartene il più velocemente possibile
con i bambini, stai attenta a non farti seguire e portali al sicuro; mi
raccomando non fermarti.»
Miss Parker lo guardò con compassione: «Sei sicuro di voler andare fino in
fondo?»
Jarod annuì. Lei tornò a posare il suo sguardo su Adam, cercando di immaginare
la gemellina. Era sicura che sua madre avrebbe fatto il possibile per salvare
quelle povere creature, e lei avrebbe fatto lo stesso. Ma in cuor suo non voleva
che Jarod si consegnasse al Centro dopo tutti gli sforzi che aveva compiuto per
rintracciarlo negli ultimi anni.
«Alla fine ce l’hai fatta: mi hai riportato al Centro.»
Miss Parker sorrise non troppo convinta: «Non era così che sarebbe dovuta
andare.» fece alzando gli occhi al cielo a fissare le nuvole a strisce che
passavano svogliatamente sopra di loro.
«Ah, no?! e come pensavi sarebbe andata?» chiese Jarod incuriosito.
Lei sbuffò: «Immaginavo di spalancare la porta dell’ufficio di mio padre con un
sorriso di trionfo e trascinarti dentro tenendoti per i capelli… - Jarod fece
una smorfia di dolore - … e poi ti avrei sbattuto ai piedi della sua scrivania
legato come un salame. Ovviamente saresti stato coperto di lividi.» concluse con
un sorrisino sadico.
Jarod la fissava sgomento: «Davvero avresti fatto questo?»
Miss Parker rise e si voltò a guardarlo: «Non lo sapremo mai.»
Jarod sospirò tornando a guardarsi intorno. Miss Parker si avvicinò a lui
noncurante. Jarod aveva un profumo inebriante come quello dei pini, lo stesso
che le aveva invaso le narici nella stanza del motel quando era ancora
febbricitante. I due forti aromi si mescolarono inesorabilmente e Miss Parker
chiuse gli occhi imprigionata in quella sensazione. Vide Adam.
Li riaprì immediatamente come svegliandosi da un sogno e rimase a contemplare la
distesa erbosa.
«Ora finalmente potrai lasciare il Centro.»
Jarod aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri e ora la fissava. Miss Parker
rimase in silenzio senza trovare le parole: lei sarebbe stata libera, ma lui non
più.
«Non sarò mai completamente libera da quella prigione, Jarod: mio padre è il
topo a capo della fabbrica di formaggi!»
Jarod rise: Lyle aveva usato la stessa espressione una volta. Evidentemente i
legami di sangue tra gemelli erano più forti di quanto loro stessi non volessero
ammettere.
«Jarod… siamo ancora in tempo per rifiutare…»
Lui la guardò negli occhi tristemente, poi distolse lo sguardo insostenibile e
sorrise al cielo: «Non importa. Mi basterà sapere che non ti dimenticherai di
me. - Miss Parker rimase senza fiato - Tornerai a trovarmi a Natale?»
Ora sentiva gli occhi riempirsi di lacrime e la gola secca. Non riusciva a
parlare. Incredibilmente si scoprì a stringere la sua mano tra le sue. Si
accorse che entrambi avevano gli occhi lucidi.
«Io non li sopporto gli addii!» esclamò. Jarod rise.
«Se questo è un addio significa che non ci vedremo mai più.» disse tristemente
l’uomo sempre senza guardarla. Miss Parker scosse la testa: «No… io non potrei
mai dimenticarmi di te.» Si stupì di aver pronunciato quella frase sdolcinata.
Una lacrima scese lungo la gota di Jarod, silenziosa. Non avrebbe mai sperato di
sentirle dire tali parole. Miss Parker allungò una mano sul suo viso e gli
carezzò la guancia scacciando la lacrima indesiderata con delicatezza.
«Non siamo mai stati così vicini come in questi giorni.» sussurrò. Si alzò sulle
punte dei piedi.
Jarod chiuse gli occhi e la fermò posandole due dita sulle labbra. Miss Parker
chiuse gli occhi a sua volta, ma li riaprì quasi subito, riuscendo a trattenere
a stento le lacrime. Jarod la guardò negli occhi per qualche istante affascinato
dalla chiara lucentezza. Sospirò tristemente: «Se il Centro sapesse, saresti nei
guai.» le sussurrò.
Il profumo di Jarod ora era tutto ciò che riusciva a percepire nell’aria. Era
talmente intenso da farle girare la testa.
«Al diavolo il Centro?!» disse inarcando le sopracciglia e trattenendo il
respiro.
Le cime degli alberi ad est oscillarono e le pale di un elicottero comparvero
sopra la distesa degli abeti spostando con violenza il tappeto d’aghi
sottostante e mettendo in fuga gli uccellini appollaiati sui rami.
«Troppo tardi.» concluse amaramente Miss Parker tornando sui suoi passi.
Jarod la allontanò dandole un frettoloso bacio sulla fronte, sperando che
nessuno dall’elicottero se ne accorgesse.
Era tempo di tornare a casa.
L’elicottero atterrò e prima ancora che le pale smettessero di roteare scesero
Lyle con alcuni spazzini ed una bambina vestita di blu. Eve.
Gli spazzini rimasero accanto all’elicottero, mentre Lyle si avvicinava
spingendo la bimba riluttante.
Miss Parker aveva assunto di nuovo la sua aria severa e di disprezzo. Il suo
sguardo era tornato glaciale, ben diverso da pochi istanti prima. Spinse Jarod
verso il centro della radura, dove Lyle li aspettava con Eve.
«Complimenti sorellina, papà è al settimo cielo.» la salutò l’uomo senza un
pollice.
«È lei, Eve?» chiese senza tanti complimenti.
«Si.»
Miss Parker la osservò bene: i lineamenti del viso e gli occhietti vispi la
convinsero.
«Ma ancora non capisco perché ti sia alleata con Jarod, sorellina, il
Triumvirato era molto contrariato dal tuo comportamento.» continuò Lyle.
Miss Parker si avvicinò all’uomo: «Spero che tu marcisca all’inferno, Lyle.»
sibilò.
Lui alzò le spalle sorridendo: «Buon giorno anche a te!» scherzò.
Si chinò sulla bambina, le sorrise: «Io mi chiamo Miss Parker, Eve, vuoi venire
con me?»
La bambina non rispose, mantenendo un’espressione di assoluto distacco sul
visino paffuto. Miss Parker la prese in braccio frettolosamente rivolgendo
un’occhiataccia al fratello e agli spazzini che attendevano istruzioni
dall’elicottero, si voltò verso l’auto con la quale lei e Jarod erano venuti e
si affrettò a portare via Eve.
«Ci vediamo al Centro.» la salutò Lyle con un cenno della mano mutila, mentre i
suoi spazzini ammanettavano Jarod. Miss Parker adagiò Eve sul sedile posteriore
accanto al fratellino e si voltò a guardare un’ultima volta lo sguardo profondo
di Jarod. Non avrebbe mai voluto lasciarlo andare via con Lyle.
Prese fiato e salì sull’auto, andando via sgommando.
L’auto di Miss Parker sfrecciava sull’asfalto dissestato della strada statale
costeggiata da alberi. La ragazza stringeva saldamente il volante tra le dita
affusolate mantenendo gli occhi sulla strada deserta davanti a sé. Ogni tanto
sbirciava sullo specchietto retrovisore per controllare di essere veramente
soli. Adam ed Eve sedevano silenziosi l’uno accanto all’altra sul sedile
posteriore. Viaggiavano da ore e nessuno aveva più detto una parola da quando
avevano lasciato la radura. Il sole li stava ormai abbandonando, calava
rossastro tingendo d’oro i rami spelacchiati degli alberi. Eve era identica al
fratello: taciturna, non sorrideva mai, non faceva capricci, non piangeva. Adam
aveva messo tra loro il suo coniglietto di peluche e ognuno di loro stringeva
una zampetta nella manina bianca.
«Avete fame?» chiese Miss Parker gettando un’occhiata dietro di sé.
«No.» rispose Adam.
Miss Parker si tacque per un istante, tornando a guardare la strada.
«Adam, da quanto tempo ci sta seguendo quell’auto?»
Il bambino si alzò in piedi sul sedile per controllare dietro, ma non disse
nulla.
Improvvisamente l’auto sterzò e li raggiunse. Una mano guantata si affacciò al
finestrino oscurato e sparò nella fiancata.
«Giù! State giù!» gridò Miss Parker ai due bambini che si accucciarono
immediatamente.
L’auto sbandò. Probabilmente un colpo aveva raggiunto la ruota posteriore e Miss
Parker non riusciva più a controllare la direzione. L’auto del Centro li superò
e sterzò bruscamente davanti a loro. Si scontrarono e la berlina con i due
gemelli e Miss Parker fece un giro su se stessa, scivolando sull’asfalto e
finendo fuori strada si arrestò contro il tronco di un abete.
«Portatelo dentro!» ordinò Lyle agli spazzini.
Jarod era ammanettato e bendato, a torso nudo. Willy lo spinse lungo il
corridoio buio mentre la telecamera di sorveglianza seguiva i loro movimenti. Un
secondo spazzino li precedeva e un terzo chiudeva la fila, burbero.
Lo spazzino in testa si fermò davanti ad una porta oscillante e la tenne aperta
per far passare gli altri. Un nuovo corridoio sul quale si aprivano cinque porte
blindate venne percorso rapidamente e Jarod fu spinto violentemente dentro una
delle celle. Venne sbendato e gli spazzini gli legarono mani e piedi, e lo
agganciarono al soffitto con una catena.
«Dov’è Sydney?» continuava a gridare Jarod dimenandosi e cercando di sottrarsi
alle catene.
La stanza era molto grande, anche se illuminata da un unico riflettore puntato
sugli occhi di Jarod che si contorceva impotente.
Lyle entrò con passo svogliato massaggiandosi la mano mutila coperta da un
guanto di pelle.
«Se continuerai ad agitarti così mi verrà una terribile emicrania. - sentenziò
aggrottando le sopracciglia - Dovrò prendere provvedimenti.»
Fece un cenno colla mano a Willy, il quale sparì per qualche istante nell’ombra
e riapparì con un manicotto da pompiere tra le mani.
«Procedi.» ordinò Lyle.
Jarod fu investito da un violento getto d’acqua ghiacciata che gli gelò il
sangue nelle vene. Gridò.
«Giusto per schiarirti le idee.»
«Dov’è Sydney?» insistette.
Lyle alzò un dito e una nuova scarica d’acqua questa volta bollente si rovesciò
su di lui.
Jarod gridò di nuovo disumanamente. Sentiva la pelle bruciare, i nervi
contrarsi. Rabbrividì.
«Se non ti calmerai sarò costretto a usare le maniere forti.» disse serafico
l’uomo senza un pollice portando sotto la luce una siringa piena di liquido
giallognolo.
Jarod non riusciva a parlare: «No… - balbettò - che cos’è?… non erano questi i
patti!» farfugliò.
«Hai ragione, non avresti dovuto fidarti.» disse porgendo la siringa ad uno
degli uomini in nero.
«Che intenzioni hai, Lyle!» gridò Jarod dimenandosi.
«Ah, a proposito, ho saputo proprio adesso che l’auto di Miss Parker è stata
trovata sulla strada statale.» disse Lyle mentre uno degli spazzini tratteneva
Jarod e l’altro gli iniettava la sostanza.
«Lyle!» gridò l’uomo dimenandosi.
«Stai tranquillo. Tra poco non potrai più nemmeno muovere un muscolo. - rise -
Purtroppo la mia sorellina non ce l’ha fatta. - continuò - Già, la sua macchina
si è scontrata contro un albero… guidava troppo veloce! … Sono morti tutti,
anche i bambini. Che disgrazia.» scherzò.
«Lyle! Bugiardo!»
Lyle rimase impassibile, mentre Jarod cercava di combattere l’effetto del
narcotico. La sua vista si stava appannando e le luci puntate su di lui
divenivano sempre più intense, fino a far diventare i contorni indecifrabili,
sagome informi che si affollavano attorno a lui. La voce di Lyle risuonò nella
sua testa molto più dura e severa: «Non puoi sottrarti al Centro, Jarod.»
insistette arrogante.
«Lyle! - continuava a gridare - Figlio di un cane! Bastardo!…»
«Non è carino, da parte tua.» scherzò.
Jarod ansimava e gli occhi gli bruciavano terribilmente riempiendosi di lacrime.
La sua temperatura corporea era notevolmente aumentata e le gocce d’acqua che lo
avevano investito prima scivolavano via lentamente, assieme al sudore.
«Dì la verità! Bastardo! - continuò a gridare mentre Lyle si allontanava - Miss
Parker!… sei solo un bugiardo! Miss Parker…!» chiamò più forte.
Lyle si voltò verso di lui con aria beffarda, ma Jarod non poteva vedere che una
forma scura confusa tra la luce, una sagoma oscillante.
«Un po’ di rispetto, per favore, ho appena perso una sorella.» disse falsamente
serio in volto, con lo sguardo arrogante, sprezzante e un’aria troppo sicura di
sé.
«Lyle! … Non l’hai mai considerata una sorella! L’hai fatta uccidere! … Miss
Parker!…» Jarod non riusciva più a mantenere lucida la vista, sentiva gli occhi
pesanti, così come le braccia e le gambe. Non avrebbe resistito ancora a lungo.
Non poteva pensare che Lyle dicesse la verità: doveva essere per forza una
menzogna.
«… Miss Parker…» bisbigliò tra sé, prima di perdere conoscenza.
Lyle uscì dalla cella lasciandolo solo. Gli spazzini lo seguirono chiudendo la
porta alle loro spalle. Lyle fece cenno loro di andare, avviandosi anche lui
verso l’uscita. Una figura si mosse nell’ombra davanti a lui: «Che scena
commovente.» sibilò la voce femminile.
«Brigitte…»
La donna scivolò sotto la luce, mettendo in mostra il suo pancione.
«Cominci a sembrare una mongolfiera, - disse Lyle senza scomporsi - senza
offesa.» aggiunse.
«Naturalmente.» replicò la donna scostando una ciocca di capelli biondi. Era
ormai al settimo mese di gravidanza e continuava a succhiare lecca-lecca come di
consueto.
«Che cosa ci fai qui?» le chiese Lyle.
Brigitte si inumidì le labbra e ignorò la sua domanda: «Non credi di essere
stato un po’ brusco con lui? - disse riferendosi a Jarod - … dirgli della triste
fine della mia povera figliastra così crudelmente… gli hai spezzato il cuore.
«Lyle sbuffò spazientito e la scansò per proseguire oltre.
«Mio marito non lo accetterà mai: hai dato l’ordine di uccidere tua sorella
gemella, Lyle, è orribile!» scherzò trattenendolo per un braccio.
Lyle si ritrasse fissandola negli occhi: «Era diventata una traditrice, si era
alleata con Jarod, e il Triumvirato ha pensato bene di eliminarla.» si
giustificò.
«Il Triumvirato?!» insistette Brigitte massaggiandosi il pancione.
Lyle sospirò spazientito: «Lo so che mio padre era molto affezionato a mia
sorella, ma non c’era altra soluzione… quella donna stava seguendo le orme di
nostra madre e avrebbe messo nei guai il Centro e tutto il nostro lavoro, lo
capisci?!» Lyle si irrigidì. Brigitte lo osservò sorridendo e succhiando il suo
dolcetto.
«Dopotutto non l’ho mai considerata come una sorella.» concluse l’uomo girando
lo sguardo ed andandosene.
Brigitte rimase ancora qualche istante sotto la luce del corridoio con un
sorriso malizioso in volto guardando Lyle che girava l’angolo e scompariva. Poi
si ritrasse e scomparve a sua volta nell’ombra.
L’aria era immobile, impregnata dell’odore pungente dei pini. Aprì gli occhi
lentamente. Era così silenzioso il bosco. Mise a fuoco la vista e si accorse di
essere ancora nell’auto, seduta al posto di guida. Si alzò a sedere di scatto,
voltando lo sguardo sui sedili posteriori. Vuoti.
«Adam… Eve!» sussurrò costernata. Uscì sbattendo la portiera contro l’albero e
sfrisando la carrozzeria grigia dell’auto a noleggio. La fiancata sinistra era
ormai completamente distrutta, crivellata dai colpi di proiettile esplosi nel
tentativo di ucciderla.
Miss Parker si rese conto di essere sola sulla strada. Nessun’auto in vista,
nessuna traccia degli uomini del Centro. Girò su se stessa senza sapere che cosa
fare, passandosi una mano tra i capelli neri.
«Merda!» esclamò arrabbiata. La sua ferita alla fronte era ancora bendata, ma le
faceva male per il colpo che le aveva fatto perdere conoscenza nell’incidente.
Tastò sulla garza, per controllare che non uscisse sangue di nuovo e si accinse
ad inseguire gli spazzini del Centro. La loro auto era rimasta accanto a quella
grigia di Miss Parker, quindi non potevano essere molto lontani. Per quanto
tempo era rimasta priva di sensi?
«No!» Il grido attirò l’attenzione della donna nell’interno della foresta. Si
voltò di scatto nella direzione di provenienza e si mise a correre tra gli
alberi, inspirando l’aria fredda e profumata che le bruciava i polmoni.
«Adam!» gridò
«Ah!» Un altro grido dalla stessa direzione. Che cosa stavano facendo a quei
poveri bambini?
Miss Parker si rese conto di non riuscire a correre veloce come avrebbe voluto:
un dolore pulsante le colpiva l’addome ad ogni passo avanti. Trattenne il
respiro, ma non servì a nulla. Si fermò per riprendere fiato un istante, poi
riprese l’inseguimento. Perché avevano abbandonato l’auto e li avevano portati
nel bosco? Che cosa stavano facendo? Perché non l’avevano uccisa subito?
Miss Parker giunse infine sull’argine di un fiume, lo stesso che aveva salvato
la vita sua e di Jarod qualche giorno prima. Scorse i due uomini in nero che
trascinavano i due gemelli sul ponte di legno poco distante.
Ansimando Miss Parker li raggiunse senza farsi notare.
«Stai attento che non ci veda nessuno! Deve sembrare un incidente.» disse uno
dei due all’altro sollevando Eve oltre il parapetto. L’altro fece lo stesso con
Adam.
«Fermi! O sarà peggio per voi!» intimò loro Miss Parker estraendo la pistola e
avanzando nella loro direzione con passo felpato nonostante il crescente dolore
all’addome.
«Credevo fosse morta.» balbettò il primo spazzino in tono di scusa, rivolgendosi
al compagno.
L’altro non rispose e senza perdere di vista la donna alzò Adam sopra la testa
gridando: «Se non getti quell’arma giuro che lo butto di sotto.»
Miss Parker si arrestò a pochi metri dai due uomini in nero, mantenendo la mira.
«Getta l’arma!» ripeté l’uomo.
Miss Parker passò lentamente la pistola da una mano all’altra, alzando le
braccia.
«Ora gettala a terra, e spingila verso di noi.» continuò l’uomo.
Miss Parker obbedì, riluttante, avvicinandosi agli spazzini. I due uomini
indietreggiarono sensibilmente, allontanandosi involontariamente dalla sponda
del ponte. Il fiume scorreva tranquillo sotto di loro, cingendo gelidamente le
rocce levigate e dure. Miss Parker prese fiato, traendo un lungo respiro.
Il suo sguardo divenne insostenibile, freddo, pungente, cattivo. Passo dopo
passo si avvicinava sempre di più costringendo i due spazzini ad allontanarsi
involontariamente dal parapetto sempre più.
«Ferma dove sei o li uccido!» esclamò lo spazzino tendendo la sua arma contro di
lei.
Miss Parker guardò negli occhi di Adam e poi in quelli vitrei dell’uomo. Sentì
la forza scorrerle nelle vene, sentì il sangue fluire alla testa e in una
frazione di secondo disarmò lo spazzino con un calcio.
L’uomo rimase senza fiato, incredulo, lasciò cadere il bambino sul legno del
ponte. L’altro non perse tempo e sparò alla donna. Miss Parker si abbassò
schivando i colpi e scivolando accanto al parapetto gli assestò un calcio dietro
al ginocchio. Lo spazzino cadde e Eve si dimenò nel tentativo di liberarsi.
Miss Parker recuperò ai suoi piedi la sua arma e sparò al primo uomo ancora in
piedi, il quale cadde riverso ai piedi di Adam. Miss Parker restò in ginocchio
ansimando, spostò la mira sul secondo uomo a terra di fronte a lei, puntandogli
l’arma alla fronte.
«Ora, scegli se vivere o morire.» sentenziò senza sfumature nella voce.
Lo spazzino, biondo tinto, alzò le mani lasciando la presa sulla sua pistola e
sul braccio di Eve.
«Non mi uccidere, ti prego!» implorò lo sventurato.
Miss Parker alzò un sopracciglio e si alzò in piedi, facendo segno all’uomo di
imitarla.
Eve corse accanto al fratello.
«Adam, Eve, perché non andate in macchina?!»
Nessuno dei due si mosse, gli occhi fissi sull’uomo ferito ai loro piedi.
«Non ti preoccupare, sembrerà un incidente!» disse Miss Parker sorridendo
maliziosamente allo spazzino.
«No, ti prego!» scongiurò di nuovo.
«Prendi il tuo amico e levagli i vestiti.»
«Cosa?» balbettò.
«Hai capito, e poi spogliati anche tu.»
L’uomo obbedì riluttante: «Più in fretta, scansafatiche!» gridò Miss Parker.
Cercò i due bambini con lo sguardo. Erano scesi dal ponte, tenendosi per mano,
fissavano inespressivi il corpo incosciente dello spazzino ferito che veniva
denudato dal collega, svestito a sua volta.
«Ora prendi i vestiti e gettali dal ponte.» ordinò perentoria.
Lo spazzino eseguì, tremante per il freddo d’ottobre.
«Molto bene. Ora andateveli a riprendere, i vostri stracci.» fece la donna
allontanandosi di schiena in direzione della strada statale. Raggiunse Adam ed
Eve che assistevano alla scena senza battere ciglio. Miss Parker prese la mano
della bimba e senza perdere di vista lo spazzino sul ponte tornò sui suoi passi,
lasciando l’uomo a contemplare il fiume che scorreva via con i suoi vestiti e
quelli del collega ferito che mugugnava sul legno bagnato.
Tornati di nuovo alla strada statale Miss Parker si liberò l’anima traendo un
profondo sospiro di sollievo e massaggiandosi le tempie. Le faceva male la testa
e sentiva il suo addome contrarsi in terribili spasmi. Si piegò sulle ginocchia
con una smorfia di dolore strizzando gli occhi. Li riaprì.
Adam e la gemellina la fissavano incuriositi.
Miss Parker ansimò per qualche istante, poi si rialzò.
«Stai male, Miss Parker?» chiese Eve.
«No… No, non ti preoccupare.» rispose non troppo convinta. La sua ulcera
cominciava a fare i capricci sempre nei momenti meno opportuni.
«Quell’uomo… - cominciò Adam - … è morto?»
Miss Parker e la sorella si voltarono verso di lui: «No.» rispose di nuovo Miss
Parker.
«Morirà?» incalzò la sorella.
Miss Parker li guardò con compassione. Evidentemente non era la prima volta che
assistevano ad una scena del genere, non alla televisione. La donna sorrise
debolmente: «Non preoccupatevi, stavo solo scherzando, non morirà più nessuno,
ve lo prometto.» disse dolcemente. Si stupì di quella frase, e ancor più del suo
tono di voce. Era la seconda volta in quella strana giornata che si sorprendeva
di se stessa.
Salirono tutti e tre sull’auto del Centro, poiché la macchina a noleggio era
fuori uso, e proseguirono lungo la strada statale.
In una stanza buia del Centro al sottolivello ventidue uno degli spazzini di
Raines controllava le coordinate sul computer. Una dettagliata piantina del
Montana era a schermo intero, e il mouse scorreva velocemente da un punto
all’altro, scegliendo icone e spazi da ingrandire. Un puntino rosso lampeggiante
in mezzo alle montagne seguiva la strada statale segnata in nero, dirigendosi
verso il centro della città più vicina: Butte.
«Li abbiamo localizzati, Mr Raines.» disse uno degli spazzini indicando il punto
lampeggiante sullo schermo.
«Mandate un’altra squadra da Butte.» ordinò.
«Subito, Mr Raines.»
Raines rimase a fissare lo schermo senza in realtà vederlo: la sua mente
viaggiava sulla strada statale segnata dalla mappa, seguiva la berlina del
Centro che sfrecciava tra gli alberi verdi, vedeva lo sguardo determinato di
Miss Parker alla guida e la ieraticità sul volto dei due gemelli. Li voleva
morti.
«Volete fermarvi un momento? Avete bisogno di andare in bagno… avete fame?»
chiese Miss Parker osservando i visini dei due bimbi attraverso lo specchietto
retrovisore.
Entrambi fecero segno negativo col capo.
«Vi sentite bene?»
Nessuno dei due rispose, né verbalmente, né gestualmente.
Miss Parker tornò a guardare la strada asfaltata. Un cartello annunciava la
distanza di diciotto miglia da Butte.
Miss Parker frugò con la mano nella borsa sul sedile accanto al suo e ne
estrasse una bottiglietta opaca, color rosa pallido, la aprì con i denti e bevve
lentamente il contenuto. La medicina per l’ulcera. Sperò di non essere troppo in
ritardo: lo stress di quegli ultimi giorni si stava trasformando in malattia, ne
aveva avuto un primo assaggio con la febbre che era sparita da poco.
Ormai non viaggiavano più soli: cominciavano ad incontrare altre auto, camion e
furgoni, sulla stessa carreggiata e su quella opposta. Era più difficile ora
riuscire a capire se qualche temerario spazzino li stesse sorvegliando, Miss
Parker era sicura che sarebbero tornati all’attacco, e la compagnia di altri
automobilisti non avrebbe inibito gli assassini del Centro.
Superarono il cartello pubblicitario di un ipermercato.
Non potevano sfuggire.
Lo spazzino ricevette istruzioni all’auricolare e fece cenno al collega alla
guida di raggiungere l’auto prima che entrasse in città, erano ormai
vicinissimi, quando Miss Parker sterzò a destra in direzione dell’ipermercato.
«Seguiteli, - ordinò Raines all’altro capo della radio - … e uccideteli!»
«Li abbiamo persi.» comunicò qualche istante più tardi l’uomo alla guida.
«Sono all’interno.» rispose uno degli addetti al computer nella sala al
sottolivello ventidue.
«A che piano?»
«Un istante. - fece l’altro cercando la planimetria dell’edificio, trasferì la
grafica sul computer e rispose:
- Terzo.»
Gli spazzini salirono le scale in fretta, guardandosi intorno. L’ambiente era
affollato e rumoroso, una donna strillava messaggi pubblicitari attraverso un
megafono, cercando di attirare l’attenzione dei clienti. Il terzo piano era
riservato all’abbigliamento per bambini, e ovunque i due uomini si voltassero i
corridoi tra gli scaffali erano gremiti di madri con figli al seguito. Non
sarebbe stato facile trovare Miss Parker con i gemelli lì dentro.
«Dove sono?» chiese lo spazzino all’auricolare.
«In fondo, nell’angolo a sinistra.» rispose la radio.
I due corsero, spostando i clienti che facevano la fila ai camerini. Ve ne erano
cinque, tutti occupati, iniziarono a spalancare le porte, e i bambini ad urlare,
ma i gemelli e Miss Parker erano spariti.
«Devono essere lì! - insistette lo spazzino alla radio: - Il segnale della
trasmittente è forte e chiaro.»
Lo spazzino che prima guidava richiamò il collega sollevando una gonnellina blu,
un maglioncino chiaro ed una camicetta bianca all’interno di uno dei camerini di
prova: «I vestiti della mocciosa con la trasmittente.» disse mostrando il
congegno minuscolo all’altro.
Sospirarono entrambi scocciati: «Li abbiamo persi, si sono sbarazzati della
trasmittente.» spiegò l’uomo in nero alla radio.
«Cercate lì intorno.» fu l’ordine.
Ma ormai era inutile.
Seduta al tavolo in angolo di un minuscolo locale in un paesino nei pressi di
Butte, Miss Parker faceva del suo meglio per farsi piacere la zuppa di verdure
che aveva davanti. Erano riusciti ad evitare gli spazzini di Raines per un
soffio e non avevano smesso di viaggiare fino all’ora di cena. Il sole era
pressoché sparito all’orizzonte e i due bambini sedevano di fronte a lei senza
dire una parola. Sembravano due bambole di porcellana, vestiti alla marinaretta.
Non avevano quasi toccato cibo, e Miss Parker preferì non dire loro nulla: in
fondo li capiva benissimo. Quella tavola calda era il primo posto che avevano
trovato sulla strada e la loro stanchezza li aveva indotti a fermarvisi
comunque.
Miss Parker abbandonò il piatto con la zuppa ancora mezzo pieno per concentrarsi
sulla mappa stradale. Se volevano raggiungere Butte sani e salvi avrebbero
dovuto prima di tutto cambiare di nuovo auto e strada. Era così concentrata sul
trovare un percorso alternativo che non si accorse che Eve era scesa dalla sua
sedia finché non sentì una donna, fuori in strada gridare: «La bambina!»
Miss Parker alzò lo sguardo e attraverso il vetro vide Eve sul marciapiede, che
camminava in direzione della strada. Non perse attimi e si ritrovò fuori del
locale, sul marciapiede, correndo istintivamente verso Eve, le sua gambe si
muovevano da sole. Eve fece un passo incerto giù dal gradino. Il cuore di Miss
Parker smise di battere in quel momento, mentre correva per afferrare la
bambina. L’auto che sopraggiungeva frenò improvvisamente, l’autista sorpreso
dall’apparizione non fece in tempo a sterzare, Miss Parker prese violentemente
Eve, strappandola dal suolo, sollevandola sopra al cofano dell’auto che si
arrestò in quel momento e prendendola in braccio, la strinse a sé. Spaventata,
ansimante, Miss Parker avrebbe voluto mettersi a gridare lì in mezzo alla
strada, per tutta l’adrenalina che si era accumulata nelle sue vene in quei
pochi secondi. Rimase in piedi con la bambina in braccio, incredula per quello
che era riuscita a fare. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, lacrime di paura,
di tensione. Deglutì scacciandole e sbatté gli occhi. Dio, come avrebbe voluto
una sigaretta in quel momento! Eve abbracciava saldamente il suo collo,
nascondendo la faccia sulla sua spalla, tra i suoi capelli.
Qualche passante si avvicinò a lei. Miss Parker smise di pensare.
«Ma perché non ve li tenete d’occhio i vostri figli!» imprecò l’autista da
dentro l’abitacolo sbattendo le mani sul volante.
Miss Parker si riscosse, accigliata si rivolse all’uomo in macchina: «E tu
perché non guardi la strada invece di masturbarti, imbecille!» gridò fuori di sé
sbattendo il pugno destro sul cofano dell’auto.
L’uomo scese improvvisamente colto nel vivo: «Ehi! Se mi rovini la macchina ti
denuncio!»
Miss Parker non si voltò, ricoprendo lo sciagurato di insulti a denti stretti,
rientrò nella tavola calda, dove una piccola folla di clienti si era raggruppata
alla vetrina per assistere alla scena.
Tornò a sedersi al suo posto, con Eve in braccio, ancora scossa da gemiti.
«Tranquilla, ora è passata, non è successo niente. - cercò di calmarla - Perché
sei uscita?» continuò.
Eve non rispose, continuando a strofinare il viso sulla spalla della donna.
«Non importa, ora è finita.» fece Miss Parker carezzandole i capelli biondi.
«Mi dispiace. - mormorò la bambina - Sei arrabbiata?» chiese staccandosi da lei.
Miss Parker rimase senza parole. «No, no, - rispose dolcemente alla fine - sono
solo molto spaventata, Eve, credevo che saresti morta sotto quell’auto.»
Eve tirò su col naso. Miss Parker si accorse che lei e il fratello avevano la
stessa identica espressione in viso.
Adam scivolò dalla sua sedia e si abbassò sotto il tavolo per raggiungere la
gemella e Miss Parker.
«Non devi uscire senza di me, non devi attraversare la strada, non devi più
allontanarti, capito! E questo vale anche per te!» concluse rivolgendosi ad
Adam, comparso al suo fianco. Adam annuì e si strinse a Miss Parker che non lo
respinse, ma gli passò una mano tra i capelli, carezzandogli la testa ed
abbracciando con l’altro braccio Eve.
La gente nel locale avrebbe pensato che quei due gemellini fossero suoi figli.
Non le importava niente.
Chiuse gli occhi stanchi lasciandosi andare, sprofondò nell’acqua, immersa nelle
bollicine. Quella giornata stava finalmente per finire. Giocò con la schiuma
come una bambina, pensando ad Adam ad Eve nella vasca poco prima. Finalmente era
riuscita a strappare loro qualche sorriso.
Si rilassò, in ultimo, cercando di scacciare la stanchezza di quella giornata.
Sentiva le palpebre pesanti.
Pensò a Jarod, solo, al Centro, o forse in compagnia di qualche spazzino e
dell’occhio vigile delle telecamere di sorveglianza. Si intristì. Che cosa si
aspettava: dopotutto aveva dato la caccia a Jarod per quattro anni interi e al
solo scopo di riportarlo esattamente dov’era adesso. Si accigliò: non aveva mai
veramente pensato di poterlo catturare, quindi non si era mai posta il problema
di come si sarebbe sentita la sua coscienza. Sospirò rientrando in camera da
letto dopo il bagno.
Adam e la sorella erano sdraiati sul letto matrimoniale e sembravano dormire
nonostante la luce fosse ancora accesa.
Miss Parker raggiunse il lettino accanto al loro senza far rumore sulla moquette
marrone e sprofondò nelle coperte.
L’ansia la attanagliava. Avrebbe voluto gridare anche lei, ma non si azzardò:
loro avrebbero potuto sentirla.
Strisciò nell’oscurità cercando un appiglio. Ad un tratto vide la sua ombra:
legata, mani alzate, incatenata al soffitto, con solo i pantaloni, si
contorceva, si dimenava freneticamente, involontariamente, con atroci urla,
spasmi di dolore per le cinghiate che riceveva su tutto il corpo. Lo stavano
torturando. Lo stavano frustando brutalmente. L’odore del sangue giungeva fino a
lei.
«Nooooo!…. mamma!… mamma!» gridò Eve.
Miss Parker si tirò a sedere di scatto, cercando di liberarsi dalle coperte per
precipitarsi ad accendere la luce.
«Eve… - disse andando a sedersi sul bordo del letto - Eve, calmati.»
La bambina singhiozzò aprendo gli occhi e strofinandoli, si buttò su Miss Parker
che la prese dolcemente avvolgendola in un abbraccio. Si stupì nuovamente di se
stessa. Poco a poco si scopriva diversa da come era sempre stata. Non era più
glaciale, né provava ribrezzo nello stringere quel piccolo esserino tra le
braccia.
Adam si svegliò a sua volta, poi si voltò dall’altra parte e chiuse di nuovo gli
occhi.
«Era solo un sogno.» disse Miss Parker.
«No, non lo era.» Eve strinse il pigiama della donna tra i pugni, abbracciandola
più stretta. Miss Parker la carezzò.
«Mamma non tornerà più?… e nemmeno papà?» chiese con sguardo ingenuo.
«Non lo so, piccola, non penso.»
«Perché ci hanno lasciati soli?»
Miss Parker esitò. «Sono sicura che loro non avrebbero mai voluto lasciarvi.»
rispose con un sospiro.
Eve chiuse gli occhi. «Ci lascerai anche tu, Miss Parker?»
Lei non rispose. Non poteva rispondere. In cuor suo non avrebbe voluto più
separarsi da loro due, ma sarebbe dovuta tornare al Centro prima o poi, e loro
non potevano venire con lei.
«Hai lo stesso profumo della mia mamma.» disse la bambina.
Miss Parker le asciugò le lacrime sulle guance e la ripose sotto le coperte.
Adam si rigirò nel letto mormorando: «Vieni a dormire qui?»
Miss Parker osservò i volti affaticati dei due bambini e si alzò lentamente per
andare a spegnere la luce, poi tornò accanto a loro, sdraiandosi vicino ad Adam
che stringeva la mano della sorella.
Sentiva le palpebre pesanti. Gli occhi gli bruciavano insopportabilmente e le
lacrime continuavano a scendere incessantemente sulle sue tempie. Si scoprì
essere disteso, e non più appeso al soffitto, ma le mani ed i piedi erano
comunque legati stretti con pesanti catene ghiacciate.
Ansimò nell’oscurità, sentendo il fiato uscire caldo in una nuvoletta di vapore
sopra di sé. Faceva terribilmente freddo, e buio. Provò a richiudere gli occhi,
ma le lacrime non smisero di offuscare la sua vista e di bruciare i suoi sensi.
Si sentiva schiacciato da un peso incommensurabile, insostenibile. Singhiozzò
senza saperne il motivo.
“Dove sono?” si chiese.
Provò a voltare la testa da un lato, ma non riusciva a muoversi, era troppo
debole.
“Che cosa mi succede?”
Le lacrime che si accumulavano tra le sue ciglia creavano strane deformazioni
nelle ombre attorno a lui, impedendogli di focalizzare, di capire. Era troppo
stanco per capire, per sforzarsi di ricordare.
“Chi sono?”
«Jarod…»
La voce! L’aveva sentita veramente?! C’era qualcuno dunque?
«Jarod…» ripeté.
“Io!” pensò “… io… sono qui!”
Quella voce stava rispondendo alla sua domanda senza che lui l’avesse realmente
formulata.
«Jarod…» Continuava a rimbombargli nei timpani il sussurro dolce di quella voce
femminile. A chi apparteneva? Non riusciva a ricordare.
Sentì la sua presenza avvicinarsi, spettrale, ma reale.
Il suo volto candido apparve come una stella nell’oscurità della stanza che li
circondava. Le sue labbra increspate in un sorriso appena accennato, gli occhi
severi chini su di lui in un’espressione triste, i capelli profumati.
Jarod pianse. Avrebbe voluto alzare il braccio, raggiungere quel viso familiare,
posare il delicato tocco delle sue dita sulla pelle morbida. Come prima, la
donna lesse i suoi pensieri, ma fu lei a carezzare il suo viso, senza fare caso
alla barba incolta. La sua mano era fredda.
La donna sorrise, un sorriso triste. I suoi occhi azzurri si posarono su di lui
come se volessero liberarlo dal peso che lo opprimeva con un solo sguardo.
Jarod sentiva la testa in confusione. “Parla ancora, ti prego.”
«Non aver paura.» disse.
“Ha parlato di nuovo! Ti prego… ti prego non smettere!”
«Non avere paura, Jarod, io sarò sempre qui con te…» la voce si fece più
lontana, il volto candido si confuse nell’oscurità, lentamente, come un sogno
che svanisce alla luce del mattino.
“Non te ne andare, non lasciarmi, ti prego… ti prego!” gridava dentro di sé.
Fece in tempo solo a sentire la sua fredda mano scivolare via dalla sua guancia,
sfiorare il suo collo e scomparire.
“Non lasciarmi… non lasciarmi solo!” pianse sommessamente in solitudine.
L’ufficio era spazioso e ben illuminato. Faceva un po’ freddo però.
Miss Parker sedeva davanti alla scrivania ingombra di incartamenti, con le gambe
incrociate, ticchettando le unghie sul legno, impazientemente.
Non aveva voluto andare con loro, sarebbe stato meglio così, per loro e per lei
stessa. Si era scoperta più emotiva di quanto immaginasse, negli ultimi tempi.
Era sicura che non avrebbe retto nel vedere Adam ed Eve sistemarsi nelle loro
nuove camere. Sperava ardentemente che si trovassero bene, sperava di fare la
cosa giusta.
La porta si aprì alle sue spalle: «Scusi, Miss Parker, spero che non abbia
freddo, in effetti il riscaldamento è rotto, abbiamo chiamato il tecnico due
giorni fa, ma non si è visto nessuno, ancora.»
Una donna corpulenta era appena entrata con la faccia rossa sorridente ed il
naso a patata, camminando svelta si era andata a sedere dietro la sua scrivania.
Miss Parker strinse le labbra.
«Non si preoccupi per i bambini, sono sicura che staranno bene.» aggiunse
l’assistente sociale.
Miss Parker annuì col capo mantenendo lo sguardo fisso sulla donna.
«Perché non ha voluto accompagnarli?» chiese.
Miss Parker ritirò le dita dalla scrivania, incrociando le braccia al petto e
distogliendo lo sguardo: «Penso che sarà meglio per loro dimenticare tutta
questa storia il prima possibile, e quindi…» Non finì la frase deliberatamente,
lasciando intendere alla donna.
«Capisco.» sospirò questa porgendole un modulo da compilare.
«Crede che verranno dati in adozione?» domandò alzando un sopracciglio senza
staccare lo sguardo dal foglio che la donna le aveva porto.
L’assistente sociale sospirò: «Bhè, forse non subito… vede, Adam ed Eve sono
bambini particolarmente sensibili, ed è evidente il loro shock irrisolto per la
perdita dei genitori, provvederemo a cercare loro una famiglia accogliente, ma
non tutti sono disposti ad accettare bambini traumatizzati che necessitano di
attenzioni particolari o terapie, in alcuni casi.» spiegò giocherellando con la
penna.
Miss Parker tentennò, lo sguardo basso. Pensò ad Adam e alla sorella, soli, in
mezzo a tanti volti a loro sconosciuti. Le si strinse il cuore, ma non aveva
altra scelta.
«Miss Parker…» la donna la richiamò.
«Sì?»
«Perché non riflette sulla possibilità di adozione.» suggerì.
Miss Parker alzò lo sguardo sul viso paffuto dell’assistente sociale che ora la
fissava con decisione, sbattendo le palpebre di tanto in tanto.
«Come?!»
«Credo sia evidente anche a lei che oramai i due bambini si siano affezionati a
lei, ricercano in lei la figura materna che hanno perso; perché non ha
considerato la possibilità di adozione?»
Miss Parker socchiuse le labbra, sorpresa. Non ci aveva pensato, era vero, ma
solamente perché non era possibile: «Io… non posso… non sono in grado di
occuparmi di due bambini.»
La donna rise: «Non si preoccupi, non serve un corso per essere bravi genitori,
è un istinto innato.»
«No… io… - Miss Parker non sapeva come spiegare la sua situazione alla donna: -
io sono sola, e il mio lavoro… faccio un lavoro pericoloso… - tentò - sono
reperibile giorno e notte e non posso occuparmi di due bambini.» concluse. Non
poteva certo portare Adam ed Eve al Centro!
«Capisco.» ripeté per la seconda volta la donna.
Miss Parker era rimasta come inebetita, senza riuscire più a parlare, lo sguardo
freddo perso nel vuoto si era stranamente addolcito al pensiero di non separarsi
da Eve e dal fratello, di non essere più la sola abitante di casa sua, di non
essere più sola…
Si riscosse immediatamente non appena la donna si alzò dalla sua sedia e le
prese il foglio compilato dalle mani. La seguì con lo sguardo, poi si alzò a sua
volta e la seguì lungo i corridoi della scuola. Ad una prima occhiata sembrava
un posto ordinato e pulito, ben tenuto ed organizzato. Sarebbero stati bene.
La stanza a loro assegnata era al primo piano. Appena entrò Miss Parker i due
gemelli le corsero incontro con il sorriso sulle labbra. Miss Parker abbozzò un
sorriso a sua volta, chinandosi alla loro altezza.
Il viso dei due bambini tornò triste non appena capirono che quello sarebbe
stato il loro ultimo incontro.
Gli occhi di Miss Parker erano freddi e distaccati come solito, ma un’anima di
disperazione non riusciva ad essere celata allo sguardo attento di Adam ed Eve.
Miss Parker si lasciò comunque abbracciare, stringendo delicatamente i due
corpicini esili tra le braccia, inspirando profondamente il profumo della loro
pelle infantile. Sussurrò: «Promettetemi che sarete sempre insieme. - chiuse gli
occhi parlando - Promettetemi che starete bene, e vi aiuterete a vicenda, …
sempre.»
«Non andare via, Miss Parker.» mormorò Adam.
«Non lasciarci, Miss Parker.» continuò la sorella.
Miss Parker li strinse più forte imponendosi di non piangere. Strinse le labbra
e si liberò dalla presa alzandosi in piedi.
«Mi dispiace… mi spiace tanto.» disse voltandosi ed uscendo.
Al Centro quella mattina si respirava un’atmosfera molto più opprimente del
solito. O forse era solo una sua impressione, causata dalla sua breve ma intensa
vacanza, se così si poteva chiamare, di quei giorni. Camminò spedita lungo
l’atrio principale, senza salutare nessuno e senza fermarsi agli sguardi degli
spazzini che si voltavano a guardarla. Indossava uno dei suoi completi, con una
minigonna veramente corta.
Prese l’ascensore e schiacciò il pulsante per il sottolivello dov’era l’ufficio
di Sydney.
Entrò nel laboratorio per simulazioni gettando un’occhiata alla sfera in
plexiglas appesa al soffitto al centro della stanza. La luce del neon era
puntata proprio su di essa e rimandava un riflesso opaco al pavimento. Miss
Parker si fermò un istante ad osservarla, poi procedette controvoglia salendo i
tre gradini in marmo scuro che portavano all’accesso all’ufficio dello
psichiatra. La porta vetrata era chiusa, bussò e si affacciò prima di ottenere
risposta: «Syd, ci sei?» chiese facendo un passo nella stanza.
«Miss Parker! - Sydney si voltò verso la porta posando sullo scaffale della
libreria il volume che stava leggendo - Quando sei tornata?» chiese.
«Arrivo ora dall’aeroporto.» rispose avvicinandosi alla scrivania dietro la
quale era andato a sedersi l’uomo.
«È andato tutto bene?» si informò.
Miss Parker sistemò i capelli dietro le orecchie e strinse le labbra sospirando:
«Alla fine… sì.» rispose senza convinzione nella voce.
Sydney la guardò negli occhi, chini sulle mani che si contorcevano senza sosta
nervosamente attorno ad un pezzo di carta.
«Che cos’è?» chiese riferendosi al foglio che stringeva.
«Solo un pezzo di carta, Syd.» rispose mentendo. Lo trattenne ancora un po’, poi
lo posò sulla scrivania spingendolo verso lo psichiatra.
Lui lo prese tra le dita sollevandolo leggermente per leggere meglio, si infilò
gli occhiali, sorrise.
Miss Parker sospirò voltandosi intorno, per non vedere il viso di Sydney, per
staccare la mente da quel foglio.
«È molto dolce, Parker. Così avrai un loro ricordo.» asserì Sydney.
«Avrei preferito non averne nessuno!» fece lei continuando a passeggiare senza
meta davanti alla scrivania, cercando di non guardare il foglio, o Sydney.
«Io credo che non sia vero.»
Miss Parker rimase in silenzio, ferma davanti alla porta, indecisa se rimanere o
andarsene. Scelse di rimanere.
«L’ho trovato nella tasca della giacca quando ero già a Blue Cove.» spiegò. La
sua schiena era rivolta allo psichiatra, i suoi occhi lucidi, non voleva che lui
lo notasse.
Sydney alzò di nuovo il biglietto sotto la luce, lo rilesse, solamente tre
parole, cariche di significato, soprattutto per una persona come Miss Parker
alla quale i bambini non erano mai piaciuti e ai quali lei non era mai piaciuta.
Miss Parker strinse i pugni incrociando le braccia sul petto e voltandosi di
scatto.
«Non voglio avere nessun loro ricordo, Syd.» sibilò con uno sguardo di ghiaccio.
«Non è vero.» ribatté nuovamente.
Miss Parker distolse lo sguardo. Aveva ragione, ma si impose di dimenticare i
visi meravigliosamente teneri dei due gemellini biondi.
Sydney le porse il biglietto, lei tentennò, indecisa se prenderlo e tenerlo
custodito come un tesoro, prenderlo e strapparlo, o lasciarlo a Sydney, che ne
facesse ciò che desiderava.
«Parker…» la richiamò l’uomo.
«Mi mancano.» ammise dolorosamente chinando il capo.
«Lo posso immaginare.»
Miss Parker prese il biglietto, lo lesse un’ultima volta, lo piegò accuratamente
e lo infilò di nuovo nella tasca della giacca. Nella sua mente riecheggiò la
voce di Adam che le chiedeva di restare, l’immagine di Eve che la stringeva,
vide se stessa piangere sul sedile della propria auto dopo aver letto l’ultimo
ricordo di quelle giornate: “we love you”.
«Dimmi, Syd, ci sono state novità durante le mia assenza?» chiese abbandonando
l’argomento per distrarsi.
Lo psichiatra non fece in tempo a rispondere che Broots entrò nella stanza senza
bussare: «Syd, - esordì. Rendendosi conto di non essere soli si fermò sulla
soglia fissando Miss Parker. Sbatté le palpebre un paio di volte e balbettò un
accenno di saluto: - Oh, Miss Parker, bentornata…»
«Broots, l’hai trovato?» lo interruppe Sydney raggiungendolo.
«No, purtroppo no, ma ho trovato questo.» si scusò porgendo all’uomo un foglio.
«Di che cosa state parlando?» chiese la donna incuriosita facendo da parte
Broots con una mano.
Sydney lesse il foglio in silenzio, pensieroso, andando a sedersi dietro la
scrivania.
«Miss Parker…» cominciò Broots.
«Si tratta di Jarod?» chiese lei intuendo qualcosa. Il suo sesto senso non la
tradiva mai.
«Si.» confermò Sydney ripiegando il foglio in quattro e gettandolo sul ripiano
della scrivania.
«Dov’è adesso?»
Sydney e Broots si guardarono colpevoli e sospirarono entrambi, lasciando Miss
Parker tremendamente irritata e curiosa.
«Syd…» bisbigliò temendo il peggio.
«Non lo sappiamo.» rispose infine l’uomo indicandole il foglio con lo sguardo.
Miss Parker sollevò il foglio incredula: «Come non lo sapete?!» gridò. Lesse il
documento. Era classificato come strettamente confidenziale, indirizzato a Mr
Parker in data giornaliera: “il soggetto è stato iniziato alla fase due,
risponde bene alla terapia e crediamo possa essere utilizzato a partire dalla
prossima settimana.”
«Che cosa significa? - chiese lasciando cadere il foglio sul tavolo - Credete
che si riferisca a Jarod?»
Broots annuì con la testa: «L’ho trovato tra i file di Raines questa mattina.»
spiegò.
«Sydney, io credevo che saresti stato tu il suo tutore, come sempre…» continuò
la donna guardando il viso dello psichiatra.
«Lo credevo anch’io, ma non siamo nemmeno stati avvertiti dell’arrivo di Jarod
al Centro, non abbiamo neanche potuto vederlo… Spero solo che stia bene.» fece a
testa china.
«A dire la verità non sappiamo con certezza se sia al Centro, lo supponiamo.»
specificò Broots andando a sedersi su una della poltroncine accostate al muro.
Miss Parker era rimasta in piedi, senza parole, spostando lo sguardo dal volto
di Sydney a quello di Broots senza sapere cosa realmente stava vedendo; la sua
mente era altrove, seguiva una strana associazione di idee, idee che non sapeva
nemmeno da dove arrivassero, ma che sentiva reali, mostruosamente reali: udiva
le grida disperate, sentiva l’odore del sangue, e poteva vedere la sua ombra
contorcersi sotto i colpi della catena.
Rabbrividì sbattendo le palpebre nell’intento di scuotersi da quella atroce
sensazione.
«Abbiamo controllato ogni registrazione del servizio di sorveglianza, ma non c’è
traccia di Jarod, né di anomalie, nemmeno nel SL-27 o nell’Ala Rinnovamento.»
stava proseguendo Broots.
«Quei figli di…» imprecò fuori di sé.
«Calmati, Parker, se è qui lo troveremo.» disse Sydney senza realmente crederci.
Ma il suo tono era deciso, e risoluto. Miss Parker si tacque per qualche
istante.
«Che cosa possiamo fare?» chiese Broots rompendo finalmente il silenzio.
Nessuno rispose. Miss Parker si ricompose, scacciò il velo dai suoi occhi
azzurri, trasse un profondo sospiro e lasciò l’ufficio diretta all’ascensore.
Non si sentiva a suo agio. Era sola nella cabina, uno spazzino era appena uscito
lanciandole un’occhiata furtiva in segno di riconoscimento. L’ascensore salì due
piani, poi si fermò, le porte scorrevoli si aprirono. Dalla parte opposta non
c’era nessuno. Miss Parker rimase immobile, scrutando il corridoio deserto, il
piano buio. Spinse di nuovo il pulsante della sua destinazione spazientita e le
porte si richiusero, come un occhio.
Istintivamente si ritrovò con lo sguardo al soffitto: nell’angolo in alto alla
sua destra un vecchio foro di proiettile le rammentò le sue origini. Strinse i
denti fino a farsi male, giusto per riportare la sua mente all’erta.
L’ascensore si fermò e lei uscì raggiungendo a grandi passi le lastre di vetro
opaco che costituivano la porta dell’ufficio di suo padre. La spalancò a due
mani ed entrò senza attendere oltre.
Suo padre era rivolto di spalle, in piedi dietro la sua scrivania e parlava ad
un registratore portatile. Sentendo l’inconfondibile ticchettio dei tacchi della
figlia sul pavimento lucido si voltò di scatto sollevando i baffi bianchi in un
sorriso: «Oh, angelo mio, sei tornata!» la salutò spegnendo il registratore.
«Papà…» fece avvicinandosi e ricambiando il sorriso. I suoi canini appuntiti lo
fecero risultare vagamente demoniaco, ma suo padre non se ne accorse.
«Sapevo che prima o poi ce l’avresti fatta, tesoro, non ho mai dubitato che
avresti riportato qui Jarod.» disse andando ad abbracciarla senza slancio.
Miss Parker si tolse il sorriso dalle labbra e si liberò in fretta dalla presa.
Raggiunse la scrivania con passi lenti e misurati, svogliatamente, passando un
dito sul bordo del tavolo e controllando con la coda dell’occhio i documenti che
vi stavano sopra.
«Papà, sono felice anch’io di essere riuscita finalmente a riportare all’ovile
la pecorella smarrita, - mentì - e quindi ho pensato che avrei potuto prendermi…
- esitò - qualche giorno di vacanza. - tornò a respirare - … Sempre che tu non
abbia bisogno di me.» aggiunse.
Il padre le sorrise di nuovo con gli occhi lucenti, le circondò le spalle col
braccio sinistro e la scosse delicatamente: «Ma certo che puoi, angelo, te lo
meriti! - rise falsamente. Poi, per rispondere allo sguardo incerto di lei
riprese: - Se vuoi ti cedo il mio rifugio per le vacanze a Saint Thomas, - disse
- oppure, scegli tu, dovunque tu voglia!» concluse scuotendola più forte.
Miss Parker sorrise di nuovo, chinò la testa e rispose con voce vellutata:
«Veramente… preferirei… andare per conto mio, con la macchina.» disse
tentennando.
Suo padre gongolò.
«Naturalmente, come preferisci. Farò sgombrare immediatamente il tuo ufficio.»
Miss Parker si staccò da lui sorpresa ed aprì la bocca per parlare, ma non uscì
nessun suono.
In quell’istante entrò Lyle.
«Oh, chi si rivede, la mia bella sorellina! - salutò - Come stai? - chiese senza
interesse - E come è andato il viaggio?» aggiunse sogghignando in tono di sfida.
Miss Parker gli rivolse una smorfia di intesa rimanendo a braccia conserte e
tornò a rivolgersi al padre: «Papà, io pensavo di liberare l’ufficio domani, non
c’è fretta, in fondo.» riuscì a dire.
«Ma come, sei appena tornata e già te ne vai?! - fece Lyle col suo abituale tono
sarcastico - Papà non deve averti dato una mancia adeguata per avere un’aria
così risentita!» scherzò.
«Ora basta, - Mr Parker li zittì prima che Miss Parker ribattesse velenosamente
- cercate di andare d’accordo per una volta, in fondo questi sono giorni di
gloria per il Centro e per la famiglia Parker: - disse - Jarod è finalmente
tornato, e siete stati proprio voi due a farlo tornare.» concluse prendendo
entrambi i figli in un abbraccio poco paterno.
«A proposito di Jarod, - cominciò Miss Parker - ho saputo che Sydney non è più
il suo supervisore. Tu ne sai qualcosa, Lyle?» chiese retoricamente accentuando
il tono sul nome del fratello.
L’uomo senza un pollice le sorrise sadicamente: «Forse papà ha ragione: hai
proprio bisogno di una vacanza!»
«Lyle! - lo riprese Mr Parker - Dimenticati di Jarod, angelo, - tornò a
rivolgersi alla figlia - ormai quell’essere non ti darà più alcun fastidio e non
ti riempirà più la testa con menzogne su me e tua madre.» concluse risoluto.
Miss Parker esitò ancora un momento al centro della stanza, guardando
gelidamente negli occhi il fratello, che ricambiò ghignando beffardamente.
Lyle uscì mentre suo padre andò a sedersi sulla poltrona in pelle nera dietro la
sua scrivania.
Una volta soli Miss Parker si avvicinò nuovamente al padre, cercando di non
urtare di nuovo contro il muro di bugie ben costruite che lo attorniava.
«Papà, dimmi la verità, Jarod è qui al Centro?»
Mr Parker alzò il viso su quello di lei, ammirando la fredda bellezza della
figlia e ricordando la moglie scomparsa.
«Tesoro…» cominciò.
«Lo so che non approvi, ma io voglio sapere se sta bene, Sydney lo vuole sapere,
vorrei… vederlo.» ammise.
Il padre sospirò tentennando.
“Cerca una scusa.” pensò malignamente Miss Parker.
«Io non so dove sia, in realtà; ho affidato a Raines il progetto “Simulatore”, è
lui che se ne occupa, ora…»
«Quell’asmatico bastardo…»
«Angelo! - la richiamò suo padre con occhi severi - ti prego di moderare i
termini.»
Miss Parker sbuffò: «Potrei chiamarlo in tanti modi, … ma se preferisci ci metto
il “signore” davanti!»
«Tesoro, ti prego, non andare a cercare altra sofferenza, dammi retta! - sbottò
- Lasciati alle spalle tutta questa triste storia e rilassati.» ordinò.
Miss Parker strinse le labbra e annuì col capo, visibilmente insoddisfatta. Si
voltò e raggiunse elegantemente la porta, lasciando che i tacchi a spillo delle
sue scarpe firmate ticchettassero in modo irritante sul pavimento.
Spalancò la porta con un unico gesto ed uscì nel corridoio.
Suo padre mentiva, lo sentiva chiaramente dentro di sé come una febbre, e non
poteva fare nulla per aiutare Sydney e Broots a rintracciare Jarod. Inoltre, ad
ulteriore conferma ai sospetti che aveva, il padre l’aveva lasciata libera di
sgomberare l’ufficio, addirittura cercando di allontanarla il giorno stesso.
Lyle e Raines avevano in mente qualcosa, e suo padre li stava coprendo, ne era
certa. Volevano sbarazzarsi di lei il prima possibile per tenerla all’oscuro…
dei loro piani riguardo a Jarod, o chissà cos’altro.
Grugnì di rabbia entrando nel suo ufficio. Cominciò a pensare a dove avrebbe
potuto cercare Jarod.
Quella notte non riuscì a prendere sonno. Si alzò e si infilò la vestaglia di
seta andando in soggiorno. Si versò un bicchiere di whisky liscio e si sdraiò
sul divano sorseggiandolo. Chiuse gli occhi.
Le porte pesanti scricchiolarono slittando sulle guide poco oliate. L’odore di
muffa era irrespirabile. Estrasse la sua pistola, inserendo il primo colpo in
canna, per essere pronta ad ogni evenienza. Strisciò felinamente attraverso la
fessura che era riuscita a strappare alla porta e posò il piede destro su
qualcosa di morbido. Trasalì, ritirando il piede. Il suo cuore aveva avuto un
acceleramento improvviso e le ci volle qualche istante per riprendere il
controllo della situazione. Era buio, ma in fondo, sulla destra, riusciva a
scorgere una luce tenue. E poi sentì le grida disperate.
Aprì gli occhi, scossa da un dolore paralizzante allo stomaco. Posò a terra il
bicchiere di whisky precariamente appoggiato al bracciolo del divano e si portò
entrambe le mani al ventre. Gemette.
Tentò di alzarsi, ma non riuscì, ricadde con una vampata, seduta, cercando di
tenere gli occhi aperti, ma il dolore era insopportabile.
Si allungò alla ricerca della borsa sul tavolino lì accanto, e rovistò
freneticamente con la mano sinistra alla ricerca della bottiglietta di
medicinale rosa pallido.
“A che cosa serve, Parker, oramai è meglio un dottore.” si rimproverò.
Trovò la bottiglietta, accorgendosi con delusione che era quasi vuota. L’aveva
bevuta all’ora di pranzo, quando aveva avuto un altro attacco. Rimase in
silenzio, ansimando accaldata semidistesa sul divano, sola. Tirò su col naso.
Avrebbe voluto non essere sola. Pensò a Jarod. Il dolore la riportò alla realtà,
ma si impose di resistere: presto sarebbe passato, come le altre volte.
Gemette.
Chiuse gli occhi e vide un magnifico cielo stellato, la luna una falce
bianchissima, nemmeno una nuvola. Li riaprì.
Il momento era passato. Respirava ancora affannosamente, ma si sentiva già
meglio. Ora sentiva solo freddo.
Si alzò faticosamente e raggiunse il bagno; si bagnò i polsi con l’acqua gelata,
sentendo il sangue affluire più massicciamente alla testa che le pulsava. Il suo
sguardo cadde sul suo viso riflesso nello specchio: la ferita alla testa era
praticamente guarita, e la cicatrice non sarebbe stata troppo visibile, come
aveva detto Jarod. I suoi occhi però erano cambiati: ora non era più una
cacciatrice. Il suo sguardo era più tranquillo ora, freddo, ma dolce e tenero
mentre sorrideva involontariamente alla sua immagine.
Tornò a sdraiarsi sotto le coperte, decisa a dormire almeno qualche ora.
Si rese conto di aver posato il piede su di una camicia, o una maglia, in ogni
caso un indumento maschile.
Si guardò intorno con circospezione, attenta ad ogni minimo rumore, ma le grida
coprivano ogni cosa. Quelle urla non riusciva a sopportarle, le facevano male.
Male psicologico.
Decise di dirigersi direttamente verso la fessura di luce in fondo al corridoio
a destra. Lentamente.
Il suolo che calpestava era privo di pavimentazione e ogni suo passo rimbombava
nell’oscurità. Raggiunse la fessura tentando di fare il minor rumore possibile:
era una porta oscillante, al di là della quale non sapeva che cosa avrebbe
trovato. La scostò con il piede sinistro e infilò la canna della sua arma tra le
ante.
La luce le colpì gli occhi; per un istante non vide più niente.
Un forte rumore accanto a sé lo svegliò. Aprì gli occhi sbattendo le palpebre
più volte. La luce artificiale rossa che lo colpiva mandava un mormorio ritmico,
di elettricità. Si guardò intorno per quanto poté.
Gli faceva male tutto il corpo, si sentiva trafiggere da mille aghi. Non
riusciva a respirare dal dolore, non riusciva neppure a muoversi. Era legato,
immobilizzato.
C’era qualcuno nella stanza, sentiva il suo respiro, i suoi passi, ma non
riusciva a vederlo.
Rabbrividì non appena qualcosa sfiorò la sua mano destra. Era freddo, e duro.
Cercò di sollevare la testa dal tavolo, ma era troppo pesante, davvero
impossibile da muovere, e così le gambe, le braccia, e tutto il resto del corpo.
«Non ti agitare. Non ci vorrà molto.» bisbigliò una voce risoluta accanto al
letto. Il tono era stato secco ed inespressivo, glaciale. La voce di uno
spazzino.
«Che cosa…» tentò di biascicare, ma non riuscì a pronunciare correttamente le
parole. Nessun suono oltre questo uscì dalla sua bocca. Si sentiva le labbra
secche, la gola bruciava, gli occhi irritati faticavano a rimanere aperti.
Lo spazzino gli stava slegando una mano, per poterla spostare su un carrello
coperto da un telo sterile alla sua destra.
La luce rossa nella stanza rendeva il viso dello spazzino ancora più accigliato,
disegnando ombre demoniache sulla sua fronte e le sue mani sembravano già
coperte di sangue mentre si infilava i guanti. Sollevò una siringa.
Jarod sentì la puntura sulla mano. Gridò.
Lo spazzino sembrò non farci caso. Prelevò un campione di sangue e lo ripose con
cura dietro di sé, Jarod non riusciva a vedere dove.
«Mmmh…» si lamentò cercando di ritirare il braccio verso di sé.
Non vi riuscì, il suo bracco scivolò dal carrello, che venne spinto poco più in
là, e rimase a penzolare, oscillando pesantemente fuori dal bordo.
Lo spazzino senza cambiare la sua espressione di una virgola sollevò il braccio
di Jarod e lo ripose sul tavolo, accanto al corpo, legandolo di nuovo alla
sponda con le cinghie.
Gli avevano prelevato il sangue. Perché?
Rinunciò a pensare.
Lo spazzino si portò sull’altro lato del tavolo e, stavolta senza slegare il
braccio di Jarod, infilò un nuovo ago nella vena sulla sua mano, attaccando a
questo il tubo di una flebo. Jarod tentò di seguire con lo sguardo l’altro capo
del tubicino, ma gli girava la testa. Dovette chiudere gli occhi. Sentiva già il
liquido scorrere nelle sue vene. Che cosa gli stavano facendo? Perché Sydney non
era lì, perché permetteva tutto questo?
Una lacrima involontaria scese agli angoli dei suoi occhi chiusi.
Sentì i passi dello spazzino che si allontanava. E questo fu l’ultimo suo
ricordo.
Miss Parker dondolava nervosamente le gambe accavallate sotto la lastra di vetro
della sua scrivania.
Il suo ufficio era illuminato come sempre dalla grande vetrata alle sue spalle,
ma era diverso quella mattina. L’inquietudine di Miss Parker lo rendeva saturo e
vuoto allo stesso tempo. Gli scatoloni bianchi di imballaggio rendevano
l’ambiente ancora meno accogliente. Avrebbe dovuto impacchettare tutta la sua
roba, svuotare l’ufficio ed andarsene, ma aveva altro per la testa.
Ticchettava le unghie della mano sinistra sul ripiano, e con la desta stringeva
il foglio che Broots aveva portato nell’ufficio di Sydney il giorno prima. Era
ormai la centesima volta che lo leggeva e rileggeva, senza riuscire a smettere
di farsi domande del tipo: “che cosa avranno intenzione di fargli?”, “dove lo
avranno portato?”, oppure “chissà se sta bene…?”.
Sospirò. Piegò di nuovo il foglio in quattro e si alzò di scatto dalla poltrona.
Si infilò la giacca del tailleur nero ed uscì a grandi passi dal suo ufficio.
Il corridoio era pieno di spazzini, tentò furtivamente di passare inosservata,
ma Sam la fermò: «Miss Parker, vuole che cominci a riempire gli scatoloni?»
chiese.
«Ordini di mio padre?» domandò lei gelida squadrandolo.
«Come, scusi?!» fece lo spazzino sorpreso.
«Non importa, Sam, preferisco fare da sola. - tagliò corto girandosi. - Ah, Sam…
- aggiunse raggiungendo l’ascensore: - fai in modo che nessuno si avvicini a
quell’ufficio, ne va delle tua vita.» concluse andandosene.
L’ascensore la portò a destinazione: il sottolivello ventisei. Il corridoio era
buio e non c’era nessuno.
“Meglio così.” pensò.
I suoi passi avanzarono nell’ombra per alcuni metri, unica fonte di suono in
tutto il sottolivello. Si fermò di fronte ad una grata di aerazione. Si guardò
intorno un istante, osservando l’aria immobile attorno a sé. Con un coltellino
tascabile che aveva recuperato apposta si apprestò a togliere le viti che
fermavano la grata.
Una volta rimosso l’ostacolo, lo posò a terra e con circospezione si guardò
intorno ancora una volta.
«Angelo?» chiamò sottovoce.
Nessuno rispose.
Miss Parker si accinse ad intrufolarsi nel condotto. Strisciò faticosamente sino
al tubo principale, dove finalmente riuscì a recuperare una posizione
semieretta, facendosi strada con la torcia elettrica.
«Angelo? …» chiamò ancora un po’ più forte.
In un angolo vide una coperta consumata arrotolata in fretta, accanto, uno
scatolone che aveva l’aria di essere lì da parecchi anni.
Miss Parker si avvicinò, chinandosi sullo scatolone e tentando di sollevare il
coperchio.
«Miss Parker…»
Miss Parker sussultò spaventata, voltandosi di scatto già accarezzando il calcio
della sua pistola.
«Mio dio, Angelo! - imprecò - Non ti avevo sentito arrivare.»
L’uomo la osservava con gli occhi azzurri spalancati.
«Angelo, ho bisogno del tuo aiuto.» disse finalmente. Miss Parker frugò nella
tasca della giacca e ne estrasse il foglio spiegazzato.
«Miss Parker… preoccupata?» fece l’uomo sfiorandole una mano.
Lei non si scompose, stringendo le labbra annuì impercettibilmente e continuò:
«Ho bisogno che tu mi dica che cosa senti.» Gli porse il foglio.
Angelo prese il foglio rigirandolo tra le mani. Non lo lesse, lo annusò, poi si
guardò intorno lasciandolo cadere a terra. Miss Parker assisteva alla scena
visibilmente preoccupata, con l’espressione accigliata di chi tenta di capire ma
non può. Angelo era tornato sui suoi passi, era uscito dal condotto e Miss
Parker lo seguì riluttante.
«Miss Parker… ha paura. - disse infine Angelo nel buio del corridoio - Miss
Parker… - ripeté - … non può vedere, il sangue, le catene, … - Angelo si
interruppe, alzando timidamente una mano sul volto della donna e posando le dita
sulle sue orecchie. - Miss Parker sente le urla, ma non può vedere!» disse con
enfasi.
Miss Parker non capiva, ma sapeva che quelle immagini che ora Angelo stava
evocando appartenevano alla sua memoria; al suo subconscio, per lo meno.
Ciononostante non riusciva a capire il nesso.
«Miss Parker…» sussurrò Angelo guardandola negli occhi.
«Tu sai dove si trova, Angelo? Dimmelo: dove si trova Jarod?» domandò.
L’uomo rimase immobile, gli occhi spalancati su di lei, la bocca semiaperta.
«Devi ascoltare, Miss Parker.» disse enigmaticamente con il dito indice alzato
al soffitto.
Miss Parker seguì la direzione con lo sguardo.
«Che cosa dovrei ascoltare esattamente?!» fece poco convinta.
«Ti porteranno da lui. Solo tu lo puoi sentire. Miss Parker deve ascoltare.»
ripeté.
«Notizie?» chiese sinteticamente entrando nella stanza.
«Nessuna, purtroppo.» rispose altrettanto sinteticamente Sydney.
Miss Parker posò la sua valigetta sul tavolo ingombro di carte.
«Siete sicuri di aver controllato ovunque, in questo dannatissimo posto?»
sbraitò sottovoce per non farsi sentire da orecchie indiscrete.
Broots si scostò dalla sua scrivania: «L’unica cosa ragionevole da pensare è che
Jarod non sia più al Centro, ma che l’abbiano trasferito.»
Miss Parker tentennò. Giocando con le dita sul ripiano chiuse gli occhi
sforzandosi di non perdere la calma.
«Miss Parker…» Sydney attirò la sua attenzione.
«Dove? - chiese scuotendosi dai sui pensieri - Dove potrebbe essere?»
«Bhè… - iniziò Broots avvicinandosi con la sedia a ruote al tavolo cui erano
accostati lo psichiatra e la donna. Sollevò dal tavolo un paio di fogli
seppelliti sotto gli altri e li porse a Miss Parker: - … forse Raines lo ha già
fatto trasferire in Africa, al Triumvirato. - disse - Oppure in uno dei suoi
laboratori segreti.» continuò.
Miss Parker lesse alcune righe: “Chiedo opportunamente che il progetto venga
accelerato per consentire all’esperimento una sicura riuscita sotto ogni punto
di vista. Pertanto trasferirò il soggetto in luogo più appropriato per la
sicurezza e l’esito del progetto.” La firma era quella di Raines.
«Quella è una copia del documento che Raines ha sottoposto a tuo padre il giorno
stesso in cui Jarod è stato riportato al Centro.»
Miss Parker si sedette su una poltroncina sospirando. Suo padre sapeva tutto e
le aveva deliberatamente mentito.
«Parker… - Sydney le posò una mano sulla spalla come leggendo i suoi pensieri: -
non è detto che tuo padre ti abbia mentito. - disse - Raines ha acquistato un
particolare prestigio agli occhi del Triumvirato, potrebbe scavalcare l’autorità
e diventare una minaccia seria… per tuo padre, per te, per… Jarod.»
Miss Parker lo guardava con gli occhi sbarrati, incredula nel sentirlo
pronunciare tali parole di scusa per suo padre.
«Che cosa facciamo, ora?» disse Broots.
Sydney sospirò profondamente.
Si scostò scacciando il raggio di luce che l’aveva colpita agli occhi. Le
lampadine nude pendevano dal soffitto con estrema innaturalezza, come impiccati.
Grugnì infastidita e aprì la porta oscillante del tutto. Il corridoio era
deserto. Impugnò più saldamente la sua arma ad un nuovo grido di sofferenza.
Fece un passo avanti, incerta. Non capiva quell’inquietudine, quell’ansia che le
impediva di muoversi più scioltamente, legandola alla gola e soffocandola di
paura. Il dolore lancinante che le sue grida le causavano erano come milioni di
spilli che la trafiggevano. Nonostante tutto non poteva impedirsi di continuare
a mettere avanti un piede dopo l’altro, scivolando lentamente in direzione delle
grida. Giunse ai tre scalini che davano accesso ad una porta blindata. Preparò
la sua arma, afferrò la maniglia e spinse la porta pesantemente. L’odore del
sangue l’avvolse e le grida si fecero più vicine, più acute, più sofferte.
Si svegliò accaldata. La gola secca. Quelle sensazioni innaturali non la
abbandonarono: si sentì intrappolata, sola, angosciata, … che cosa cercava in
quel posto? Dove diamine era quel posto? Perché continuava a sognare?
Forse non aveva bisogno di cercare la risposta.
Ansimò alla ricerca dell’interruttore sul comodino alla sua sinistra e accese la
luce. In quell’istante, quando la luce intensa illuminò la stanza da letto,
quando i suoi occhi smisero di vedere, Miss Parker precipitò. Si sentì svuotare
completamente l’anima, senza motivo, senza alcun preavviso.
Mise a fuoco l’immagine della sua stanza da letto, le pareti chiare, ombreggiate
dalla notte, il letto coperto dalla biancheria scura, la sua vestaglia, le
pantofole, il comodino con la lampada da tavolo, la sveglia e la foto di sua
madre. Vide se stessa riflessa nello specchio del comò alla parete opposta, i
suoi capelli neri erano spettinati ed elettrici, il suo viso pallido risaltava
ancora di più e gli occhi spaventati la fissavano increduli. Si sistemò meglio,
tentando di raccogliere le idee.
Non riusciva a pensare ad altro che a Jarod.
Si distese di nuovo. Non voleva più sognare. Non voleva più sentire le sue grida
sofferenti, sentire l’odore del sangue, e vedere la sua ombra contorcersi
impotente. Chiuse gli occhi cercando di impedirsi di piangere.
Era solo un sogno dopotutto. Non sapeva che cosa in realtà stesse sognando, era
solo una vaga sensazione. Una terribile sensazione che le attanagliava lo
stomaco e la tratteneva nel sogno anche da sveglia.
Magari era solo colpa della sua ulcera.
Si portò una mano sullo stomaco istintivamente.
Aprì gli occhi sbattendo le palpebre un paio di volte. L’odore del sangue era
penetrante e le stava invadendo l’anima. Ebbe un capogiro. Nell’attimo di
smarrimento si accorse di essere tornata nel laboratorio per simulazioni, e poté
vedere, tremolante nella penombra, la parete accanto a sé grondare sangue.
Si trasse a sedere di scatto. Era di nuovo in camera sua.
Che cosa significavano quei sogni? Perché non riusciva a liberarsene? Perché
aveva così tanta paura, a cosa era dovuta quell’angoscia insuperabile?
Miss Parker stava per scoppiare dalla disperazione, era sull’orlo di una crisi
di nervi, ed era sola.
Singhiozzò sforzandosi inutilmente di mantenere la calma, anche se sapeva che
qualunque cosa avesse fatto, non appena avesse chiuso gli occhi nuovamente
quelle tremende immagini e le opprimenti sensazioni si sarebbero affacciate al
suo subconscio, rendendola inerme.
Allora le tornarono in mente le parole di Angelo: “Miss Parker deve ascoltare,
ti porteranno da lui.”
«Devo ascoltare. - ripeté in un sussurro - Cosa dovrei sentire? - si chiese -
Che cosa…» fece sforzando la sua mente stanca.
Tutto quello che sentiva era il silenzio. Poi lentamente riuscì a percepire in
lontananza le sue grida.
Era solo un mormorio lontano, ma era certa di non sbagliarsi: stava gridando, ed
erano le stesse identiche sofferte urla che la laceravano nel sogno. Ma ora era
sveglia. O forse stava ancora sognando?! Le grida erano nella sua testa.
Le sembrava di impazzire, non capiva più nulla, sentiva solo che doveva fare
qualcosa per impedire loro di fargli del male, doveva farli smettere, doveva
salvarlo, o non sarebbe più riuscita a vivere!
«Aiutami, ti prego! - bisbigliò a se stessa raggomitolata tra le lenzuola - Dove
sei?»
“Miss Parker deve ascoltare.” ripeté la voce di Angelo nella sua testa.
“Dove sei?” continuava a ripetersi.
Percorse lentamente, ma con passo nervoso, il corridoio illuminato del
sottolivello quattordici diretta all’ascensore.
Quando le porte scorrevoli slittarono sui carrelli aprendosi automaticamente
davanti a lei, le pareti interne della cabina si tinsero di nero, lasciando
trapelare un solo filo di luce dall’alto, nell’angolo. Miss Parker rimase
immobile, le labbra socchiuse, gli occhi spalancati, la sigaretta nella sua mano
destra tremò, lasciando cadere la cenere a terra. Non osò entrare. La luce
chiara illuminava delicatamente i volumi, creando un chiaroscuro definito sul
vestito della donna sul pavimento. Miss Parker si sentì la sigaretta scivolare
dalle mani, ma non la trattenne, non voleva che sua madre la vedesse fumare. Si
accorse di aver pensato una sciocchezza.
“Mamma…” mormorò dentro di sé sentendo le lacrime affiorare agli occhi.
L’aria nella cabina buia rimase immobile, solo il suo respiro concitato,
somigliante molto più ad un sommesso singhiozzo, si liberava tra le mura
imponenti del sottosuolo. Miss Parker non osava entrare nella cabina, non osava
inginocchiarsi sul pavimento accanto alla donna, se lo avesse fatto che cosa
sarebbe successo? Avrebbe scoperto che non c’era più nulla da fare? Che era
morta? Che sua madre… improvvisamente il ronzio delle porte scorrevoli
dell’ascensore la riportò alla realtà e Miss Parker gettò una mano nella fessura
che stava per chiudersi, sforzandosi di riaprire. Finalmente cedettero e con una
piccola perdita di equilibrio si ritrovò all’interno. Era vuoto. La luce
regolarmente funzionante, il pavimento sgombro, pulito. Niente macchie di
sangue, niente cadavere, nulla.
Le porte scorrevoli si richiusero di nuovo, e stavolta nessuno le fermò. Miss
Parker attese ancora un istante prima di pigiare il bottone, gli occhi ancora
invasi dalle lacrime.
Durò poco. Uscì nel pianerottolo con la stessa sprezzante determinazione nel
volto di quando era entrata dall’ingresso principale qualche minuto prima, e si
diresse con fare sicuro verso l’ufficio di Sydney.
Trovò l’ufficio vuoto.
Seccata, si guardò intorno cercando qualcosa che la potesse aiutare. Il tavolo
dello psichiatra era ingombro di carta, dati di statistica e documenti da
archiviare, cartelle mediche e una scatolina contenente dischetti dell’archivio
digitale del Centro. Miss Parker uscì nel laboratorio per simulazioni e sbirciò
oltre l’entrata, nel corridoio, ma nessuno era in vista.
Tornò nell’ufficio di Sydney, chiudendosi la porta alle spalle e andando a
sedersi dietro la scrivania. Sollevò il lettore di dsa dal pavimento accanto a
lei e cominciò a visionare i primi filmati: le date erano recenti.
L’immagine di Raines, calvo, secco, spiritato, percorreva il corridoio largo ed
illuminato. La didascalia in basso a sinistra indicava: 10/18/01, RENEWAL WING,
FOR CENTRE USE ONLY.
“Il giorno in cui Jarod è stato portato al Centro.” pensò Miss Parker.
Raines era in compagnia di Willy e di un altro paio di uomini in nero. Si
fermarono di fronte ad una delle porte di accesso. Un uomo di schiena si
affacciò all’occhio della telecamera.
«La terapia è già cominciata. - disse la voce di Lyle. “Bastardo!” pensò. - E
Miss Parker?» chiese l’uomo.
«È riuscita miracolosamente a sfuggire a due tentativi.» rispose Willy mentre
Raines traeva una profonda boccata di fumo dalla sua sigaretta accesa, tossendo
di conseguenza.
«Significa che non avremo i gemelli e che quella rompiscatole ci sarà presto di
nuovo tra i piedi?!» ribatté Lyle retoricamente.
«Forse possiamo ancora avere i bambini. - ansimò Raines espirando il fumo -
Sappiamo per certo che Miss Parker era diretta a Butte, nel Montana.»
Lyle, rimanendo di spalle: «Invio subito una squadra.» Poi Sparì.
“Dannazione!”
«Miss Parker?»
La voce di Sydney la fece sussultare.
«Ah, Syd, …»
«Credevo fossi andata a casa, ti stavo venendo a cercare, ma a quanto pare ti
sei servita da sola.»
«Perdonami, Syd, credevo non ci fosse nessuno.»
«È molto tardi Miss Parker.» asserì l’uomo.
Miss Parker tolse il dischetto dal lettore e lo rigirò tra le dita.
«Broots lo ha trovato un’ora fa nell’archivio. Crediamo che Jarod si trovi da
qualche parte nell’Ala Rinnovamento, ma Raines ha posto una sorveglianza
speciale, non possiamo accedervi.» mormorò quasi sconsolato.
«E… i bambini?» chiese Miss Parker.
«Non ne sappiamo nulla.»
Miss Parker stirò un sorriso di rammarico: «Tanto per cambiare! - esclamò. Dopo
una pausa aggiunse: - Non possono averli trovati, non sono dove pensano loro… a
dire il vero non lo so neppure io dove siano ora…»
«Perché sei tornata, Parker?»
Sospirò, massaggiandosi le tempie. Sollevò lo sguardo a cercare quello di
Sydney: «Ho parlato con Angelo, oggi. Lui non mi ha detto nulla di Jarod, ha
solo farneticato qualcosa su… - Miss Parker gesticolò incomprensibilmente - … su
l’ascoltare.» concluse.
«Credi che Angelo sappia dove sia Jarod?»
«Credo che impazzirò se non ne vengo a capo, Sydney… da quando è cominciata
questa assurda storia non faccio che avere incubi spaventosi, non riesco a
dormire decentemente una notte e ho i nervi a fior di pelle!»
Sydney si sedette di fronte e lei, dalla parte opposta della scrivania: «Che
tipo di sogni?»
«Sento le sue urla disperate, lo torturano, lo frustano. Io non riesco a
vederlo… ma so che non è lontano, e mi ritrovo in un laboratorio per
simulazioni, e le pareti sono insanguinate…»
«Senti le grida di Jarod?»
Miss Parker abbassò gli occhi in segno affermativo. «Se fosse reale…»
«Sarebbe terribile.» concluse lo psichiatra.
Miss Parker rimase in silenzio per un istante ancora.
«Se quel posto esiste, quel posto è al Centro, e ho intenzione di scovarlo.»
disse infine.
«Come? Raines e Lyle ci stanno tenendo d’occhio: mi sento lo sguardo vigile dei
loro spazzini alle spalle ogni momento, non possiamo esporci più di tanto,
dobbiamo essere prudenti, Parker.»
«Ma lo uccideranno, Syd! - gridò tentando di soffocare le proprie parole. -
Abbiamo comunque un punto di partenza: l’Ala Rinnovamento.» affermò decisa
puntando l’indice verso lo psichiatra.
«È pericoloso, Parker, questa volta nemmeno tuo padre potrà salvarti! Raines è
in accordo con la Torre, se…»
«Non me ne importa un accidente!» tagliò corto.
Si guardarono negli occhi entrambi, gli animi agitati. Sydney fu il primo a
distogliere lo sguardo, sentendo di non poter sostenere un istante di più la
vista del viso candido di lei, con quegli occhi risoluti e tremanti di rabbia e
sconforto allo stesso tempo.
Miss Parker si alzò. Raggiunse la porta e si voltò un attimo indietro: «Se tu
avessi sentito le sue grida… non esiteresti un istante.» disse.
«Aspetta, Parker. - la trattenne Sydney - C’è una cosa che devi vedere.»
Catherine Parker percorse velocemente il corridoio del SL-27 stringendo al petto
un fascicolo voluminoso di cartelle mediche. La sua agitazione era palpabile
nonostante la sua figura si intravedesse appena nella penombra e fosse filtrata
dalla freddezza insana dello schermo. La didascalia collocava quelle immagini al
04/12/70, il giorno prima della sua morte. La donna si guardò intorno con
espressione preoccupata sul volto bianco. La telecamera di sorveglianza seguì i
suoi movimenti lungo il corridoio, sino a che non raggiunse una porta chiusa
alla sua destra. Catherine Parker spiò all’interno attraverso la feritoia e,
controllando che nessuno l’avesse seguita, entrò. La stanza era poco illuminata
e alle pareti erano appesi tanti pezzi di carta di giornale strappata, con
apparente casualità. La donna rimase al centro della stanza osservando con gli
occhi spalancati ed un’espressione d’orrore sul viso l’insolita carta da parati.
I suoi occhi si riempirono lentamente di lacrime, e la sua figura si strinse
ancora di più attorno al fascicolo che stava stringendo ora con mani tremanti di
rabbia, disapprovazione e disperazione. Lasciò sfuggire dalle sue labbra un
lieve grido di dolore che fece tremare la coscienza di Miss Parker. Catherine
Parker si voltò per uscire dalla stanza. Sulla soglia c’era una figura in ombra.
«Non avrebbe dovuto spingersi tanto oltre, Mrs Parker.» la apostrofò una voce
maschile.
Catherine Parker trasalì, ritraendosi verso la parete. «Stia lontano da me!»
gridò quasi terrorizzata.
L’uomo scivolò nella sua direzione, mantenendosi scostato dalla luce. «Non
avrebbe dovuto cercare nell’archivio; - continuò la voce maschile con tono
minaccioso - a sua figlia non farebbe piacere sapere che lei è così…»
«Lasci in pace mia figlia!» gridò Catherine Parker zittendo l’uomo prima che
finisse la frase.
«Allora mi ridia quei fascicoli.» disse calmo l’uomo avvicinandosi ulteriormente
e tendendo una mano nella sua direzione.
La donna si ritrasse ancora fino a posare la schiena alla parete fatta di carta.
«Mi dia quei rapporti!» ordinò più perentoriamente la voce.
Lei sembrava non sentire nemmeno le sue parole, fissando sbigottita lo sguardo
buio dell’uomo che la stava spingendo sempre più contro la parete.
«Mi lasci in pace! Lasci in pace me, mia figlia e mio marito!» continuò
Catherine Parker senza esito.
Ansimando, posò le sue dita affusolate contro la carta chiazzata dei giornali e
premette, graffiando e stracciando la parete. La carta cedette e la falsa parete
si spezzò, facendo cadere la donna sul pavimento dietro di questa. La cartella
con i rapporti le scivolò dalle mani per la sorpresa e i fogli si sparpagliarono
attorno a lei, che rimase incredula con gli occhi spalancati dalla paura e dalla
sorpresa.
«Ma che cosa diavolo è questo posto?!» fece guardandosi intorno. La stanza
nascosta era dipinta completamente di nero e sul pavimento era sparsa una
sostanza collosa simile a gelatina.
«Che cosa ha intenzione di fare qui dentro, Raines?» gridò.
Miss Parker ebbe un tuffo al cuore al suono di quel nome pronunciato da sua
madre e si portò una mano alla bocca.
«Che cosa sta facendo, Raines?!» ripeté con più enfasi nella voce.
«Non si preoccupi dei miei progetti, ora ha cose più importanti alle quali
pensare…» fece l’uomo viscidamente.
«Oh mio Dio! - singhiozzò - A quale bambino è riservato questo inferno?!»
«Le avevo detto di non cercare nell’archivio, ma lei non mi ha dato retta!»
gridò la voce ora rauca di Raines. La sua figura si abbassò su quella della
donna, mostrando il suo volto mostruoso sotto la luce: «Ora nemmeno suo marito
sarà in grado di proteggerla dalla Torre!» la ammonì.
Catherine Parker lo fissava visibilmente sconvolta, finché l’uomo non si alzò,
rimanendo però nella stanza, aspettando che se ne andasse, la invitò dalla porta
ad uscire con un cenno della mano.
La donna ansimò turbata raccogliendo in fretta i fascicoli caduti a terra e
ripulendoli dalla sostanza gelatinosa come meglio poteva. Si alzò ricomponendo
la sua immagine e uscì in fretta, correndo via per il corridoio sotto lo sguardo
truce di Raines.
Il disco era finito e Sydney lo tolse dal lettore. Il viso languido di Miss
Parker lo fece sentire in colpa.
«Miss Parker…» cominciò.
«Dove l’avete trovato?» chiese interrompendolo.
«Era nell’archivio, lo ha trovato Broots assieme agli altri, in uno scatolone
col nome di tuo padre.» disse.
Miss Parker si alzò improvvisamente in piedi: «Mio padre sapeva di questo?»
chiese quasi urlando.
Sydney scosse la testa in segno di disapprovazione: «Non gridare, Parker, … non
so che cosa c’entri realmente tuo padre, forse questi dsa sono stati
classificati ed archiviati sotto il nome di tuo padre perché non venissero
trovati. - disse scuotendola dolcemente per le spalle. Lei si divincolò. I suoi
occhi si stavano riempiendo di lacrime. - Naturalmente è solo una supposizione.»
continuò lo psichiatra.
«Chissà quanti ce ne sono, allora, nell’archivio!» fece Miss Parker quasi tra sé
e sé.
Sydney rimase ad osservare la sua figura longilinea passeggiare nervosamente
accanto alla scrivania. Il suo viso pallido e le sue movenze eleganti gli
riportarono alla mente la figura della madre che percorreva gli stessi passi nel
suo ufficio, pochi minuti prima di entrare in quel maledetto ascensore.
«L’unica cosa che non mi spiego è: perché conservarli, perché nasconderli invece
di distruggerli?!» continuò Miss Parker fermandosi a fissare gli occhi
pensierosi dello psichiatra.
«Miss Parker…»
«Sydney, - lo interruppe lei nuovamente - … ti prego. Che cosa sai veramente?»
Sydney la guardò con aria interrogativa: «Come?!» fece senza capire che cosa
intendesse.
«Syd, tu sei sincero con me, non è vero?!» chiese per conferma.
«Certo, ma non riesco a capire che cosa tu…»
«Syd! - lo interruppe di nuovo - Ho bisogno che tu mi dica la verità!»
Sydney rimase impassibile, il suo sguardo su di lei, compostamente seduto.
«Che cosa vuoi sapere?»
Miss Parker trasse un respiro profondo e si sistemò meglio i capelli prima di
porre la sua richiesta: «Dimmi perché tutt’a un tratto ti sei messo a difendere
mio padre, perché, sai qualcosa che io non so?!»
Sydney si alzò lentamente dalla sua poltrona e la guardò negli occhi. Il viso di
Miss Parker tradiva una miriade di emozioni diverse che difficilmente lo
psichiatra sarebbe stato in grado di decifrare.
«Tuo padre ha commesso molti errori nella sua vita,» cominciò.
«E così ho fatto io.» constatò la donna.
«… ma non posso biasimarlo.» terminò quasi ignorando l’osservazione.
Miss Parker lo stava ora fissando negli occhi sempre più stupita.
«La Torre ha minacciato tua madre, te, la sua famiglia; non aveva molta scelta.
Ha fatto la cosa che, temo, avrei fatto anche io.»
«Di che cosa stai parlando, Syd?» la voce di Miss Parker suonò rotta, incapace
di sfuggire alle labbra tremanti.
«Ha scelto di sacrificare sé stesso per poter salvare voi, ma qualcuno non era
d’accordo.» spiegò enigmaticamente.
«Sydney… io contino a non capire: che cosa intendi?»
«Prima che tuo padre rassegnasse le dimissioni dal comando che gli venivano
richieste dalla Torre… tua madre venne uccisa.»
Miss Parker sembrò sconvolta, le lacrime cominciarono a scendere sulle sue gote,
senza lamenti: «Mio padre voleva lasciare il Centro?!»
«Per te, e per tua madre.»
«Perché… perché non l’ha fatto?! - la voce rotta dall’emozione - Perché non ce
ne siamo andati prima che la uccidessero?! Dovevamo arrivare a questo punto!?»
«Parker…»
Miss Parker si asciugò gli occhi velocemente con la mano e riassunse la sua
abituale fredda compostezza: «Non ti preoccupare, Sydney, - lo rassicurò tenendo
la distanza - ho intenzione di andare in fondo a questa storia, e a qualunque
altra il Centro mi sottoporrà, non mi tiro indietro.» affermò risoluta. Prese il
pacchetto di sigarette che aveva in tasca e ne accese una. Inspirò e sospirò
profondamente, sentendosi piena di fumo e vuota d’affetti.
«Per ora, però, la cosa più urgente è scoprire dove si trova Jarod.» concluse
inalando una nuova boccata dalla sua sigaretta.
La sua voce dolce e vellutata lo svegliò delicatamente. Quando aprì gli occhi
riconobbe l’odore del sangue. Le ombre vacue che riuscì a distinguere si
ricomposero in un soffitto grigio di cemento armato. Non riusciva ancora a
muoversi. La schiena gli faceva terribilmente male e faceva fatica a respirare
dal dolore.
«Jarod…» disse la voce in un sussurro.
“Sono qui.” rispose in silenzio.
«Non aver paura. - continuò - Io sono qui con te.»
“Non lasciarmi.”
«Non ti lascio.»
Jarod chiuse gli occhi non appena il gentile tocco della sua mano gelida lo
sfiorò sulla nuca.
“Dove sono?”
La voce non rispose, ma le sue mani candide carezzarono amorevolmente il suo
viso. Jarod aprì gli occhi e l’immagine evanescente della donna gli sorrise.
“Chi sei?” le chiese senza ancora riuscire a ricordare, ma sforzandosi di
cercare qualche reminiscenza di quel sorriso immensamente luminoso nei meandri
della propria psiche. I denti bianchi, i canini appuntiti. Le labbra
delicatamente curve nell’espressione. Gli occhi lucenti, chiari, severi.
L’immagine rimase in silenzio a contemplare il corpo martoriato dell’uomo: le
braccia e le gambe livide, il sangue che formava rivoli coagulati era colato sul
tavolo di metallo freddo sul quale era disteso e legato. Le catene attorno ai
polsi ed alle caviglie.
Un flash attraversò la sua mente: la donna gridava nella sua direzione, gridava
il suo nome, il suo viso adirato, i suoi occhi severi.
“Chi sei?” ripeté.
La donna non rispose di nuovo, continuando a carezzare delicatamente il suo
corpo, scivolando sul braccio e prendendogli la mano, stringendola saldamente
tra le sue.
Jarod la vide di nuovo gridare il suo nome, gridare di fermarsi, e correre.
«Jarod…» disse la donna sussurrando.
«Jarod!» gridò nella sua testa l’immagine irata di lei. Vide la donna alzare la
pistola contro di lui e sparare, la vide correre, la vide gridare, i suoi occhi
pieni d’odio.
Jarod si scosse, frastornato da quelle immagini.
“Chi sei?” chiese tra le lacrime: “Che cosa ho fatto?” domandò più a sé stesso,
confuso. Le due immagini contraddittorie della donna si sovrapposero sotto i
suoi occhi.
La donna chinò il capo sul suo viso, baciandolo sulla fronte. Il tocco delle sue
labbra fredde lo fece tremare. I suoi capelli neri scivolarono sulla sua pelle
livida, il suo profumo dolce riempì le sue narici e Jarod chiuse gli occhi.
Quando li riaprì un istante dopo, lei era scomparsa.
“Non lasciarmi…” singhiozzò Jarod. Il dolore tornò l’unica sensazione palpabile
e l’odore del sangue rimpiazzò il buon profumo della donna. “Che cosa ho fatto?
Non andare via… ti prego, non lasciarmi!” gridò disperatamente dentro di sé: “Ti
prego, non lasciarmi solo… di nuovo!”
«Miss Parker…» sussurrò nell’oscurità.
Mentre quelle ultime parole risuonavano nella sua mente il cigolio fastidioso
della porta blindata echeggiò nella stanza, e i passi di qualcuno si
avvicinarono furtivi, incerti.
Miss Parker lasciò l’ufficio di Sydney, diretta alla sala controllo, dove si
aspettava di trovare Broots. Aveva ragione: l’uomo era seduto di fronte al suo
computer, e digitava qualcosa sulla tastiera. Sembrava molto concentrato. Miss
Parker sorrise silenziosamente, avvicinandosi tentando di non fare rumore.
Broots non si accorse di nulla.
«Broots!» lo chiamò una volta alle sue spalle, battendo le mani a pochi
centimetri dal suo viso.
Broots fece un salto sulla sedia girevole, urtando con uno scatto involontario
della mano la caraffa di caffè accanto alla tastiera, rovesciandone il contenuto
su una pila di fogli sparsi sul ripiano della scrivania.
«Oh, mio Dio! … - tentò di riprendere fiato - Mi-miss Parker… mio Dio, che
spavento, credevo fosse…»
Miss Parker rimase serissima in volto: «Chi credevi che fosse, Broots?!» fece
sarcasticamente.
«Bhè, non importa. Ma quello che importa è che devi vedere alcune
registrazioni.» disse tentando di risistemare alla meglio la scrivania.
«Ancora?! - disse scocciata - Se sono quelle riguardanti mia madre, le ho già
viste nell’ufficio di Sydney.»
«Oh, no, no, no, queste… riguardano Jarod!»
Lo sguardo della donna divenne immediatamente interessato.
«Le ho appena trovate, è per questo che mi sono spaventato, se qualcuno sapesse…
credo che saremmo tutti morti prima dell’alba!»
Miss Parker gli intimò di tacere con un cenno della mano. Si voltò in direzione
della porta di scatto, e con passo lento e misurato, senza far rumore raggiunse
il corridoio sempre poco illuminato.
«Brigitte!»
La bionda le sorrise da dietro la porta, appoggiata al muro con la schiena, il
lecca-lecca in bocca che la mano destra rigirava febbrilmente, la sinistra sul
pancione.
«Ancora al lavoro a quest’ora, Miss Parker»
Miss Parker strinse le labbra regalandole uno dei suoi familiari sguardi
raggelanti: «Potrei farti la stessa domanda. Ma invece ti chiederò: che cosa
vuoi?»
La donna si staccò dal muro, entrando nella stanza, scansando Miss Parker con la
pancia.
«Volevo solo vedere che genere di lavoro si sbriga a quest’ora di notte nei
sottolivelli del Centro.» Parlando si era avvicinata allo schermo del computer
al quale lavorava Broots.
«Almeno noi lavoriamo.» replicò Miss Parker frapponendosi tra lei e la
scrivania.
Brigitte sorrise di nuovo: «Sai, “angelo”… c’è qualcuno che pensa che il vostro
“lavoro” ultimamente non sia del tutto compatibile con gli affari del Centro.»
Broots osservava le due donne con gli occhi sbarrati. Il sudore cominciava ad
imperlare la sua fronte al pensiero di che cosa avrebbe fatto o detto Miss
Parker, o di che cosa sarebbe successo se Brigitte avesse scoperto le loro
attività.
Miss Parker rise: «E questo qualcuno è, come al solito, riferito alla tua
persona, suppongo.»
«Dovresti essere più attenta nella scelta dei tuoi partiti Miss Parker:
accollarsi cause perse in partenza non fa che peggiorare la tua precaria
situazione.» rispose tranquillamente la donna carezzandosi l’ingombrante pancia.
Miss Parker abbassò il suo sguardo di riprovazione sulla donna che portava in
grembo il suo fratellastro.
«Sarebbe un vero peccato ripetere l’esperienza di mammina, non credi?!» continuò
sarcastica la biondina, accentuando l’intonazione sulla parola “mammina”.
L’espressione di Miss Parker si accese d’ira, i suoi occhi divennero lucidi, le
sue mani si trattennero a fatica lungo i fianchi, la volontà di afferrare il
collo sottile a soli pochi centimetri da lei era per Miss Parker quasi un
imperativo, un desiderio da sopprimere per un bene più grande chiamato
sopravvivenza.
«Non ti permetto di nominare mia madre.» ringhiò.
«Voleva solo essere un avvertimento materno.» replicò Brigitte con voce pacata,
simulando lo sguardo amorevole di una madre. A Miss Parker sembrò l’immagine
della perfidia.
«Suonava più come una minaccia.» replicò a sua volta.
«Prendila come ti pare.» disse con aria seccata e facendola da parte con una
mano, lo sguardo puntato sullo schermo. Lesse: “Memorandum per gli addetti alla
manutenzione”.
Brigitte volse lo sguardo su Broots, seduto con gli occhi sbarrati che la
fissavano, e poi su Miss Parker che la squadrava dall’alto della sua imponente
statura con fare impercettibilmente divertito, le braccia incrociate sul petto.
Brigitte le rivolse un sorrisetto stirato. Miss Parker si schiarì la voce e la
invitò ad uscire con un cenno della mano.
«Comunque credevo che fossi in partenza, Miss Parker.»
«Infatti.»
«Allora… buon viaggio.» aggiunse.
«Contaci.» le rispose Miss Parker con un falso sorriso in segno di sfida.
La donna si girò di nuovo verso l’uomo paralizzato dalla paura sulla sedia
girevole e gli fece l’occhiolino prima di andarsene.
Miss Parker tirò un sospiro di sollievo mentre Broots balbettava: «Credi… credi
che abbia sentito?»
«Avanti, fammi vedere che cosa hai trovato.»
«M-ma… mi ha fatto l’occhiolino! Se avesse sentito il nostro discorso…»
«Broots!» lo richiamò la donna abbassandosi sullo schermo per evitare il
riflesso della lampadina. L’uomo si tacque, tornando a digitare sulla tastiera.
Dei passi nel corridoio richiamarono di nuovo la loro attenzione. Miss Parker si
voltò nuovamente verso la porta che aveva provveduto a chiudere dopo che
Brigitte se ne era andata, pronta ad impugnare la pistola. La porta si aprì
lentamente e comparve Sydney.
Entrambi tirarono un sospiro di sollievo e gli fecero cenno di avvicinarsi in
silenzio e chiudere la porta. Lo psichiatra eseguì. Broots gli spiegò che aveva
scovato un altro filmato nell’archivio digitale riguardante Jarod.
Si disposero attorno allo schermo e Broots spinse finalmente “enter”.
Fine seconda parte
Miss Parker camminava decisa verso l’ufficio di suo padre. Le labbra serrate,
ripeteva mentalmente ciò che avrebbe voluto uscisse dalla sua bocca nei minuti
seguenti.
Raggiunta la porta a vetri bussò ed entrò senza attendere risposta. L’ufficio
era vuoto, ma la luce sulla scrivania era ancora accesa. I suoi piani andavano a
gambe all’aria.
Si guardò intorno, scocciata, risentita. Si sedette sulla sedia di pelle ad
aspettare.
Poi sentì i passi inconfondibili di suo padre accompagnati dal cigolio della
bombola di Raines e dallo scalpiccio di alcuni spazzini.
«… sono d’accordo, ma non posso lo stesso… oh, angelo, …» Non appena aveva visto
sua figlia Mr Parker si era zittito. Raines dietro di lui.
Miss Parker sorrise falsamente a suo padre.
«Tesoro… che cosa fai ancora qui… è molto tardi…»
Miss Parker sciolse il sorriso.
«Ci lasci soli, Raines, per favore.» chiese l’uomo con espressione turbata.
Raines obbedì senza fiatare, rivolgendo alla donna seduta dietro la scrivania
del potere un’occhiata truce e sadica.
«Papà…»
«È un vero peccato che tu te ne vada proprio ora, seduta su quella poltrona
sembri davvero a tuo agio.»
«Già… Ho già liberato l’ufficio, è solo che… volevo salutarti prima di
andarmene.» disse titubante, alzandosi mesta; il suo sorriso era svanito, ma era
subitamente comparso ad increspare le labbra di Mr Parker: «Certo, angelo, non
potevi andare via senza salutarmi.» Le carezzò freddamente una guancia e andò a
sedersi dietro la sua scrivania.
Miss Parker non si voltò, mantenendo la schiena rivolta all’uomo.
«Bene… allora… io ti lascio. Buon lavoro.» concluse.
«Divertiti.» le rispose suo padre.
Miss Parker si voltò a fissare gli occhi dell’uomo ancora una volta e sorrise. I
suoi canini appuntiti le diedero un aspetto più demoniaco del solito. Un velo le
copriva gli occhi, ma non era tristezza.
«Farò del mio meglio.» assicurò più a se stessa che al padre, che ormai era
passato a considerare i fogli sparsi sulla scrivania.
Mentre il rumore dei suoi tacchi si allontanava, Mr Parker alzò il ricevitore e
compose il numero di un interno.
Spinse la porta delicatamente, quel tanto che bastava per permetterle di vedere
il lato destro del corridoio. Deserto. L’illuminazione era forte, stranamente.
Entrò.
Per sicurezza gettò un’occhiata alla telecamera di sorveglianza per controllare
che la spia di funzionamento fosse spenta. Perfetto: Broots aveva fatto il suo
lavoro.
Camminò stando attenta a che i suoi tacchi non provocassero troppo rumore sul
pavimento piastrellato. Il suo respiro controllato, quasi trattenuto.
Ebbe un flash: vide il corridoio illuminato, lo stava percorrendo, i suoi passi
furtivi scansavano la luce.
Tornò a respirare. Era già stata lì.
Lo percorse interamente, sino a giungere alla porta scorrevole. Le guide erano
state oliate da poco, una puzza di vernice fresca la infastidì, poggiò una mano
sul metallo freddo e la pittura si scrostò, cadendo ai suoi piedi. Sussultò.
Afferrò la maniglia e spinse la pesante porta verso destra.
Dalla parte opposta il buio. Si infilò faticosamente tra lo stipite e la porta,
per poi richiudersela alle spalle.
Un nuovo flash la sorprese: gli abiti maschili sul pavimento, le grida
disperate, la sottile luce sulla destra. Era sulla buona strada.
Ritrovò la camicia di Jarod in un angolo accanto ad un mobile in metallo che
aveva tutta l’aria di essere adatto all’arredamento ospedaliero. L’odore di
muffa era irrespirabile.
Estrasse la pistola e disinserì la sicura, stringendo saldamente l’impugnatura.
L’armò e si accinse a raggiungere la porta oscillante in fondo a destra.
I suoi passi lenti, misurati, felini. Miss Parker scivolò inconsapevolmente
attratta dallo spiraglio di luce. Le grida immaginarie riecheggiarono nella sua
scatola cranica come lame, i suoi incubi divenivano improvvisamente previsioni
di un imminente futuro. Si scoprì incapace di procedere, il respiro affannoso, i
brividi la percorrevano. Se avesse aperto quella porta avrebbe trovato il
corridoio senza pavimentazione, la fila di porte blindate sul lato destro, i tre
gradini che conducevano al laboratorio per le simulazioni, l’odore del sangue,
le grida di dolore, l’ombra, Jarod. Fu solo quest’ultimo pensiero che la indusse
a proseguire.
Come in un sogno rivide pezzi delle sue visioni ad ogni passo che faceva, sino a
raggiungere la pesante porta blindata, fino ad afferrare la fredda maniglia di
ferro e a trarre un profondo sospiro di incoraggiamento.
Aprì ed entrò.
Una fioca luce rossastra pervadeva la grande camera gelata. Era umido, le pareti
erano in ombra, ma Miss Parker riusciva ugualmente a percepire la presenza di
qualcuno nella stanza. Il faro era puntato su di un tavolo veterinario, con un
ronzio elettrico che la disturbò. Schizzi di sangue coagulato avevano disegnato
rigagnoli scuri sul metallo freddo. Le catene penzolavano dai quattro angoli con
un fastidioso cigolio. Si guardò intorno.
Le pareti erano sporche, sembravano bagnate, tante goccioline scivolavano fino a
terra, a formare pozze d’acqua maleodorante e scura. La luce rossa le faceva
apparire gocce di sangue. Rabbrividì. Siringhe erano sparse sul pavimento, Miss
Parker ne raccolse una. Le parve di percepire un gemito, velato, lontano,
nell’ombra. Lasciò cadere la siringa.
Non vedeva niente. Il faro rosso era troppo debole per raggiungere le pareti del
laboratorio per simulazioni. Si avvicinò al tavolo e vi posò sopra i
polpastrelli. Era certa che Jarod fosse stato lì. Strinse le labbra alla vista
del sangue. Sospirò faticosamente, girando su se stessa ed attorno al tavolo, si
chinò per osservare i sacchetti che vi erano stati riposti sotto, ne sollevò uno
e lo portò sotto la luce: conteneva medicinali, sedativi, sonniferi e
allucinogeni in quantità industriali.
Si chiese se avessero usato quella roba su Jarod.
Tornò a chinarsi sotto al tavolo per prendere il resto dei sacchetti e notò
qualcosa muoversi dalla luce all’ombra. O almeno così le era sembrato.
“Non mi stupirei se fosse un topo.” pensò “Questo posto è un vero mattatoio.”
«C’è qualcuno?» bisbigliò.
Non ottenne risposta. Si diresse con passi misurati verso l’angolo più lontano
dalla porta.
«C’è qualcuno?» ripeté con un filo di voce.
La cosa si mosse di nuovo. Miss Parker sussultò. Ne era certa, c’era qualcuno, o
qualcosa, aveva visto… cosa aveva visto? Un piede? Una mano? Una coda?
Si avvicinò ulteriormente. Cercò di penetrare l’oscurità, si sentì
improvvisamente pervasa da un senso di inquietudine. Aveva paura. Di cosa non
riusciva ancora ad identificarlo, ma era reale, percepibile, palpabile nella sua
mente, e ora Miss Parker stava spremendo i suoi sentimenti per scacciarli il più
lontano possibile da se stessa, ma quella stanza non faceva che rammentarle i
più terrificanti incubi di quegli ultimi giorni, le grida laceranti che
riecheggiavano ancora indisturbate nella sua mente.
Si accorse di respirare a fatica, tratteneva il respiro, ma appena si lasciò
andare cominciò ad ansimare. Respirava affannosamente per l’ansia.
«Jarod…» sussurrò alla sagoma raggomitolata nell’angolo.
Le rispose un gemito, un singhiozzo strozzato.
Miss Parker deglutì e riprese fiato: «Jarod, sei tu? - chiese - Sono io, Miss
Parker.» continuò con voce flebile, vellutata tendendo una mano.
«Non lasciarmi più.» sussurrò Jarod tra i singhiozzi.
Miss Parker rise, le lacrime agli occhi. Si avvicinò, chinandosi su di lui.
Jarod mantenne la sua posizione fetale, si lasciò accarezzare dalla mano fredda
di lei che si posò sui suoi capelli scompigliati e scese sino alle spalle nude.
«Vieni qui.» gli disse.
Jarod dondolò contro il muro. Miss Parker lo trascinò con cautela sotto la luce:
Jarod tremava, gli occhi chiusi, le mani attorno alla vita; era sporco di terra,
bagnato, la sua pelle era solcata da profondi tagli e lacerazioni ancora
grondanti sangue su tutto il corpo. Indossava solo dei sudici pantaloni da
pigiama.
La donna rimase a bocca aperta, combattuta tra la gioia di averlo finalmente
ritrovato vivo e la pena nel vederlo ridotto a quel modo. In un solo istante
sentì su di sé il dolore che doveva aver sofferto. Si chinò su di lui e lo
strinse tra le braccia, lui gridò per il dolore. Miss Parker lo lasciò,
bisbigliandogli all’orecchio parole rassicuranti, cercando di calmarlo, farlo
smettere di piangere, ma sentire il suo nome sembrava che lo facesse solo
piangere più forte. Ora doveva sbrigarsi, non aveva molto tempo per portarlo
fuori da quella prigione.
Quando finalmente smise di singhiozzare Miss Parker lo fece alzare e trascinare
faticosamente fuori del laboratorio, lungo il corridoio, sino alla porta
scorrevole e gli infilò la camicia che aveva trovato appallottolata lì accanto.
Miss Parker era seduta sul letto. La sua mano sinistra danzava sfiorando
delicatamente il viso di Jarod, disteso su un fianco. Ora dormiva. Ma non era
sicuramente un sonno tranquillo. Erano passate le tre di mattina da quasi venti
minuti, Miss Parker sospirò osservando la sveglia sul comodino. Jarod gemette,
strizzò gli occhi e tornò a dormire.
“Che cosa ti hanno fatto?” pensò lasciando scivolare il suo sguardo lungo le
spalle e la schiena martoriate.
Sentì un rumore provenire dal piano inferiore e si affacciò alla ringhiera.
«Sydney, finalmente! - lo accolse scendendo le scale di corsa - Si sono già
accorti della fuga?»
Sydney lasciò cadere il soprabito sul pavimento e la guardò negli occhi: «A
quest’ora lo avranno scoperto, ma di sicuro non hanno messo i manifesti; nessuno
doveva sapere che Jarod era al Centro.»
«Broots?»
«Ci telefonerà in caso di problemi o attività sospette.»
Miss Parker rimase pensierosa: «E se dovessero richiamarci per ricatturarlo?»
«Non succederà. Se volevano eliminarci dalla partita questo è il momento adatto.
Ora siamo fuori dai giochi.»
Miss Parker annuì.
«Come sta Jarod?»
«Ora sta dormendo. - rispose mesta - Ma non fa che avere incubi: prima si è
svegliato, ha cominciato a piangere, a gridare frasi senza senso, ho cercato di
calmarlo, ma mi ha scaraventata a terra urlando che non ero reale, che non era
vero, si è avvicinato e si è chinato su di me, … credevo che volesse picchiarmi,
uccidermi, invece si è accasciato sul pavimento e mi ha chiesto scusa piangendo.
- Miss Parker tirò su col naso - Non ho potuto fare altro che prenderlo tra le
braccia e cullarlo come un bambino. - aggiunse chinando lo sguardo - Io… non
l’avevo mai visto così, Syd, ti prego… fallo tornare come prima, ti prego! Non
posso vederlo così!» disse senza più riuscire a trattenere le lacrime.
Salirono le scale in silenzio. Jarod era disteso sul letto con la schiena
all’entrata; le ferite chiaramente visibili.
Sydney si sedette sul bordo del letto esaminando con cura le condizioni
dell’uomo, Miss Parker rimase accanto alla ringhiera, osservando lo psichiatra
cambiare espressione.
«Credo che lo abbiano torturato, ho visto delle catene. - disse - E… - si
avvicinò alla poltroncina nell’angolo e porse allo psichiatra il sacchetto di
medicinali - Lo hanno sicuramente drogato.»
«Barbiturici, sonniferi, allucinogeni, …» elencò controllando il contenuto del
sacchetto.
Rimasero in silenzio per un attimo, contemplando entrambi i propri sentimenti
nei riguardi di Jarod. In quel momento si sentirono colpevoli: «Se solo lo
avessimo trovato prima.» sussurrò Sydney.
Miss Parker distolse lo sguardo.
«Ha detto qualcosa?»
«Nulla che avesse un senso.»
«Che cosa ha detto? »
Miss Parker sospirò cercando di ricordare le parole esatte: «Ha detto che lui
non era chi era, che non sapeva più chi era, … che io non ero reale, che non
voleva perdermi più, … che era solo un sogno. Secondo te significa qualcosa?»
Sydney spostò la sua attenzione su Jarod.
«Lo hanno sfinito. Hanno tentato di distruggere la sua volontà per poter
controllare la sua psiche, per fargli fare cose contro il suo volere,
inconsciamente.»
«Simulazioni?» ipotizzò Miss Parker.
«Possibile, ma improbabile: nessuno sarebbe in grado di svolgere simulazioni
concludenti sotto l’effetto di pesanti farmaci che deviano la mente, neanche
Jarod.»
Miss Parker sospirò: «Che cosa facciamo adesso?»
«Speriamo… che si riprenda. Sospendiamo i farmaci, dovrebbe tornare a fare
connessioni mentali più logiche, e non lasciamolo mai solo.»
Jarod aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il proprio braccio destro steso
sul lenzuolo candido. La vena era ingrossata, poteva chiaramente sentire il
pulsare del sangue attraverso la scatola cranica, rumore assordante che lo fece
sussultare e strizzare gli occhi sforzandosi di alzare la testa dal cuscino.
«Jarod…»
Jarod si fermò in ascolto. L’aveva udita veramente? L’ultima volta ricordava
confusamente di averla sentita chiamarlo nell’ombra del sottolivello del Centro.
E ora dove si trovava?
«Jarod…» Miss Parker comparve accanto a lui, si sedette sul lato opposto del
letto e tendendo una mano lo stava accarezzando sulla fronte. Ricordò
improvvisamente il bacio che gli aveva dato e la sua gelida mano sul collo.
«Come stai?»
Jarod non riuscì a parlare. Voleva parlare, voleva gridare. Ma non riusciva
proprio a muoversi. Miss Parker gli sorrise, il suo volto illuminato dalla luce
tenue del primo mattino che penetrava tra le persiane.
«Miss Parker… » bisbigliò.
«Sono qui.» disse lei.
Jarod sbatté le palpebre un paio di volte, scacciando le ombre opache che gli
impedivano di mettere a fuoco la sua immagine. La sua mano era calda ora, e il
suo sorriso dolce, i capelli scuri incorniciavano un viso pallido per la
stanchezza, ma i suoi occhi erano sempre gli stessi e le sue movenze feline
inconfondibili la rendevano talmente reale che per un istante credette di
poterla stringere di nuovo tra le braccia… Ma non era possibile: Miss Parker non
c’era più. Lyle la aveva uccisa. Aveva ucciso lei e i due bambini, aveva fatto
in modo che non tornasse più al Centro. E l’aveva rinchiuso.
Ma adesso non era più al Centro, e non era incatenato al tavolo. Dov’era ora?
Miss Parker si allungò oltre il suo viso e prese il bicchiere d’acqua sul
comodino alle spalle dell’uomo; glielo porse: «Alzati, ce la fai da solo?»
Jarod non si mosse. Pensava di averlo fatto, ma di fatto non si era spostato di
un millimetro. Eppure l’aveva pensato, aveva comandato al suo corpo di
sollevarsi dal letto e prendere il bicchiere che lei gli stava porgendo!
Miss Parker posò il bicchiere e lo aiutò ad alzarsi, causandogli un dolore
insopportabile: le sue ferite sembrarono riaprirsi e riempirsi di lame e spilli,
tanto da farlo gridare.
Miss Parker lasciò la presa: «Perdonami…» disse.
Jarod tornò a respirare a fatica. No, quella non poteva essere Miss Parker. La
sua Miss Parker non avrebbe mai chiesto scusa, non sarebbe mai stata tanto dolce
e disponibile, … o forse si?!
«Miss Parker… - sussurrò - Miss Parker…» fece più forte.
«Si, sono qui.» rispose lei prendendogli la mano tra le sue.
Era calda e morbida la sua pelle, non era come l’aveva vista tra le ombre nel
laboratorio per simulazioni, era reale, era lì accanto a lui e poteva toccarla,
sentire il suo profumo, la sua voce, … “Miss Parker!”
Miss Parker sorrise. Il sorriso più dolce che le avesse mai visto. Jarod posò i
suoi polpastrelli sulle sue labbra, giusto per controllare che non fosse solo un
sogno, che non fosse solo una visione, che fosse tutto vero.
Una lacrima di gioia rimase arginata tra le sue ciglia.
«Miss Parker… - ripeté inconsapevolmente - … Non lasciarmi.»
«Non ti lascerò più.» rispose con voce vellutata.
Jarod sorrise. Miss Parker era viva! Ed era lì con lui!… “Lì dove?” si chiese
subito dopo. Ma la sua domanda rimase senza risposta, almeno per quel momento,
perché Jarod si addormentò di nuovo.
Quando di svegliò fu per via dell’acqua che sentì scivolare sulla faccia.
Sydney lo stava scuotendo delicatamente per farlo svegliare, e lo chiamava:
«Jarod…»
Jarod si innervosì, con un gesto inconsulto scacciò la mano dello psichiatra:
«Io… io non sono io!» gridò con le lacrime agli occhi.
«Jarod…»
«No! - gridò più forte - Non chiamarmi così!»
Miss Parker corse su per le scale, salendo i gradini a tre a tre, richiamata
dalle urla.
Jarod si era alzato a sedere e combatteva con sé stesso, tenendo la testa tra le
mani e piangendo disperatamente, tentando di scacciare dalla sua mente chissà
quale demone.
«Io non sono più io! - gridò di nuovo - Io non sono chi sono! Io non so più chi
sono!»
«Calmati.» disse Miss Parker posandogli una mano sulla spalla.
«Lasciami!» Jarod sembrava pazzo, un istante prima era incapace di muoversi e
subito dopo diventava violento.
Miss Parker osservò l’espressione preoccupata di Sydney: «È l’effetto dei
farmaci: Raines deve avergli fatto qualcosa che ha provocato in lui un disturbo
della psiche e della memoria.»
«Una personalità multipla, come fece con Dannie-Einnad?» chiese Miss Parker.
«No, non penso. Ma deve averlo sconvolto. Credo piuttosto che gli abbia fatto
vivere qualcosa di particolarmente traumatico che lo abbia spinto a provare
emozioni incontrollabili, per indebolirlo, e successivamente sfruttarlo, magari
rimuovendo alcuni dei suoi ricordi.»
«Eliminazione selettiva della memoria. Può farlo?»
«Non so esattamente fino a che punto Raines si sia spinto con i suoi
esperimenti, ma… penso di si.»
Jarod ora piangeva sommessamente, ciondolando sul letto, avvolto nel lenzuolo.
«Se gli avessero fatto credere… che fossi morta?» ipotizzò.
«Possibile. Questo spiegherebbe il suo rifiuto nei tuoi confronti: non ti
considera più reale, non ti considera più parte di questo mondo, crede che tu
sia un fantasma, o una sua proiezione mentale. Raines deve aver sfruttato il suo
dolore per abbassare le sue difese.»
«E intanto Lyle lo aiutava con punizioni corporali.» concluse con un’espressione
irata.
Miss Parker carezzò amorevolmente le tempie di Jarod, sussurrando dolcemente
parole di scusa. Lui rimase immobile, con il viso ancora solcato dalle lacrime,
si lasciò coccolare appoggiando timidamente il capo sulla sua spalla.
«Ma ora si sta rendendo conto che sei ancora viva. Questo lo confonde ancora di
più.» provò a spiegare lo psichiatra.
Il respiro di Jarod divenne più regolare. Miss Parker lo baciò sulla fronte.
«Quando è con te sembra un’altra persona.» osservò Sydney.
Rimasero in silenzio per un istante interminabile, accompagnati solo dal rumore
ritmico del ramo di pino spinto dal vento d’ottobre che batteva contro il tetto
di legno.
«Ci sarà un modo per farlo tornare quello di prima.» affermò risoluta a voce
bassa.
«Potremmo provare a fargli riprendere coscienza di sé con i dsa.»
Erano già passati due giorni da quando Sydney era tornato al Centro. Jarod aveva
trascorso le ore a dormire. Parlava pochissimo, mangiava ancora meno, ma
sembrava più tranquillo. Miss Parker non lo lasciava mai solo, per paura di
sconvolgere il delicato equilibrio che sembravano aver trovato.
Quando non dormiva, Miss Parker portava nella sua stanza la valigetta argentea
che conteneva la sua vita e, uno alla volta, in ordine cronologico, Jarod si
rimpossessava dei suoi ricordi. Miss Parker seduta accanto a lui, ad osservare
ogni più celato stato d’animo, cercando di fare in modo che la verità su di sé
non fosse troppo traumatica da accettare. Ma dalla sua espressione non trapelava
mai nulla: il suo sguardo posato sullo schermo come se nemmeno lo vedesse, quasi
andasse oltre, a fissarsi nella sua memoria, definendone contorni e sfumature. O
più semplicemente, non voleva affatto vedere, ma solamente dimenticare quella
triste sequela di anni bui, dei quali l’unico spiraglio di luce era stato Miss
Parker, l’ancora di salvezza che gli aveva permesso di non soffocare, di non
perire in una estenuante lotta per la sopravvivenza che tra le mura del Centro
era inevitabile, come nella giungla; l’unica persona che aveva saputo dargli
quel minimo di affetto che meritava così tanto.
Quando squillò il suo cellulare, Miss Parker si svegliò di soprassalto. Non
ricordava nemmeno di essersi addormentata.
Si alzò dal divano guardandosi intorno stupita e rispose stropicciandosi gli
occhi con il suo solito inconfondibile: «Cosa?»
Era Sydney: «Come va la “terapia”?» chiese sottovoce.
«Ad essere sincera non te lo so dire. - disse cercando Jarod con lo sguardo, ma
senza trovarlo - Credo bene, ma non sarei pronta a giurarlo.»
«Qui invece ci sono dei problemi.»
«Non ce ne sono sempre?!» fece con aria cinica.
«Questa volta sono particolarmente grossi: qualcosa si muove, su alla Torre.
Pare che il Triumvirato abbia divergenze interne. Tuo padre è al settimo cielo e
Raines ha qualche nuovo lavoro sottobanco, sono pronto a scommetterci.»
«Di che tipo? Riguarda Jarod?»
«Non lo sappiamo ancora, ma Broots sta passando a setaccio la rete interna. Per
ora sappiamo solo che i campioni di sangue di non si sa chi sono stati
recapitati a Raines nel suo nuovo ufficio.»
«Nuovo ufficio?!»
«Si, si è trasferito a Donoterase da quando Jarod… da quando lo abbiamo
sottratto alle sue amorevoli cure.»
Miss Parker sgranò gli occhi: «Donoterase?! Ma è il laboratorio per esperimenti
genetici, dove ha vissuto Gemini. … Credi che ci siano sospetti su di noi per la
fuga?»
«Se siete in pericolo vi telefonerò al più presto»
«Syd, … - lo interruppe Miss Parker - Forse dovremmo semplicemente andarcene,
lasciare tutto… abbandonare il Centro.»
«Non vuoi scoprire la verità su tua madre?» le chiese candidamente.
Miss Parker si irrigidì. «Che importanza ha la verità se sei morto.» commentò
con amarezza.
Sydney non disse nulla, interdetto all’altro capo del telefono.
«Non importa.» concluse Miss Parker con un tono di rimpianto per aver dato voce
alle sue paure.
«La verità è al Centro, Miss Parker.»
Lei fece una smorfia di disapprovazione: «Curioso come un covo di menzogne sia
anche l’unico dove io possa infine trovare quello che cerco.»
«Hai ragione… Ma forse avrei dovuto dire che la verità è il Centro.» disse
accentuando il tono della voce sul verbo.
Rimase pensierosa, con il telefono premuto contro l’orecchio, gli occhi bassi,
lo sguardo che seguiva involontariamente i giochi di luce sul parquet.
«Meglio che vada. Non vorrei che si insospettissero troppo.»
Miss Parker sospirò chiudendo la comunicazione. Le ultime parole di Sydney la
avevano lasciata perplessa: se la verità era al Centro, perché non la aveva
ancora trovata? Se il Centro aveva tutte le risposte, perché Jarod era fuggito?
A quest’ultima domanda si rispose che senza la libertà non avrebbe mai potuto
trovare ciò che cercava.
E lei allora, perché non era scappata anche lei?
Cause di forza maggiore: suo padre. “Patetico.” pensò.
Si riscosse dai suoi pensieri e cominciò a rendersi conto che Jarod non era
nella stanza. Ricordava solo che prima che si addormentasse lui era seduto
accanto a lei sul divano e guardava i filmati. La valigetta era accuratamente
riposta sul tavolino nel centro della stanza. Pensò che fosse tornato a letto, e
si alzò per raggiungere la camera al piano superiore, ma la trovò vuota. Bussò
alla porta del bagno. Nessuno rispose, non c’era nessuno. Scese le scale di
corsa, col cuore in gola. Stava per chiamarlo, quando si bloccò: l’ultima volta
che Sydney lo aveva chiamato col suo nome la sua reazione era stata violenta e
gli aveva causato una crisi d’identità.
Ebbe un tuffo al cuore al pensiero che fosse fuggito. Come avrebbe fatto a
ritrovarlo, ora?
Poi lo vide attraverso la finestra.
Prese la coperta sul divano e corse fuori a piedi nudi. Lui era in piedi in
mezzo al prato, di spalle, indossava solo il pigiama e tremava per il freddo.
Miss Parker si avvicinò con cautela e lo avvolse nella coperta da dietro: «Che
cosa fai qui fuori, si gela.» disse piano.
Lui non rispose, non si voltò nemmeno. Le raffiche di vento autunnale spazzavano
via le foglie rossastre cadute dagli alberi del bosco circostante, che si
andavano a posare sull’acqua del lago increspandola di delicate onde.
«Stai tremando, torniamo dentro.»
«Dove siamo?» chiese ignorando i suoi ordini.
«Vicino al lago White Cloud.» disse girandogli attorno per vederlo in faccia.
Aveva gli occhi persi nel vuoto, come quando guardava i dsa, e la barba incolta.
«La baita di Sydney?» chiese.
Miss Parker sorrise: «Si,» confermò. Stava per aggiungere qualcosa, ma poi ci
ripensò.
«Dov’è Sydney?»
«Perché non ne parliamo dentro, magari davanti ad una tazza di the caldo, eh!?»
propose.
Jarod si lasciò guidare senza opporre resistenza.
Sydney scese alla sala comunicazioni del Centro dove stava lavorando Broots
seduto davanti al computer. Non era del tutto soddisfatto delle notizie che
aveva ricevuto da Miss Parker, ed era fermamente convinto che fosse stato tutto
troppo facile: sottrarre Jarod al Centro non era affare da poco, e che nessuno
se ne fosse accorto era decisamente molto improbabile. Ma se il silenzio forzato
della direzione nascondeva qualcosa, e Sydney ne era certo, che cosa mai sarebbe
successo nei prossimi giorni? Una squadra di ricerca speciale era già stata
avviata alla ricattura? Avevano prove concrete del loro tradimento? Se le
stavano ancora cercando… le avrebbero trovate? Certo, non che il Centro avesse
bisogno di prove per uccidere, bastavano i sospetti, ma qualcosa rimbalzava
nella testa di Sydney, un’idea fissa che non gli faceva dormire sonni
tranquilli: Raines aveva già un altro progetto. Non sapeva ancora che cosa
riguardasse, ma era molto importante per lui. E per la sua carriera e smania di
potere nella gerarchia del Centro.
«Hai trovato qualcosa, Broots?» domandò entrando.
«Dipende: i campioni di sangue recapitati a Raines erano di Jarod. E questa è
una cosa che avremmo anche potuto immaginare, ma… a Donoterase, Raines ha
ordinato due macchine incubatrici e nuova attrezzatura ospedaliera. Ha anche
fatto trasferire là alcuni campioni dell’archivio genetico.»
«Ci sta riprovando.»
«A creare un nuovo simulatore, un altro Gemini?! Non credo, Syd, per far nascere
un bambino avrebbe bisogno di uteri umani, donne-incubatrice, ma il rapporto non
menziona nulla del genere; inoltre non si spiegherebbero i campioni
dell’archivio genetico.»
Sydney rimase pensieroso.
«Syd…»
Lo psichiatra stava per parlare, ma fu interrotto: «Signor Broots, - apostrofò
uno spazzino entrando con fare baldanzoso nel laboratorio - è desiderato al
sotto livello cinque.» lo informò.
Broots lanciò un’occhiata a Sydney con aria perplessa. Che avessero già scoperto
tutto?
«Ecco… è… è urgente?» chiese titubante.
«È della massima importanza, la prego di seguirmi.»
Sospirando l’uomo si avviò, lasciando solo Sydney che tornò ad immergersi nei
suoi pensieri.
Non aveva alcuna intenzione di lasciar fare a Raines una qualunque delle sue
diavolerie. Doveva scoprire prima che cosa stava tramando, e mettere fine agli
atroci esperimenti che conduceva illegalmente sotto il benestare della Torre. Ma
come avrebbe fatto visto che ora si era addirittura allontanato dal Centro?
Inoltre aveva promesso a Jarod che avrebbe lasciato quel posto una volta per
tutte. Non poteva certo andarsene in un momento come quello: se Jarod era in
pericolo, o Miss Parker, o chiunque altro, lui avrebbe trovato un modo per
sistemare la situazione. Un’azione risolutiva e definitiva. Come aveva tentato
di fare Catherine Parker.
«Ha qualche problema, Sydney?» chiese una voce alle sue spalle.
Si voltò di scatto, sorpreso ed un po’ irritato dall’essere stato colto
impreparato.
«No, tutto bene.» rispose con studiata cortesia.
Brigitte girò attorno al tavolo e gli si parò davanti, succhiando con fare
innocente il suo lecca-lecca rosso.
«Lo sa, credevo che l’aria di montagna facesse bene, ma lei ha davvero una
brutta cera… senza offesa, ovviamente.»
«Ovviamente… non capisco a cosa si riferisce.»
«Ovviamente. - ripeté la donna con un mezzo sorriso - Eppure avrei giurato di
non averla vista per un paio di giorni.» incalzò.
Sydney incrociò le braccia sul petto: «Sono stato molto impegnato.»
«Lo posso ben immaginare. E… in cosa esattamente?»
«Progetti.»
«Un po’ vago, no?!»
Sydney sorrise amaramente senza però aggiungere altro.
«Ho capito, - disse infine la donna inumidendo le labbra. Gettò un’occhiata
fingendo noncuranza agli incartamenti sul tavolo, poi si girò e fece per
andarsene. - Ah, Sydney, se per caso vedesse Miss Parker…»
«Miss Parker è partita.» la interruppe lo psichiatra.
«Ma certo… e perché mai dovrebbe vederla, giusto?!» gli strizzò l’occhio e se ne
andò sculettando da dove era venuta.
Sydney tirò un sospiro prepotentemente trattenuto e si andò a sedere su una
poltroncina nella penombra.
Come diamine avevano fatto a sapere che era stato in montagna, al rifugio? Se
sapevano di lui allora sapevano anche di Jarod e Miss Parker?! Si passò una mano
sulla fronte, indeciso se afferrare il telefono e chiamare il cellulare della
donna oppure attendere sviluppi. Se avesse aspettato però avrebbe anche potuto
essere troppo tardi per loro. E se fosse stata solo una trappola per tastare il
terreno?!
Brigitte spinse i battenti dell’ufficio di Lyle con prepotenza e si affacciò
sorridendo diabolicamente. Raggiunse la poltrona in pelle nella quale era
sprofondato l’uomo e si mise ad osservare le mosse di Sydney sullo schermo del
computer, da sopra lo schienale, con i gomiti piantati nella gommapiuma.
«Allora? È quello che ci aspettavamo?»
Lyle le fece segno di tacere con un gesto fulmineo della mano monca, mentre con
l’altra spingeva l’obiettivo della telecamera di sorveglianza ad inquadrare un
primissimo piano dello psichiatra. Non voleva farsi sfuggire nemmeno la minima
reazione.
Sydney inarcò le sopracciglia come faceva sempre quando pensava. Lyle sorrise.
«Forse è la risposta che cercavamo.»
«O forse sta solo pensando a cosa ordinare stasera per cena!» irruppe nel
silenzio la voce di Mr Parker che stava entrando in quel momento.
«Papà, Sydney sta coprendo Miss Parker, è evidente! Lui sa dove si trova Jarod,
e sono pronto a scommettere che mia sorella è con lui. Se le nostre supposizioni
sono esatte… potrebbero trovarsi alla baita che Sydney ha in montagna, ci serve
solo una conferma.»
«Che bisogno avevi di una conferma? - chiese - Se pensavi che fossero là perché
non hai mandato subito una squadra?»
Lyle spostò lo sguardo da suo padre a Brigitte che giocava col lecca-lecca
all’interno della bocca. Fece spallucce e borbottò qualcosa tra i denti.
«Lascia perdere Sydney. Ora dobbiamo ritrovare Jarod.»
«Perché non mi lasci giocare un po’ con quei due, - fece Brigitte andando ad
abbracciare il marito con l’aria imbronciata: - sono più che certa che dopo
cinque minuti avremmo tutte le informazioni che ci servono.»
Mr Parker rise, le diede un colpetto gentile sulla pancia e la baciò sulla
fronte: «Un’altra volta, eh, tesoro.» poi uscì velocemente diretto al suo
ufficio.
Sydney arrestò l’auto dietro a un gruppo di siepi che crescevano selvatiche nei
pressi della strada sterrata che correva attraverso i campi, una delle poche
isolette sotto le fronde ombrose di striminziti alberelli.
I campi erano incolti, nonostante probabilmente sarebbero stati produttivi. Ciò
che in realtà interessava ai proprietari del terreno era ciò che stava sotto di
esso. Il paesaggio del tutto desolante, spoglio e privo di attrattive non
avrebbe di sicuro incuriosito nessuno. Non c’era anima viva, infatti.
Era a pochi chilometri dal Centro, eppure sembrava essere in Texas, dove prati
sconfinati facevano sentire soli al mondo.
Sydney si munì di una torcia elettrica ed estrasse dal cruscotto una cassetta di
sicurezza opportunamente chiusa col lucchetto; la aprì con la chiave che aveva
in tasca e sollevò la pistola soppesandola e rigirandola tra le mani,
studiandola con cura, quasi l’ammirasse e allo stesso tempo ne provasse profondo
orrore. Finalmente si decise ad impugnarla; vide la sua immagine riflessa nello
specchietto dell’auto, era diversa, seria come sempre, ma più determinata, priva
di quel sorriso sornione e ingannatore che mandava in bestia tutti quanti, ora
il suo sguardo era inquisitore, non più indagatore, e la sua espressione
scolpita nella disapprovazione, nella rabbia e nel rifiuto.
Inserì il caricatore e armò la sua pistola con un brivido che lo percorse
fulmineo in tutto il corpo.
Lasciò l’auto nascosta dietro i cespugli e si incamminò a passo moderato, la
pistola nella tasca della giacca, sotto il sole che si stava alzando. Non
c’erano nuvole quel giorno. L’aria era comunque pungente, più del giorno
precedente, segno che l’inverno sarebbe presto arrivato.
L’inverno arriva sempre per tutti.
Il fienile isolato appariva un’oasi lontana ancora, ma Sydney poteva chiaramente
distinguere il rumore della porta che sbatteva spinta da sporadiche folate di
vento che giungevano a scompigliargli i capelli ormai grigi. La sensazione di
disagio che aveva provato appena aveva lasciato il Centro poche ora prima si
stava ora intensificando: non era mai a suo agio a portare un’arma, né a
rischiare così tanto.
Per tutta la vita lui aveva eseguito gli ordini, chiuso gli occhi di fronte alla
realtà, finto e taciuto nei confronti della verità. Che si trattasse di Jarod,
di suo fratello Jackob, o di Miss Parker. Adesso qualcosa sarebbe cambiato.
Giunto alla porta del fienile vi si accostò con la schiena alla parete di legno
e sbirciò attraverso la fessura. Via libera. Spinse la porta con cautela ed
entrò. Il nitrito di una solitaria cavalla stanca lo salutò e lo spavento gli
fece salire il battito cardiaco percettibilmente; la cavalla sbuffò e si
allontanò trotterellando, varcò la soglia ed uscì nel prato.
Sydney riprese fiato e con maggior prudenza si guardò attorno. In fondo alla
stalla c’era la botola, seminascosta dall’erba medica; tirò la maniglia e per
l’ultima volta controllò alle sue spalle. Nessuno in vista, nessun rumore
all’orecchio. Si accinse a scendere i gradini di cemento che condussero al primo
piano sotterraneo di Donoterase, aprì con circospezione la porta del laboratorio
e si trovò nel corridoio principale.
Non c’era nessuno, stranamente.
Sydney posò la mano sulla tasca, tastando sotto i polpastrelli la sagoma rigida
della pistola. Era veramente pronto a tutto. Avrebbe trovato Raines e
gliel’avrebbe fatta pagare.
Scivolò rasentando i muri, abbassandosi in prossimità delle feritoie delle porte
blindate che si aprivano lungo il corridoio e raggiunse il laboratorio di
criobiologia. Controllò attraverso l’oblò nella porta che non ci fosse nessuno e
afferrò la maniglia, la quale però rimase bloccata. Sydney spinse e tirò,
strattonò con violenza, senza ottenere alcun risultato se non la sensazione
della bile che montava. Era troppo nervoso, doveva stare calmo, o l’avrebbero di
sicuro scoperto prima che fosse riuscito a capire quali piani aveva in mente
Nosferatu. Quindi trasse un profondo sospiro e si voltò guardingo tendendo
l’orecchio per carpire l’eventuale presenza di qualcuno. Nessuno. Sospirò
estraendo dalla tasca interna della giacca una tessera magnetica che aveva
sottratto nel vecchio ufficio di Raines e la passò nel quadro elettronico a
destra della porta. La luce verde si accese con un sibilo e Sydney poté aprire
la porta. Si ritrovò tutt’a un tratto avvolto nell’oscurità rotta dal
lampeggiamento del quadro di comando. Accese la torcia e si diresse alla cella
frigorifera, la aprì e venne accolto da un fresco alito di formaldeide che gli
fece gelare il sangue nelle vene. Con cautela estrasse un contenitore di
campioni congelati e lo posizionò sul banco da lavoro. Erano etichettati in
ordine alfabetico, ma catalogati solo con sigle irriconoscibili. Raines sapeva
coprire le proprie tracce. Quale di quelle provette era di Jarod? E le altre di
chi erano?
Sydney cominciò a studiarle una per una, a porre paragoni e confronti chimici,
fisici, molecolari.
Una cosa era certa: tutti quei campioni presentavano il medesimo fattore anomalo
nel sangue, quello stesso fattore che rendeva Jarod speciale. Il “gene del
simulatore”.
Forse Broots aveva ragione: il Grande Ustionato non aveva abbandonato l’idea di
creare un sociopatico al suo servizio, e ora voleva fare esperimenti genetici
con campioni di Jarod e di chissà chi altro. Da quanto tempo questa storia
andava avanti? Lo psichiatra si sentì salire un moto di disgusto dallo stomaco,
stava per vomitare, quando il raggio della sua torcia elettrica cadde su alcuni
incartamenti posati in pila, coperti da un cellofan e classificati “top secret”.
Sydney controllò l’orologio: probabilmente non avrebbe avuto ancora molto tempo.
Trrrr… Trrrr… «Maledizione! - imprecò frugandosi nelle tasche in cerca del
telefono - Chi è?» chiese sgarbatamente.
«Sono io, - rispose la voce titubante di Broots, il tono di Sydney gli aveva
vagamente ricordato quello abituale di Miss Parker - scusa, … ma dove sei?»
«A Donoterase.»
«A Donoterase! Ma sei pazzo?!»
Sydney cominciava a spazientirsi: «Lascia perdere, che cosa vuoi?» tagliò corto.
«Io… sono appena tornato dall’ufficio del mio amico Manny, quello alle
comunicazioni, sai… quello che non ha più la lingua…»
Broots aveva la cattiva abitudine di perdersi sempre in chiacchiere inutili nel
momento meno opportuno, mandando su tutte le furie Miss Parker. Ma stavolta non
era Miss Parker ad avere i nervi a fior di pelle: «Mio dio, Broots, il punto,
non la storia della lingua di Manny!» lo zittì.
Broots rimase perplesso, non si aspettava di ricevere una risposta simile dallo
psichiatra: lui era sempre così controllato, posato, sempre composto e calmo,
qualunque cosa accadesse, a parte quella volta quando…
«Broots!» lo richiamò Sydney alla realtà.
«S-si, ci sono, - balbettò - ecco… Manny è sicuro che Lyle abbia inviato una
squadra di spazzini proprio a White Cloud!» disse agitatissimo.
Sydney rimase immobile nell’oscurità del laboratorio, il fiato congelato nei
polmoni.
«Sydney…»
«Si… quando?»
«Solo una mezz’ora fa. Pare anche che avessero una certa fretta. Syd… che
facciamo?»
«Hai provato a chiamare Miss Parker?» chiese.
«Certo, già tre volte, ma il telefono non prende, forse non c’è campo… Syd!»
Sydney non rispose, aveva aperto uno dei fascicoli “top secret” ed era rimasto
letteralmente a bocca aperta.
«Broots… Broots dobbiamo avvertire Miss Parker assolutamente: qui ci sono delle
cose che la riguardano.»
«Quali cose?» chiese l’uomo all’altro capo del telefono tentando di non agitarsi
ulteriormente sulla sedia.
«Campioni, medicine, esperimenti, … e non solo, - fece aprendo un secondo
fascicolo: - qui ci sono anche Jarod, suo fratello Kyle, Angelo, Lyle, … e
Brigitte! - esclamò sorpreso - Brigitte ha il “gene del simulatore”!»
Broots apparve sconcertato, la sua voce tremolò e sbatté gli occhi
freneticamente: «Che dici, Syd, … Brigitte è una simulatrice?»
«Probabilmente lo è solo potenzialmente, come lo è Miss Parker. Non so davvero
che cosa pensare, so solo che se non fermo Raines in tempo questo diventerà il
suo cantiere per menti disturbate, o peggio. Broots va a White Cloud e…»
«Syd! Sarebbe un’ammissione di colpa! Mi uccideranno!»
Lo psichiatra si irrigidì: «Non è il momento di avere la coda di paglia, Broots,
la squadra di spazzini di Lyle sta andando là per giustiziarli!»
«Giustiziarli…?!» ripeté l’uomo col cuore in gola.
«Va, Broots, sbrigati.» disse chiudendo la comunicazione. Aveva sentito un
rumore, dei passi, qualcuno si avvicinava. Sydney spense la torcia e richiuse i
campioni nella cella frigorifera, andando a nascondersi dietro la credenza dei
medicinali. Uno spazzino passò davanti alla porta e sbirciò all’interno
facendosi luce con una torcia. Non vide nulla di anomalo e proseguì. Sydney
trasse un sospiro di sollievo e sentì i passi pesanti dell’uomo in nero
allontanarsi, poi improvvisamente si fermarono e tornarono indietro
frettolosamente; Sydney col cuore in gola strinse il pugno attorno alla pistola
che teneva nella tasca, pronto a far fuoco su chiunque e comunque.
«Joe! - chiamò lo spazzino - Ehi, Joe! Mr Raines mi ha chiesto di portargli
alcuni documenti, ci pensi tu a chiudere la Sezione Rossa?»
Una voce di rimando gli rispose affermativamente e i passi dello spazzino si
allontanarono nuovamente.
Sydney tornò a respirare e continuò a leggere i documenti riservati: “La
compatibilità è quasi perfetta, probabilmente un margine di errore esiste e non
è trascurabile, ma le nuove tecniche di ricostruzione cellulare che sto
sperimentando saranno utili anche a questo progetto.” Sydney diede una scorsa
all’intestazione della pagina: era classificato “Dolls Project”, il ricevente
della copia era cancellato, ma l’indirizzo era quello dell’interno della Torre.
Raines sviluppava progetti segreti per il Triumvirato! Ora si trattava di
scoprire quali, esattamente. Continuò a leggere ancora qualche riga, ma i nomi
erano in codice e il progetto non veniva mai chiaramente spiegato. Qualcosa però
nei meandri della contorta mente dello psichiatra gli fece scattare un’assurda,
e quanto mai azzardata associazione di idee: i campioni di tre simulatori erano
stati messi a confronto, esaminati e catalogati, assieme a tre campioni
prelevati da componenti delle più alte sfere del Centro. Probabilmente
combinando geneticamente il sangue dei Parker e quello di un genio come Jarod, o
Angelo, il Triumvirato avrebbe avuto tra le mani la più potente arma politica e
sociale che avessero mai potuto concepire.
Era sicuro che le prove che gli servivano fossero proprio sotto il suo naso. Si
guardò intorno sventolando il raggio di luce, ma il laboratorio asettico non
offriva molte possibilità ancora non vagliate, a parte forse l’armadietto
metallico in fondo alla sala. Sydney lo raggiunse a grandi passi e forzò la
serratura. Per un istante il suo cuore smise di battere, quando il rumore dei
cardini che cedevano rischiò di attirare l’attenzione di uno degli spazzini di
Raines; ma pareva che nessuno se ne fosse accorto.
Sydney si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Cominciava veramente
a sudare freddo. L’armadietto conteneva alcune cartelle mediche di soggetti il
cui nome era cifrato, un mazzo di chiavi e una tessera magnetica. Si soffermò su
quest’ultima: apriva l’area denominata “Sezione Rossa”.
Lo psichiatra decise di seguire il suo istinto, afferrò la scheda, il mazzo di
chiavi e le cartelle; spense la torcia e uscì frettolosamente dal laboratorio,
diretto al piano inferiore. La mano sudava sulla pistola, ma la presa rimaneva
salda. Lo sguardo vigile ispezionava accuratamente il corridoio e la tromba
delle scale in cemento. Deserto. Era troppo strano: possibile che non ci fosse
nessuno?! Possibile che per il suo nuovo progetto Raines non avesse predisposto
un minimo di sicurezza maggiore?!
Sgattaiolò velocemente giù per le scale, per quanto poté, introdusse la tessera
magnetica nel quadro e infilò una delle chiavi nella toppa. Inaspettatamente la
porta si aprì con uno scatto e la luce lampeggiante sopra la sua testa divenne
rossa.
Entrò col cuore in gola in un ambiente illuminato solo da una luce violacea al
neon che percorreva le pareti; l’aria era pregna dell’odore insopportabile di
disinfettante. Posò i suoi incartamenti sul banco accanto al microscopio e si
soffermò ad osservare alcuni campioni congelati contenuti in una vetrinetta
refrigerata: sul bordo di ogni contenitore era riportata la stessa sequenza di
cifre che aveva letto poco prima nelle cartelle mediche. Le confrontò; aveva
ragione!
“Ma non c’è modo di sapere a chi appartengono?” si chiese. Esaminò alcuni
tessuti al microscopio e non rimase affatto sorpreso dallo scoprire che erano
cellule umane, e per di più cellule riproduttive, femminili per due campioni,
maschili, per i restanti. In un altro scomparto erano invece raggruppati altri
tessuti, stavolta embrioni, cellule uovo fecondate, congelate, e catalogate in
base agli accoppiamenti.
Sydney alzò il viso dal microscopio con aria schifata. Cosa ne avrebbe fatto
Raines di quegli embrioni umani? Altri esperimenti? Erano forse nuovi tentativi
di clonazione? Incroci genetici azzardati, sicuramente amorali?
Gli tornò alla mente l’ipotesi che aveva espresso poco prima: il patrimonio
genetico dei Parker sommato a quello di un simulatore come Jarod…
Gli ci volle qualche istante per realizzare: i campioni di sei simulatori, tre
potenziali e con un cognome interessante, e tre attivi, erano stati prelevati
anni prima, congelati, e in seguito combinati per creare embrioni da impiantare
a tempo debito in uteri umani. Le due donatrici involontarie dovevano essere
senz’altro Miss Parker e Brigitte, due Parker, mentre i donatori maschili non
potevano che essere Jarod, Angelo, Kyle, … e Lyle.
Sydney si contorse le mani al pensiero che Raines potesse aver fecondato un
ovulo di Miss Parker col seme del suo stesso fratello gemello. Inorridì per la
meschinità e l’amoralità di quel viscido essere strisciante; sentiva le gambe
pesanti e la testa cominciò a girargli. Faceva troppo caldo là sotto, sentì
l’impellente bisogno di uscire, di respirare un po’ d’aria fresca. Si allentò il
nodo della cravatta e si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello dietro di sé,
passandosi una mano sulla fronte e massaggiandosi le tempie e gli occhi, quasi a
voler scacciare quelle immagini dalla sua mente, come se volesse smettere di
vedere. Stavolta aveva visto anche troppo e non sarebbe bastato fingere che
nulla fosse successo.
A Raines non era bastato un Jarod, ne aveva voluto una copia, e quando anche
quella gli era sfuggita tra le dita aveva tentato di nuovo di porre nelle sue
grinfie un progetto ancora più ambizioso: perfezionamento della mente superiore.
Se la personalità di Jarod era riuscita a sopravvivere nonostante i suoi sforzi
anche in Gemini, stavolta il “suo” simulatore sarebbe stato perfetto.
Un brivido di riprovazione lo percorse nello stesso istante in cui il sospetto
che il progetto di Raines fosse già stato avviato gli attraversò la mente:
Brigitte.
Si stirò lentamente, ancora con gli occhi chiusi, si inumidì le labbra e
sbadigliò. Si rigirò nel letto, sentendo freddo. Cercò con la mano il calore di
un corpo steso accanto al suo, ma non lo trovò; aprì faticosamente gli occhi,
sbattendo le palpebre più volte per abituarsi al buio. La stanza era in
penombra, le persiane erano ancora chiuse, ma il mattino era già arrivato; aveva
dormito tranquillamente, come non gli capitava da parecchio tempo. Si guardò
intorno in cerca di qualcosa di familiare. Le coperte erano rovesciate
dall’altro lato del letto, Jarod si strinse nelle spalle rabbrividendo.
«Miss Parker…» chiamò sottovoce. Un singulto gli rispose dalla porta socchiusa
del bagno. Un singhiozzo strozzato. Jarod si alzò a fatica, infastidito dal
dolore per le ferite non ancora cicatrizzate e dal freddo inaspettato che aveva
provato al suo risveglio. Raggiunse la porta del bagno con passo stanco,
trascinando i piedi sul pavimento di legno.
«Posso entrare?» chiese spingendo appena la porta. Miss Parker era seduta per
terra accanto al gabinetto, con le braccia strette attorno alle ginocchia
premute sul petto. Singhiozzava sommessamente, cercando di reprimere le proprie
lacrime. Alzò il viso bagnato di pianto sull’uomo e gemette.
«… Miss Parker… che cosa succede?» chiese allarmato Jarod chinandosi su di lei
protettivo.
«Io… sto male.» disse con un filo di voce.
«Che cos’hai?» Jarod le prese il viso tra le mani asciugandole le lacrime. Era
pallida, tremante, non aveva la forza necessaria per spiegarsi a parole, si
limitò a gettare lo sguardo all’interno della tazza. Jarod seguì i suoi occhi:
l’acqua era rossa di sangue.
«Ho vomitato sangue. - disse singhiozzando - Jarod… fa male…» gemette
stringendosi le mani sullo stomaco, rossa di rabbia. Si sentiva ferita nello
spirito più che nel corpo.
«Se sei arrivata a questo punto dovevi stare male da un po’, perché non me l’hai
detto?!» la rimproverò. Il suo tono era duro, ma non voleva farla sentire in
colpa e la invitò in un abbraccio protettivo al quale lei si abbandonò. Jarod la
prese in braccio e la sollevò dal pavimento mugugnando per il dolore ai muscoli
e alla pelle livida, la posò sul letto e provò ad accertarsi delle sue
condizioni, ma il dolore di Miss Parker era troppo forte, tanto che non poté
trattenersi e gridò, mentre due grossi lacrimoni le solcavano le gote
involontariamente.
«Rilassati Parker, - disse sottovoce - ora ti porto all’ospedale.»
Miss Parker si asciugò le lacrime col dorso della mano e strinse le labbra: «No,
sono stanca degli ospedali. Io i dottori li odio!» si sforzò di gridare, ma le
parole le si strozzarono in gola e uno spasmo le contrasse lo stomaco, facendola
piegare su se stessa.
Jarod le scostò i capelli dalla faccia e le massaggiò l’addome con l’altra mano,
tentando di alleviare il suo dolore, senza troppo successo. Con movimenti lenti
e grevi prese il telefono e compose il numero, sotto lo sguardo supplicante e
lucido di lei: «Jarod… ti prego, non ce la faccio. - bisbigliò - Non ce la
faccio a restare ferma in un letto d’ospedale, non voglio più…» Il dolore la
costrinse a stringere i denti e prese a respirare a fatica.
Jarod posò la cornetta nonostante una voce maschile gli avesse già risposto
all’altro capo del telefono. Si sedette accanto a lei sul letto e tentò di
visitarla di nuovo.
«Parker, potrebbe essere una cosa seria stavolta, sarebbe più prudente che ti
portassi in ospedale per un controllo, e se poi ti senti meglio ti riporto a
casa in serata, promesso.» le disse sperando di essere convincente.
«Non ho bisogno di andare in ospedale… - riprese fiato un poco - Non avrò
bisogno di andare in ospedale… se tu… starai con me.»
Jarod le sorrise disarmato: era proprio una bambina capricciosa, ma decise di
dargliela vinta; si alzò con qualche sforzo e le diede una pacca gentile sulla
fronte: «Vado a cercare una farmacia, ti serviranno degli antiacidi, e
probabilmente un sedativo.»
«Sedativo…?!» chiese Miss Parker prima che lui varcasse la soglia della camera.
«Nel frattempo cerca di rilassarti, lo stress di questi giorni non ti ha fatto
per niente bene.»
Miss Parker rimase rannicchiata in un canto del letto, gli occhi lucidi e le
mani sull’addome dolente. Rimase a fissarlo mesta mentre le voltava le spalle.
Sussultò per un nuovo spasmo; o forse per la vista delle ferite che si stavano
cicatrizzando faticosamente sulla sua schiena.
«Jarod, - lo richiamò; lui si voltò. - Perché… perché sei così buono con me?»
Jarod aggrottò le sopracciglia con aria ingenua e stupita: «Che cosa intendi?»
Miss Parker strinse le labbra e sbatté gli occhi, cercando le parole adatte
prima di riprendere: «Io ti ho dato la caccia come a un animale per anni, ho
tentato di riportarti al Centro, ti ho tenuto lontano dalla tua famiglia, ti ho
fatto soffrire, … perché adesso ti prendi cura di me?»
«Perché tu lo fai. - rispose candidamente - E perché sei sempre stata l’unica
vera amica che io abbia mai avuto quando tutto nella mia vita era una bugia. -
aggiunse. Miss Parker socchiuse le labbra. Jarod le sorrise e continuò: - Sei
stata l’unica a capire quello di cui avevo bisogno, l’unica che abbia saputo
darmi quel minimo di affetto che al Centro…» non finì la frase. Abbassò lo
sguardo e si voltò nuovamente in direzione della porta, conservando nella
memoria le immagini di Miss Parker ragazzina che scendeva gli scalini di ferro
nel laboratorio per simulazioni e si avvicinava a lui sorridendo, lasciando
ondeggiare la gonna sopra il ginocchio.
Dagli occhi chiusi di Miss Parker scese una lacrima, ma lui non poteva vederla.
Si vestì velocemente nell’anticamera e uscì non curandosi di abbottonare il
cappotto, pensando al giorno prima, quando lui era ancora il malato e Miss
Parker l’infermiera.
Sydney non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che aveva per le mani:
una squadra di spazzini sopraggiunse con le armi in pugno e gli intimò di
lasciar cadere sul tavolo gli incartamenti che stava leggendo.
Erano cinque, e puntavano ognuno la propria pistola su di lui, e Sydney sapeva
che non avrebbero esitato a fare fuoco. L’unica via di fuga era bloccata,
impossibile scappare.
«Glielo ripeto per l’ultima volta, Sydney, lasci quei documenti!» gridò uno di
loro. Aveva il filo di un auricolare penzolante da un orecchio e la radio appesa
alla cintola.
Lo psichiatra gettò le cartelle mediche a terra e alzò le mani sopra la testa.
L’uomo in nero si avvicinò con cautela e si chinò a raccogliere i fascicoli
mentre gli altri quattro tendevano la loro arma su Sydney.
Fu solo un istante, lo spazzino non ebbe nemmeno il tempo di respirare, Sydney
lo aveva afferrato per la gola e ora lo teneva davanti a sé come uno scudo. Si
meravigliò lui stesso del suo gesto, ma non aveva molto tempo per pensare,
doveva solo agire, uscire da lì, raggiungere la baita a White Cloud, parlare a
Jarod e Miss Parker… sempre che fossero ancora vivi.
Quest’ipotesi lo rese ancor più determinato nel suo intento, e mentre gli
spazzini di fronte a lui con le armi tese si agitavano increduli e indecisi se
sparare al compagno o assecondare il fuggiasco, Sydney prese la via delle scale
trascinandosi dietro un ostaggio, e lasciò Donoterase con le cartelle mediche
dei sei potenziali genitori del bambino che stava crescendo in Brigitte.
Pochi chilometri dopo aver imboccato l’autostrada, il fuggitivo scaricò il suo
ostaggio dall’auto in corsa, nello stesso istante in cui il laboratorio di
Raines sotterrato nei campi del Delaware andava distrutto da un incendio che lui
stesso aveva appiccato. Era solo dispiaciuto di non aver potuto fronteggiare
Raines.
“Una tana di meno.” era stato il suo pensiero “Vediamo se riesco a distruggere
la tua bara, Nosferatu.”
Broots viaggiava a velocità sostenuta. Molto superiore a quanto avrebbe dovuto
essere il limite per il codice della strada, ma non poteva fare altrimenti, ne
andava della vita di Miss Parker. E di quella di Jarod. Ancora non sapeva che
cosa avrebbe fatto, ci avrebbe pensato in seguito, quando sarebbe arrivato a
quella maledettissima baita. Sbandò. Era troppo agitato, talmente agitato da non
riuscire a stringere il volante. Era un suicidio, se lo sentiva nella pelle, se
lo sentiva nelle viscere. Non ne sarebbe uscito vivo stavolta, ed era solo colpa
di quei pazzi per i quali lavorava, quei pazzi dai quali dipendeva la sua
sopravvivenza e la serenità della sua famiglia. Pensò alla sua bambina, com’era
piccola, com’era inesperta, se gliel’avessero sottratta… se le avessero fatto
del male per colpa sua… No, non sarebbe successo nulla, sarebbe andato tutto per
il meglio.
Nonostante tutto riusciva ancora a mantenere lucida la vista.
Faceva freddo all’esterno dell’abitacolo, ma la sua tensione era tale da
appannare i vetri senza bisogno del termosifone. Digrignò i denti nervosamente
tentando di comporre il numero senza distogliere gli occhi dalla strada fangosa.
Perché diamine non rispondeva?!
Che fosse oramai troppo tardi?! No, non voleva nemmeno pesare a
quell’eventualità, come avrebbe fatto lui… come avrebbe fatto senza Miss Parker
che gli copriva le spalle, senza l’unica persona, a parte Sydney, della quale
poteva fidarsi al Centro, che lo aveva sempre difeso, alla quale avrebbe
affidato la propria vita…
No, non poteva certamente tirarsi indietro. Soprattutto perché aveva portato con
sé la pistola. Non si sentiva affatto più rassicurato, solamente molto più
spaventato. Spaventato anche da sé stesso, da ciò che stava andando a fare. Non
voleva usarla davvero, però se non avesse avuto scelta… d’altronde era proprio a
quello che serviva: per difesa. E a volte la sola apparenza bastava. Non con gli
spazzini del Centro, però.
Il disco telefonico gli rispose nuovamente che l’utente non era raggiungibile.
Perse la pazienza e scaraventò il telefono contro la portiera del passeggero.
Stava sorpassando ogni limite di ragionevolezza, doveva controllarsi, ormai
mancavano solo poche miglia.
Era così assorto nei suoi pensieri, concentrato e teso all’inverosimile che
balzò sul sedile al primo squillo del telefono, andando a baciare il soffitto
con la testa nuda.
«Pronto?» rispose con voce insicura. Se fosse stato un impiegato del Centro?!
Che cosa gli avrebbe detto?! Come avrebbe giustificato la sua improvvisa
dipartita?!
«Broots!»
«Oh, mio dio, Sydney, che sollievo!» l’espressione contorta sul suo volto si
rilassò faticosamente dopo aver pronunciato quelle poche parole.
«Sei riuscito a parlare con Miss Parker?»
«No, il telefono ancora non prende, o è spento, non lo so, Syd, sto guidando
come un matto!»
«Broots, ascoltami bene: non tornare al Centro.»
«Cosa?! Che è successo, Syd? Va tutto bene?»
«Tranquillo, si sistemerà tutto, vedrai.» rispose con voce calma.
«Hai scoperto qualcosa a Donoterase?»
«Si, una coltura di potenziali simulatori.»
«Una che?!» fece il tecnico stropicciando gli occhi pronto a ricevere notizie
peggiori.
«Raines aveva avviato un progetto di fecondazioni in vitro che riguardano anche
Jarod e Miss Parker, per non parlare di Brigitte.»
«Brigitte partecipa agli esperimenti di Raines?»
«Molto più di questo; a dire il vero non ne sono completamente sicuro, ma credo
che il bambino di Brigitte possa essere la concretizzazione del progetto “il
simulatore perfetto”.» rispose con tono pungente.
«Che cosa hai intenzione di fare, ora?»
«Qualcosa farò. - disse fermamente - Broots… non tornare al Centro, mai più:
prendi la tua Debbie e va il più lontano possibile da quel posto.»
Quando Sydney aveva quel tono significava qualcosa di poco rassicurante, questo
Broots lo sapeva benissimo, ma non era proprio il momento di mettersi a
discutere: in lontananza vedeva già le auto del Centro parcheggiate scomposte
sul prato antistante la baita.
«Syd, sono arrivato, e ci sono due auto del Centro.»
Broots spense il motore qualche metro prima e scese, avvicinandosi alla casa di
corsa, tenendo il telefono premuto contro l’orecchio.
«Sembra tutto tranquillo.» bisbigliò.
«Guarda dentro, Broots, cosa vedi?» gli chiese lo psichiatra.
Broots sbirciò da una finestra. La porzione del soggiorno che si presentò ai
suoi occhi bastò per dargli un’idea precisa di ciò che era accaduto o stava
tuttora accadendo all’interno: i mobili erano rovesciati, le tende squarciate,
ovunque c’erano pezzi di vetro rotto, piume d’oca e sangue… tanto sangue,
schizzi, sulle pareti, sui pavimenti lignei, sui cocci. Una mano guantata, la
mano di uno spazzino, giaceva contorta sul pavimento, la pistola ancora in
pugno, il sangue rappreso, colloso, riverso sul parquet.
Broots inorridì, ritraendosi dietro la parete, tremante come un filo d’erba al
vento.
«Syd… Syd, è terribile… c’è sangue, mobili fracassati, vetri rotti, … sangue
dappertutto!» gridò in preda al panico, allontanandosi dalla casa, gesticolando
e incespicando nei suoi stessi piedi.
Sydney aveva chiuso gli occhi solo per un istante, il tempo di riprendere il
fiato necessario per pronunciare poche parole: «E Jarod? Miss Parker? Li vedi
Broots?»
Broots farfugliò qualcosa, incapace di articolare le parole, in preda al panico
cadde e il telefono rotolò tra le foglie secche.
«Broots… Broots! Rispondi! Maledizione! Li vedi?»
L’uomo riafferrò l’apparecchio e bisbigliò: «No, Syd, non li ho visti… che cosa
faccio?»
Sydney si lasciò sfuggire un sospiro agitato, confuso, preoccupato. Erano
arrivati troppo tardi.
«Va via di lì, Broots, vattene!» disse infine con rammarico. Non voleva mettere
ulteriormente in pericolo la vita del tecnico. Non inutilmente.
Broots non rimase a farselo ripetere. Corse sino alla sua auto senza voltarsi
indietro. Aveva già aperto la portiera quando un grido agghiacciante, disperato,
disumano, incomprensibile si levò dalle pareti della baita, rimbalzando su ogni
tronco d’albero, accarezzando le increspature dell’acqua, scivolando sull’erba
stizzita, sino a riecheggiare nella sua scatola cranica. Quel grido lo
pietrificò. Rimase come inebetito a fissare la casa con gli occhi spalancati e
le mani sudaticce strette attorno al telefono e alla pistola. L’urlo proveniva
dalla casa, ne era certo. Un urlo raggelante, straziante e straziato.
Rabbrividì: dunque qualcuno in mezzo a quella carneficina era ancora vivo?!
«Broots… Broots! - chiamava intanto lo psichiatra - Che cos’era?»
Non avrebbe saputo rispondere. Un brivido lo percorse da cima a fondo prima che
potesse di nuovo aprir bocca e far uscire qualcosa di sensato: «Sydney… c’è
qualcuno in quella casa!» disse richiudendo la portiera dell’auto e scivolando
titubante e vistosamente tremante dalla tensione nuovamente in direzione della
baita.
«È Jarod?» chiese speranzoso lo psichiatra.
«Non lo so.»
Non poté aggiungere altro: una raffica di spari esplose all’interno della casa;
dopo il quindicesimo smise di contarli e si andò a nascondere come uno
scarafaggio alla vista della luce dietro la carrozzeria di una delle berline
nere del Centro.
«Syd!» gridò.
«Va via, Broots!» ripeté lo psichiatra all’altro capo del telefono.
Il tecnico corse come una lepre tenendosi le mani a protezione della testa, si
infilò al posto di guida della sua auto e ripartì senza nemmeno curarsi di
riattaccare. Il cellulare gli era scivolato dalla mano e giaceva sull’erba
costellata da foglie dai colori autunnali, liberando al vento il suono nervoso e
irritante della linea occupata.
Quando vide le auto dai vetri oscurati che invadevano il prato un irritante
senso di disagio e paura gli artigliò lo stomaco. Fermò l’auto dietro la baita e
scese stringendo i pugni attorno al sacchetto di plastica che aveva in mano.
Senza far rumore raggiunse la porta sul retro; le labbra serrate, i nervi tesi.
La porta era leggermente scostata. La spinse con la punta delle dita e la lasciò
scivolare sui cardini finché si bloccò. Infilò una mano tra lo stipite e la
porta e lo sentì sotto i polpastrelli nello stesso istante in cui l’odore del
sangue gli punse le narici.
La porta era bloccata da un corpo morto, riverso sul pavimento, era scivolato
lungo la porta e aveva lasciato la traccia viscida sul legno.
Doveva essere successo da poco, il sangue non era ancora coagulato. Infilò un
piede tra lo stipite e la porta e fece pressione col corpo per spostare il
cadavere che ostacolava il passaggio. La aprì quel tanto che bastava per poter
scivolare all’interno, lo fece con molta attenzione, senza fare il minimo
rumore. Il soggiorno era a soqquadro, la mobilia era rovesciata, i divani
sventrati, come del resto i cadaveri dei tre spazzini che giacevano immobili sul
pavimento ingombro. Fori di pallottola avevano tappezzato le pareti di legno e i
frantumi di vetri e finestre erano, silenziosi, caduti sui cadaveri; tante
piccole scintille alla luce fioca del sole d’ottobre facevano di quella stanza
il regno dei cristalli. Se solo non fosse stato per tutto quel sangue, per le
piume e per il resto…
Deglutì e passò oltre con sforzo, il cuore in affanno. Improvvisamente si rese
conto di aver paura. Una paura terrificante. Una paura insormontabile. Sentiva
il suo cuore battere. Si chiese se qualcun altro lo potesse percepire. La paura
era attorno a lui e gli sussurrava all’orecchio, lo faceva sentire in colpa, lo
faceva tremare, lo faceva incespicare nei gradini mentre raggiungeva il piano
superiore, aspettando il momento per sopraffarlo, per distruggerlo e divorarlo.
E dopo?
Dopo sarebbe stato troppo tardi.
Ormai era in cima alle scale. Trasse un profondo respiro di incoraggiamento che
andò ad alimentare la sua ansia. Una mano armata era riflessa nello specchio,
posata a terra come uno straccio consumato, il resto del corpo coperto dal
pesante copriletto di piume che erano volate in aria a sotterrare il silenzio
tormentato della morte.
Il silenzio…
Tutto era silenzio. I vetri. Le piume. Il legno. Il vuoto.
Solo il suo cuore. Solo il suo cuore riempiva il suo vuoto di battiti che
scandivano come sussurri sempre più insistenti una nota di paura.
La paura…
Della morte. Della vita. Della morte nella vita.
L’immobilità era morte. Lui la conosceva la morte. Aveva già sperimentato, anche
troppe volte, che cosa significasse “perdere” qualcuno che si ama.
Entrò nella stanza da letto.
L’uomo in nero era disteso a pancia bassa accanto al letto, in diagonale, come
se nel cadere avesse tentato di girarsi e non vi fosse riuscito, come se avesse
tentato di fuggire… Fuggire…
Si guardò intorno con circospezione, agguantando con lo sguardo ogni dettaglio
della stanza, figurando davanti ai suoi occhi la scena che si era dovuta
svolgere meno di un’ora prima. Una colluttazione. Il coltello che penetrava
nelle lenzuola e lacerava con esse anche il materasso. Il volo delle piume.
Quattro spari. Una vita che si dissolveva.
Lei non c’era. Miss Parker non era sdraiata sotto le coperte come l’aveva
lasciata.
Il cuore cominciò a palpitare in apprensione, ogni istante crescente, ogni
attimo più intenso del precedente. Finché il suo sguardo si soffermò sulle
strisce di sangue tra le lenzuola. Erano quattro, come se qualcuno avesse
lasciato la traccia delle dita insanguinate prima di scivolare a terra.
Lasciò cadere senza neanche accorgersene il sacchetto di plastica che aveva
stretto tra le mani e si precipitò dalla parte opposta del letto.
Quando Jarod era ancora al Centro, quando era solo un ragazzino, Miss Parker
andava a trovarlo quasi tutti i giorni per riempire il vuoto della loro
solitudine. E lui aspettava sempre con impazienza di vederla comparire in cima
alle scale, e di sentire la voce di Sydney che con un sospiro annunciava la
sospensione della simulazione in corso. Ma era accaduto una volta che lui
l’aveva attesa invano. Per giorni non si era fatta viva. Non l’aveva più vista
nemmeno lungo il corridoio, parlare con suo padre, passeggiare nell’area
riservata agli esperimenti di botanica, tra le gardenie e le violette.
Cominciava a preoccuparsi. Aveva chiesto a Sydney, ma lui non gli aveva
risposto, anzi, si era adirato con lui e gli aveva ordinato in malo modo di
concludere la simulazione e di non pensare più a Miss Parker. Se ne era tornato
al suo posto avvilito e aveva incrociato le braccia: «Io non concludo nessuna
simulazione se prima nessuno mi dice che cosa è successo a Miss Parker!»
Così avevano dovuto accontentarlo. Mr Parker non era d’accordo, ma Sydney glielo
aveva detto lo stesso: lo aveva preso da parte e gli aveva rivelato che Miss
Parker era molto malata e che era tenuta in osservazione al sottolivello
quattordici nell’infermeria del Centro. Nessuno poteva entrare se non suo padre.
Quella notte Jarod era sgattaiolato fuori della sua camera e aveva raggiunto la
stanza di Miss Parker al sottolivello quattordici. Quando era entrato ed aveva
scostato il telo bianco… e l’aveva vista… aveva provato una strana sensazione:
la sua pelle era candida come il latte e i suoi occhi erano chiusi,
l’espressione rilassata, i capelli scuri abbandonati sul cuscino facevano
risaltare ancor di più il pallore del viso; se non fosse stato per il leggero
respiro e la mano stretta attorno al lenzuolo, avrebbe creduto che fosse morta.
Quell’immagine gli tornò agli occhi non appena la vide stesa sul parquet, gli
occhi chiusi, il viso reclinato da un lato, i capelli lunghi scompigliati le
cadevano sulla gota e ne nascondevano il pallore, la mano sinistra era accanto
al corpo, la destra era abbandonata in grembo.
Rimase a fissarla incapace di qualunque cosa per un interminabile istante.
Sembrava dormire profondamente…
Un sonno che sarebbe durato in eterno.
Sotto le dita affusolate si era formata una chiazza rossa che si era ormai
riversata sul pavimento ed era scivolata fin sotto il letto, a macchiare le
lenzuola rovesciate a terra.
Jarod si riscosse improvvisamente dai suoi pensieri e si inginocchiò accanto a
lei, carezzandole una guancia scostando i ciuffi neri che le coprivano il viso,
proprio come aveva fatto quella notte nel sottolivello quattordici; quella volta
Miss Parker si era svegliata, aveva aperto gli occhi e il suo viso si era
illuminato in un sorriso nel vederlo comparire accanto a sé.
Ma questa volta non si mosse.
«Miss Parker…» la chiamò con un filo di voce. Con la punta delle dita sfiorò la
sua gota, scendendo giù sino al collo, poi le prese la mano insanguinata tra le
sue e se la portò alle labbra mentre le lacrime gli pungevano gli occhi.
«Miss Parker…» sussurrò. Le dita si strinsero attorno al polso esile della donna
fino a lasciarle un livido, nel disperato tentativo di percepire un flebile,
forse ultimo, battito cardiaco che non venne mai.
Pianse. In silenzio, cercando di rianimarla, cercando di cogliere ogni apparente
movimento, senza volersi arrendere. Mai.
“Miss Parker…” Questa volta l’aveva persa veramente. Non era una delle false
verità del Centro, non era l’ennesima cattiveria di Lyle, non erano i farmaci
che gli somministrava Raines… Era la realtà. La nuova realtà che avrebbe dovuto
vivere. Che avrebbe dovuto accettare.
“Miss Parker…!”
I suoi occhi erano colmi di lacrime e non riusciva a vedere nulla, li tenne
chiusi, ma le lacrime continuarono a scorrere sul suo viso e a cadere su di lei,
come se potessero trasmetterle un po’ del dolore che provava e che era,
dopotutto, segno di vita.
“Miss Parker… non lasciarmi!”
Anche le sue mani ora erano insanguinate. Si sentì colpevole. Colpevole.
Colpevole. Come se avesse premuto il grilletto… Chi aveva premuto il grilletto?
Chi era stato a fare questo? Chi aveva osato fare questo alla sua Parker?…
“Non lasciarmi… Miss Parker!”
E che cosa mai avrebbe potuto fare adesso? Adesso che erano tutti morti. Nemmeno
questa soddisfazione gli era rimasta, nemmeno la vendetta l’avrebbe sollevato
dal peso della sua coscienza, ora che era rimasto solo. Che cosa avrebbe fatto?
Ora che non c’era più nemmeno lei…?
“Jarod…” La sua voce gli rimbombò nel cranio. Il tono perentorio di chi è a
caccia.
“Jarod…” L’aveva sentita veramente?! Era come quando sotto l’effetto delle
droghe di Raines lei gli era apparsa in una luce evanescente. La sua voce calda
e determinata.
“Jarod…” Il suo sorriso da bambina, gli occhi agghiaccianti della bellezza.
“Jarod…” Quel nome continuava a insinuarsi nella sua mente. Il suo nome. Un
sussurro, un fremito, un grido, una velata richiesta d’aiuto.
Perché la sua voce…? perché la sentiva nonostante… nonostante ormai…
Scoppiò in singhiozzi sommessi.
«Jarod…»
Jarod alzò il viso tremolante. Le ombre attorno a sé si confondevano come nella
nebbia, ma distinse ugualmente la figura che avanzava nella stanza, accompagnata
da un rauco cigolio.
«È ora di tornare a casa, Jarod.» sibilò la voce del male avanzando verso di
lui.
Non disse nulla. Non riusciva a parlare. Non riusciva a pensare. Non riusciva a
trovare la forza di alzarsi dal pavimento e fuggire.
Può darsi che non lo volesse. Fuggire… avrebbe voluto dire staccarsi da lei,
lasciarla sola ancora una volta… ammettere che Miss Parker non ci fosse più,
accettare la sua morte…
«No!» gridò a sé stesso. Chiuse gli occhi e scosse energicamente la testa, come
a voler scacciare quei pensieri orribili dalla sua mente.
«Non cercare di negarlo. Hai perso. Tu, lei, Sydney. Avete tutti perso. -
continuò - Una partita che non valeva la pena di essere portata a termine. Non
trovi? - chiese con un sorriso sadico sulle labbra indicando con un gesto della
mano l’intera stanza, soffermandosi poi sul cadavere di Miss Parker - Avreste
fatto meglio ad arrendervi subito. Io vi avevo avvertito, dopotutto.»
“Se te ne vai ora… ti pentirai di essere mai fuggito dal Centro!” Quelle parole
risuonarono nella sua memoria e come lame su di lui aprirono una ferita chiamata
rabbia.
«Tu… - gridò in preda alle emozioni - Tu, demonio! Come hai potuto…»
«Avreste dovuto prevederlo: era destino dopotutto… tale madre, tale figlia. - lo
interruppe - I latini dicevano: “si vis pacem, para bellum”» sentenziò estraendo
una pistola da sotto la giacca e puntandola su di lui con gesti che tradivano
calma e soddisfazione.
Il suo respiro si fece più intenso contro la rabbia che montava, si alzò in
piedi lentamente, in segno di sfida, seguito dal movimento della pistola che si
portò a livello del suo petto. Lo sdegno e la rabbia gli fecero dimenticare ogni
altro sentimento, la vendetta… la vendetta era ora l’unica azione possibile,
quando credeva di aver perso anche quella… Vendetta. Vendetta. Morte.
Non gli importava più nulla, non pensava più nulla. Il dolore e la rabbia erano
più forti di tutto quanto. La paura era solo di non riuscire a compiere un
omicidio.
Tanti anni prima, quando era stato sul punto di sparare al viscido essere che
ora gli stava di fronte con l’espressione soddisfatta del gatto che ha
finalmente catturato il topo, o quando era fuggito con Sydney e Broots dal
laboratorio tra i boschi, non ci era riuscito. Aveva preferito prestar fede ai
propri principi. Ora non ne aveva. L’unico scopo rimastogli era la vendetta. La
Morte avrebbe pareggiato i conti. Si avvicinò minaccioso con lo sguardo
focalizzato sul volto dell’avversario.
«Tu ora verrai con me.» stava dicendo Raines, ma Jarod non sentiva più una
parola. Non sentiva altro che la voce di un bambino cantare una ninnananna. Una
voce spaventata che gli diede la forza necessaria per bisbigliare la sua
sentenza: «Io non vado da nessuna parte con te. Tu hai rubato la mia vita, la
sua, quella di famiglie che volevano solo essere! - la sua voce si alzava di
tono parola dopo parola - Tu sei un mostro!» gridò alla fine, prima di afferrare
il polso dell’uomo sul cui volto il sorriso della serpe era sparito. Gli occhi
spalancati alla violenta reazione inaspettata. Credeva di averlo piegato, di
averlo distrutto, di averlo ricondotto all’essere l’unica cosa che poteva, una
cavia. Ma il dolore era andato ben oltre.
Il dolore gli aveva fatto superare il limite. La sopportazione impossibile e la
rabbia implacabile. La vendetta plausibile. La vendetta certa.
Raines sentì la stretta delle sue mani sul collo, come artigli sulla preda. Era
diventato una preda.
Guardò il suo viso contorto dalla rabbia, l’espressione di chi non ha più niente
da perdere perché ormai anche la ragione l’ha abbandonato. La pazzia sarebbe
stata allo stadio successivo. E per lui era la morte.
Cercò di divincolarsi, ma la stretta si intensificò ancora di più e il respiro
scomparve del tutto. Divenne insensibile.
Jarod non mollò la presa finché non lo vide diventare viola, le impronte sul
collo arrossato. Lo lasciò cadere a terra esanime. Il respiro affannoso.
Raines tossì e cercò di riprendersi, si alzò sui gomiti, ma rimase ancora
ansimante con lo sguardo fisso sulla canna della pistola puntata su di lui.
«Che cosa hai intenzione di fare… uccidermi?!» rantolò.
«Tu… sei già morto.» rispose. Le lacrime scendevano dai suoi occhi e lo spettro
di Raines era solo una figura pallida sotto i suoi piedi. Tremò.
“Miss Parker… mi dispiace tanto.”
Il dolore raggiunse il culmine, la rabbia anche. Il suo animo si liberò
finalmente in un grido incapace di ogni spiegazione, mentre premeva il grilletto
scaricando l’intero caricatore sul Demonio. Gli spari risuonarono nella foresta,
facendo fuggire in uno stormo schiamazzante e disorganizzato gli uccelli
appollaiati sui rami, le foglie plananti al suolo rabbrividirono, le acque del
lago si incresparono. E quando tutto fu silenzio Jarod pianse, continuando a
premere il grilletto, ancora ed ancora.
Finché con un ultimo, immane sforzo si lasciò cadere sul pavimento rosso accanto
a lei.
“Miss Parker… mi dispiace tanto, mi dispiace tanto…”
«Nooooo…!»
Sydney guardò atterrito l’uomo ai suoi piedi che si contorceva sul pavimento
stringendo i palmi delle proprie mani contro le tempie.
«Nooooo…! Nooooo…!» continuava a gridare scalciando e picchiando la testa contro
il marmo lucido del laboratorio per simulazioni.
«Che cosa diavolo gli prende?» tuonò Lyle entrando nella stanza e vedendo la
sagoma contorcersi sotto i riflettori puntati su di lei, come fosse epilettica,
… o pazza.
«Non lo so davvero.» rispose in tono tranquillo lo psichiatra, ma i suoi occhi
spalancati tradivano una certa apprensione nell’osservare l’agonia; il dolore
era chiaramente visibile sul volto seminascosto dell’uomo che cercava di
spremere fuori della sua testa chissà quale demone.
«Fallo smettere. - replicò Lyle insensibile - È l’unico che ci è rimasto, -
continuò - non vogliamo certo che diventi inutilizzabile. - disse guardando
Sydney negli occhi, e poi spostando lo sguardo sul simulatore: - Non mi è mai
piaciuto, anche se devo ammettere che ha un qualche utilizzo.» concluse. Si
voltò facendo scivolare le suole di cuoio delle sue scarpe nuove e schioccò le
dita per richiamare l’attenzione di uno degli spazzini che attendevano alla
porta. Questo si avvicinò rapidamente e gli rivelò qualcosa all’orecchio. Lyle
girò il capo verso lo psichiatra che stava ora tentando di stabilire un primo
contatto con l’agonizzante ai suoi piedi.
«Angelo…» chiamò con un tono molto basso, quasi che solo lui potesse sentire.
Angelo continuò a dimenarsi e a gridare, in preda ai suoi mostri, completamente
tagliato fuori dal mondo.
«Ti auguro buona fortuna con il pazzoide.» ironizzò Lyle con un sogghigno mal
celato; se ne andò seguito dallo spazzino, lasciando Sydney e Angelo da soli.
«Angelo, parla con me.» disse.
«Nooooo… no… no! - gridò mentre il suo viso si bagnava di pianto - Dolore…
Dolore!» gridò ancora più forte.
«Chi prova dolore, Angelo? Sei forse tu?» chiese lo psichiatra allungando una
mano sul suo viso per meglio cogliere la sua espressione.
«Nooooo… Dolore, solo Dolore!»
Sydney lesse il terrore nei suoi occhi azzurri, e tanta paura. Stava forse
parlando di Jarod? Era ancora vivo? Non aveva avuto più alcuna notizia dopo la
sparatoria che aveva costretto Broots a fuggire. Pensò a ciò che era riuscito a
sentire tramite il telefono, l’urlo, gli spari, e poi il silenzio. L’urlo… era
stato terrificante, nonostante lo avesse udito tramite il microfono del telefono
era riuscito a trasmettergli i brividi; la sofferenza, la disperazione, il
dolore… era come se quell’urlo lo avesse scosso improvvisamente nelle sue
certezze interiori che erano crollate, assieme alle sue speranze, come un
castello di carte; e non sapeva nemmeno chi aveva gridato e perché. Solo una
sensazione di inspiegabile inadeguatezza, di disordine e sconcertante paura, del
genere che fa rizzare i peli sul collo senza motivo apparente.
Le grida di Angelo lo fecero improvvisamente ritornare al presente: «Vendetta!
Vendetta! Vendetta! - strillava con gli occhi spiritati rivolti al soffitto, si
era alzato in piedi e ora agitava i pugni in aria gridando: - Vendetta!
Vendetta! Vendetta! … - poi improvvisamente si accasciò al suolo e si riprese il
capo tra le mani, piangendo sommessamente - Dolore…» sussurrò.
Sydney era rimasto impietrito a guardarlo senza muovere un muscolo. Non lo aveva
mai visto così. Il silenzio tombale che era penetrato tra le mura del
laboratorio lo fece sentire stranamente a disagio. Angelo si dondolò in
ginocchio, raggomitolato sotto i riflettori puntati su di lui. Sydney si
inginocchiò accanto a lui e lo sentì bisbigliare qualcosa senza però riuscire ad
afferrarne il senso, si fece più vicino e lo sentì mormorare: «Morte… Morte…
Morte… Morte… Morte…»
Rabbrividì sentendo la sua anima istantaneamente invasa da un opprimente senso
di claustrofobia. L’alito della Morte. L’inevitabilità del Destino.
«Angelo…» chiamò in un sussurro.
«Vendetta porta solo Dolore. Vendetta… Morte.» spiegò in un tono più normale
sempre dondolandosi.
«Chi vuole la vendetta, Angelo?»
Angelo fissò dritto davanti a sé il nulla di quella stanza. Prima di rispondere
dondolò ancora un poco, poi si fermò, chiuse gli occhi e chinò il capo sul
petto: «La Vendetta è già venuta, ma la Morte tornerà, la Morte tornerà perché è
l’unico rimedio per scacciare il Dolore!»
Sydney chiuse gli occhi a sua volta, lasciandosi scappare un sospiro sconsolato.
Che cosa stava cercando di dirgli, maledizione!?
«Sydney!»
Lo psichiatra si voltò di scatto, svegliato dai suoi pensieri dalla voce
perentoria di Lyle.
«Vorrei che venissi con me, per favore.» gli disse l’uomo massaggiandosi la mano
mutila e guardandolo dall’alto in basso dalla cima delle scale.
«Devo proprio venire ora?» replicò indicando con un gesto della mano che era
impegnato con Angelo.
«Adesso.» rispose Lyle con tono che non ammetteva repliche.
Sydney si alzò e raggiunse l’uomo senza un pollice che lo attendeva alla porta;
prima di uscire si voltò un istante verso il simulatore al centro della stanza
sotto il fascio di luce: le ombre sul suo viso provocate dai riflettori gli
davano un aspetto ancora più insano.
«Il Dolore va fermato! La Vendetta non è sufficiente! - gridò Angelo dal
pavimento - La Morte è l’unico rimedio!» furono le ultime parole che Sydney poté
udire prima di lasciare il laboratorio per simulazioni.
Sydney e Lyle vennero affiancati da una scorta di quattro spazzini non appena
raggiunsero il corridoio principale. Camminarono sino all’ascensore della Torre
e salirono tutti e sei. L’espressione di Sydney era impassibile, calma,
controllata come sempre, ma nel suo animo squillava un campanello d’allarme: la
scorta era per lui, era chiaro che sapevano che era stato lui ad appiccare
l’incendio che aveva distrutto Donoterase. Ora la Torre chiedeva di lui e forse
sarebbero andati in cerca anche di Broots. Segretamente sperò che fosse già
lontano con la sua Debbie.
Le porte dell’ascensore scivolarono a lato e Lyle fece strada attraverso l’ampio
atrio, sino alle due lastre di cristallo che costituivano l’accesso all’ufficio
di suo padre. Due spazzini della scorta aprirono le porte e introdussero Sydney
al cospetto della massima autorità.
«Benvenuto, Sydney.» lo accolse freddamente l’uomo dai baffi argentei da dietro
la scrivania.
Sydney si guardò alle spalle: Lyle era andato a sedersi su una delle poltroncine
ai lati della stanza, gli spazzini erano rimasti esclusi dalla conversazione
dalla chiusura delle porte.
«Sono felice che lei abbia accettato di unirsi a noi, - continuò il padre di
Miss Parker - perché sono convinto che abbia molte cose da spiegarci.»
«Lei e il suo amico Broots, che non siamo inspiegabilmente riusciti a
rintracciare…» aggiunse Lyle.
«Ad esempio?» azzardò corrugando la fronte ed incrociando le braccia davanti al
petto.
«Cominciamo dalla fine: meno di tre ore fa è scoppiato un incendio che ha
distrutto quasi interamente i laboratori di Donoterase rendendoli inservibili, e
che ha causato la morte di tre dei miei dipendenti; ci sono almeno due spazzini
pronti a giurare di averla vista lasciare il luogo dell’incendio.» Mr Parker si
lisciò i baffi con la punta delle dita, in attesa di risposta.
Sydney sbuffò senza alterare minimamente la sua espressione: «Vada avanti.»
«Questa mattina ho inviato quattro uomini allo chalet che possiedi al lago White
Cloud - si fermò per controllare la reazione, che non venne - e non ho più loro
notizie da ore, ormai.» concluse.
«È stata inviata una seconda squadra, - riprese Lyle - e se questa troverà Jarod
e mia sorella allo chalet… lei, Sydney, passerà un brutto quarto d’ora, se ne
rende conto, spero!?»
L’unico movimento dello psichiatra fu sbattere le palpebre, che provocò una
reazione di irritazione estrema nell’uomo che gli stava seduto di fronte, il
quale si alzò improvvisamente in piedi facendo scivolare la poltrona e
rovesciare diversi fogli a terra: «Ora basta! - gridò con rabbia, il volto che
si tingeva di rosso - Voglio sapere immediatamente che cosa è successo a quello
chalet!»
«Non le so davvero rispondere, - fece in tono più che normale Sydney - io non ne
so niente.»
«Non menta! - intervenne Lyle - Ha coperto Jarod per tutto il tempo che ha
passato là fuori, ha aiutato mia sorella a farlo fuggire, ha distrutto delle
proprietà del Centro, lei è un traditore! Vuole negarlo?!» sbraitò.
«Ho fatto quello che ritenevo più giusto.» rispose senza perdere la calma,
mantenendo lo sguardo sull’uomo più anziano.
«Lei non deve fare ciò che è giusto, deve solo eseguire gli ordini!»
«Altrimenti cosa?! … farò la fine di mio fratello?! o di Catherine Parker?!»
replicò perdendo un po’ del torpore che sembrava accompagnarlo.
Gli occhi di Mr Parker si infiammarono: «Lasci mia moglie fuori da questa
discussione.» sibilò.
«Il Centro viene prima di tutto.» incalzò il figlio.
«Il Centro…» ripeté Sydney sottovoce “… un luogo che distrugge la vita di
chiunque ne viene a contatto. Loro sono già morti e non lo sanno.” pensò senza
dare sfogo alla sua rabbia. Dopotutto, anche lui era senza speranza alcuna.
Il trillo del suo telefono ruppe inaspettatamente la tensione che si era creata
nella stanza. Gli occhi dei due Parker puntati su di lui mentre estraeva dalla
tasca il cellulare.
«Vogliate scusarmi un momento. - fece aprendo la comunicazione: - Sydney.»
«Io… - era la voce di Jarod, il volto dello psichiatra si illuminò
involontariamente - io… io non volevo che finisse così…» balbettò tra i
singhiozzi.
«Jarod, - sussurrò con un sospiro di sollievo - allora sei vivo!»
Gli altri due uomini nella stanza acuirono l’udito, ritti come antenne al suono
di quel nome pronunciato da Sydney.
«Io… non volevo… - ripeté Jarod - Non volevo che finisse così…»
«Jarod, ti senti bene?»
«Io vorrei solo che sapesse che ho tentato… - la voce tremò di nuovo - io ho
tentato… ma era troppo tardi.»
«Che cosa vuoi dire, Jarod, non ha alcun senso quello che dici.»
L’uomo all’altro capo del telefono si lasciò sfuggire una lacrima, che venne
seguita da una seconda, e in breve non riuscì più a smettere, singhiozzando e
pingendo riuscì solo a dire: «Non avrei dovuto lasciarla sola!»
Sydney era rimasto in silenzio per un intero minuto, Lyle cominciò a
spazientirsi: «Che cosa sta facendo, gli dica di arrendersi!»
Sydney non lo considerò: «Jarod…»
«Non avrei dovuto lasciarla, io le volevo bene! - gridò con la voce rotta dal
pianto, le lacrime inarrestabili - Io le voglio bene.» si corresse.
«Miss Parker…» mormorò Sydney sbiancando tutt’a un tratto.
Mr Parker spalancò gli occhi al nome della figlia osservando l’espressione
incolore dello psichiatra; che cosa era successo alla sua bambina? Che cosa le
avevano fatto?
«Sydney, voglio parlare con Jarod. - disse tendendo la mano per afferrare il
telefono ma senza arrivarci: - Jarod, mia figlia è con te?» la sua voce suonò
davvero preoccupata.
«Io non… non dovevo lasciarla. È colpa mia, Syd, io non dovevo lasciarla sola!»
gridò.
«Jarod, dimmi dove sei.» chiese lo psichiatra scansando la mano tesa di Mr
Parker.
«Non la lascerò più, Syd, … non la lascerò mai più.»
«Che cosa dici, Jarod, quello che dici non ha senso…»
«Io! … - gridò in preda alla disperazione - È solo colpa mia! Le volevo bene,
Syd, non avrei dovuto lasciarla sola, e ora che cosa faccio… senza di lei?!»
«Dimmi dove sei, Jarod, arrivo immediatamente.» disse lo psichiatra tentando di
calmarlo. Era chiaro che la situazione si stava delineando particolarmente
delicata, temette seriamente che la mente del suo protetto fosse priva di forze
per reagire.
«No! - gridò - Non la lascerò mai più, Syd, … non voglio… non voglio lasciarla.»
il suo grido si spense in un singulto sommesso.
«Jarod…»
«Le voglio bene, Syd, - proseguì con tono calmo - e ne voglio anche a te, per
questo ti ho telefonato.»
Sydney smise di respirare. Era davvero troppo tardi? Doveva tenerlo al telefono
il più possibile, doveva parlare con lui, impedirgli di abbandonarsi al dolore;
nella sua testa risuonarono le grida di Angelo: “Il Dolore va fermato! La
Vendetta non è sufficiente! … La Morte è l’unico rimedio!”
«Jarod, aspetta, …»
«Non ce l’ho fatta, Syd, mi dispiace, non sono stato abbastanza forte, non sono
stato all’altezza…»
«Quello che dici non ha senso, … »
«Ho perso! … - gridò - … Mi dispiace tanto… ti ho deluso… Vorrei solamente che
lei lo sapesse, vorrei che sapesse che ho tentato…»
Sydney era senza parole. Che cosa poteva aggiungere? Jarod era un uomo,
dopotutto. Nonostante la sua mente superiore era pur sempre una persona, con le
sue debolezze, e sentimenti reali, capace di gioire e di soffrire come chiunque
altro. E capace di impazzire dalla disperazione.
Nell’ufficio di Mr Parker era calato il silenzio, una tensione che nessuno si
azzardava a rompere, un equilibrio precario che nessuno avrebbe mai voluto si
distruggesse.
«Mi dispiace, Syd, - continuò la voce di Jarod - non mi è rimasto che dirti
addio.»
Sydney chiuse gli occhi al suono della comunicazione interrotta.
Gli altri due uomini nella stanza rimasero a fissarlo con gli occhi spalancati,
impietriti, incapaci di articolare una semplice frase perché le loro labbra
erano diventate tutt’a un tratto secche, la gola impastata e le mani umide
mentre il volto scoloriva.
«Sydney…» sussurrò Mr Parker cercando a tentoni la poltrona dietro di lui.
Gli occhi dello psichiatra si aprirono di scatto, le sue labbra si schiusero, ma
le parole non uscirono che dopo un interminabile istante: «È finita.»
«Mia figlia…?»
Sydney abbassò gli occhi.
«No… no, non è possibile…» bisbigliò Mr Parker lasciandosi cadere sulla poltrona
in pelle nera.
Lyle spostò lo sguardo da Sydney a suo padre e poi ancora a Sydney: «Ma le avrà
pur detto qualcosa! Dov’è adesso? Allo chalet?»
«È finita.» ripeté. I suoi occhi divennero lucidi sino al punto che dovette
sbattere le palpebre per poter vedere di nuovo. Lacrime uscirono dai suoi occhi
mentre stringeva ancora il telefono nel pugno. Era tutto finito. Non poteva fare
più nulla. Il Centro era andato troppo oltre, aveva spinto Jarod ad un limite
dal quale non sarebbe più tornato indietro. Il dolore e la rabbia avevano
annullato ogni altra sensazione.
Qualcuno bussò alla porta. Per Sydney fu come se gli avessero bucato il cranio
con un martello. Nessuno nella stanza si mosse, nemmeno quando entrò lo spazzino
con un incartamento da consegnare a Lyle.
«Il rapporto sulla missione, signore. - annunciò - Sono stati trovati
complessivamente cinque cadaveri allo chalet… tra i quali il corpo di Mr
Raines.» aggiunse titubante lo spazzino osservando l’espressione sconvolta dei
tre uomini e l’atmosfera che si era creata nell’ufficio.
“Ho perso! … Non sono stato abbastanza forte… non ce l’ho fatta!” ora capiva il
senso di quelle parole “Ti ho deluso…”
«No…» mormorò Sydney scuotendo la testa.
«Jarod… e mia sorella?» chiese Lyle.
«Non li abbiamo trovati, signore.»
«Continuate a cercare. - ordinò - Non può essere andato lontano… con un
cadavere.»
Lo spazzino venne allontanato da Lyle con un gesto della mano e i tre rimasero
soli nuovamente, ognuno perso nei propri pensieri.
«Non lo ritroverete mai più.» concluse Sydney sospirando.
La luce al neon oscillò per qualche istante ed ebbe la sensazione che le ombre
maligne che l’avvolgevano stessero per sopraffarlo una volta per tutte. Si
strinse nelle braccia, chiamando al petto le ginocchia. Aveva freddo. Un’altra
goccia cadde nella pozzanghera accanto a lui e il momentaneo rumore lo fece
rabbrividire.
Il cemento sotto i suoi piedi era umido, freddo, ruvido, distaccato. Da ore
ormai le sue sensazioni si erano affievolite. Non sentiva più nemmeno il pulsare
del sangue e il bruciore sulle sue nocche sanguinanti. Tutto era scomparso. Per
lo meno gli stimoli esterni, perché dentro di sé la battaglia era tutt’altro che
terminata. Se prima aveva dato sfogo alla sua frustrazione e alla immensa rabbia
che lo aveva dominato, ora era il turno dell’insensibilità.
Guardò senza realmente vedere ciò che lo circondava. Ombre immobili pronte a
balzargli addosso al primo segno di cedimento. La sua psiche lo stava tradendo.
Era stato lui. Aveva ridotto lui tutto quanto ad un ammasso di legna da ardere.
Lui aveva fracassato lo schermo del computer che ora mandava scariche elettriche
e scintille colorate al suolo. Non era riuscito a sopportare la vista di Miss
Parker ragazzina che correva con le lacrime agli occhi nell’ascensore per
soccorrere la madre, non era riuscito a sostenere il suo sguardo lucido e il suo
grido disperato mentre veniva portata a forza all’interno del laboratorio.
Lui aveva distrutto le tre sedie scaraventandole una dopo l’altra contro il muro
assieme al vaso, alle foto incorniciate della sua famiglia e a tutto ciò su cui
aveva messo le mani. Si era sfogato a sufficienza, aveva pianto e gridato ed era
impazzito dal dolore sino a perdere ogni forza. Sino a perdere coscienza.
Si era risvegliato in un bagno di sudore, sudore freddo, il respiro affannoso, i
muscoli doloranti e la testa in confusione. Si era ritrovato disteso sul cemento
umido, solo. Il suo primo pensiero… non lo ricordava. Forse non ne aveva più
avuto uno concreto da quando l’aveva vista. Era così bella, distesa a due passi
da lui.
Non si era accorto nemmeno delle lacrime che scendevano dai suoi occhi. Non si
era accorto del freddo, dell’umido, della fame, del sonno.
Non c’era più nulla di importante a quel mondo, nulla che valesse lo sforzo di
liberare la mente dal demone che la stava, lentamente, ma inesorabilmente,
uccidendo. Sentiva la testa pesante, le braccia erano come macigni e faceva un
immane sforzo a mantenere lucida la vista. Sbatté le palpebre.
Anche chiedersi come era arrivato in quel posto, o cosa glielo avesse suggerito
richiedeva troppa fatica.
Chiuse infine le palpebre, perdendo anche quella battaglia.
«Perché tutte le persone che amo devono soffrire?» mormorò al silenzio attorno a
lui, il capo abbandonato sulle ginocchia.
La sua domanda non ebbe mai una risposta. Continuò a piangere per ore, senza
riuscire a smettere, senza riuscire a pensare.
Finché, finalmente, percepì il freddo metallo sotto i polpastrelli. Era pesante,
molto più di quanto ricordasse, ma non gli importava; la superficie rugosa
dell’impugnatura gli trasmise un fremito quando la sua unghia la sfiorò e
rabbrividì quando strinse il pugno attorno ad essa. Strinse talmente forte da
farsi male, solo per provare a sé stesso che era ancora in grado di sentire
qualcosa, che era ancora vivo. Il che lo fece intristire maggiormente.
Si alzò in piedi, meravigliandosi di poterlo fare e, barcollando, raggiunse Miss
Parker. Si lasciò cadere accanto a lei, e posò l’arma a terra. Quando sfiorò la
sua pelle candida immagini di lei gli attraversarono la mente come lampi di luce
in una notte nera, e ricordi sbiaditi e sensazioni mai dimenticate tornarono
reali. Il rumore dei suoi passi, inconfondibile per lui, Miss Parker aveva un
ritmo a sé; il profumo di cocco nei suoi capelli; il suo sorriso disarmante; il
calore e la morbidezza delle sue labbra che sfioravano le sue; la profondità del
suo sguardo; la grazia dei suoi movimenti anche quando gli puntava una pistola
contro…
Chi avrebbe detto che era tutto perduto vedendola così?! Era così bella, così
bella…
Le sfiorò la fronte e un ciuffo di capelli cadde a lato del suo viso. No, non
l’avrebbe lasciata. Non l’avrebbe lasciata mai più. Come poteva… come poteva
pensare, o anche solo immaginare di non poter più sentire la sua voce, anche se
solamente per telefono, avvertire la sua presenza per quello strano fenomeno che
gli procurava la pelle d’oca, come poteva…?!
Sentì le lacrime salirgli agli occhi di nuovo. La sua mano scivolò sul suo
collo, e l’altra dietro le ginocchia, la abbracciò e la sollevò delicatamente da
terra, con tutta la dolcezza della quale era capace e la tenne stretta tra le
braccia cullandola come fosse una bambina.
Poi si distese sul cemento e l’adagiò accanto a sé, tenendola stretta, il capo
reclinato sul suo cuore, l’unico che ancora batteva. Le carezzò i capelli,
profumavano di cocco…
La Morte era stata gentile, per quanto avrebbe potuto esserlo, tutto di lei era
rimasto inalterato… se si tralasciava il buco nel cuore e il sangue… Grazia e
Bellezza non l’avevano abbandonata. I suoi occhi però erano chiusi per sempre.
Ricordò quella notte passata con lei sotto le stelle, quando l’aveva coccolata
mentre tra le lacrime gli aveva confidato che sarebbe dovuta andar via, quando
lei gli aveva preso le mani tra le sue e gli aveva dato un timido, sfuggevole
bacio sulle labbra.
Le prese la mano nella sua e la baciò teneramente prima di lasciarla scivolare.
Dopo quel bacio ne era venuto un altro, meno innocente del primo, e poi un
altro, e un altro ancora, finché le sue mani si erano ritrovate a carezzare ciò
che non avrebbero mai osato. Lei lo voleva, e anche lui, ma… Miss Parker
piangeva: «Non è giusto… - aveva sussurrato tra i singhiozzi - Non posso… mi
dispiace…»
Jarod le aveva asciugato le lacrime con una carezza e l’aveva stretta tra le
braccia, proprio come faceva ora.
«Vorrei restare così per sempre…» gli aveva detto.
Le lacrime corsero inarrestabili mentre sollevava da terra la pistola. Guardò il
suo viso un’ultima volta, per imprimersi indelebilmente quell’immagine nella
memoria, per custodirla per sempre con sé. Le diede un ultimo bacio sulla
fronte. Un addio. No, meglio… un arrivederci.
“Vorrei restare così per sempre…”
Armò la pistola e sparò.
«La Morte è l’unico rimedio. - bisbigliò Angelo cullandosi tra le lenzuola
nell’oscurità della sua camera - Il Dolore… è finalmente scomparso… Il Dolore… è
solo per chi resta.» disse in un soffio mentre dai suoi occhi scivolava una
lacrima.
Epilogo
Infilò il dsa nel lettore e voltò lo schermo così che anche l’uomo dalla parte
opposta della scrivania potesse vedere quelle immagini. Sul lato sinistro dello
schermo, la data e la didascalia “Jarod, for Centre use only”.
«Nooooo! Lasciatemi! Lasciatemi ho detto!» gridò un ragazzino dai capelli scuri
dimenandosi, cercando di liberarsi dalla stretta dei due spazzini che lo stavano
trascinando di peso lungo il corridoio.
«Vi ho detto di lasciarmi! - gridò di nuovo inutilmente - Ed!» chiamò.
Raggiunsero la stanza che gli era stata assegnata e uno dei due lasciò la presa
momentaneamente per aprire la porta. Il ragazzo si divincolò e corse in
direzione dell’ascensore gridando: «Ed! Ed!»
Gli spazzini lo rincorsero e lo afferrarono per le braccia mentre lui ancora
cercava di guadagnare la salvezza scalciando e mordendo i due uomini in nero. Lo
gettarono all’interno della cella e richiusero alle sue spalle la porta con un
tonfo, e uno scricchiolio annunciò lo scatto della serratura.
«Ed! perché mi fai questo?» le urla provenienti dalla cella non cessarono,
neanche quando i due spazzini uscirono dall’inquadratura della telecamera.
Singhiozzi sommessi seguirono. Un pianto sconsolato, non il pianto di un
bambino. Le sue mani si affacciarono alla porta della cella stringendo le
sbarre.
«Voglio… voglio parlare con Ed! - gridò tra i singhiozzi - Perché…? - le sue
nocche divennero bianche per la presa sulle sbarre - Chi diavolo sono io? … Ed
rispondimi! Chi sono io?» lo sconforto prese il sopravvento e il pianto e la
stanchezza lo fecero scivolare lungo la parete sino a che si rannicchiò in
posizione fetale in un angolo della cella, le mani a coprire il viso affondato
tra le ginocchia. Il suo intero corpo tremava di disperazione e rabbia.
Il dsa era finito, e l’uomo senza un pollice allungò la sua mano guantata sulla
valigetta per chiuderla violentemente.
«Soddisfatto?» chiese con aria arrogante.
L’uomo di fronte a lui sollevò lo sguardo dalla valigetta argentea per posarlo
su Lyle.
«Che cosa ha fatto per meritare quel trattamento?» chiese corrugando le
sopracciglia.
Lyle ritrasse la mano e prese a massaggiarla: «Questa notte è fuggito dalla sua
cella e ha forzato la porta dell’archivio al sottolivello sette. I miei uomini
lo hanno sorpreso mentre tentava di rubare alcuni dischi.»
Edward incrociò le braccia al petto rivedendo davanti agli occhi la scena alla
quale aveva appena assistito, al pianto isterico, alle grida sofferte del
ragazzo.
«Perché non posso vederlo?» chiese.
Lyle sorrise gesticolando: «Ma non l’hai visto?! Era incontrollabile,
assolutamente fuori di sé»
«Perché non mi è stato permesso di vederlo? Io avrei potuto calmarlo!» esclamò
lo psichiatra alzando la voce.
«Non è il momento per discutere, Edward, - tagliò corto Lyle - ora credo che tu
abbia cose molto più importanti alle quali pensare, tipo la prossima simulazione
del ragazzo: dovrà essere conclusa per venerdì, i nostri acquirenti si aspettano
molto, quindi… vedi di far in modo che questo piccolo incidente non interferisca
con il lavoro del ragazzo.»
Edward rimase in silenzio. Sapeva che ribattere o polemizzare non sarebbe
servito a nulla se non ad innervosire ancor di più Mr Lyle, e dio solo sapeva
che cosa significasse vedere Lyle realmente arrabbiato. Uscì dall’ufficio della
Torre a grandi passi regolari e prese l’ascensore sino al sottolivello sette.
Entrò nel laboratorio per simulazioni ancora poco illuminato e lo attraversò,
percorse il lungo corridoio e fece cenno ai due spazzini che stavano di guardia
alla porta di farlo accedere alla cella di Jarod. Le porte si aprirono ed Edward
venne ammesso all’interno; era buio, la stanza non aveva finestre.
«Jarod?» chiamò lo psichiatra.
«Ed… sei tu?»
L’uomo sorrise nell’oscurità, ancora cercando la fonte della voce che gli aveva
risposto, ma l’eco che era presente nella stanza glielo impedì.
«Credevo che non saresti più venuto…» continuò la voce.
«Volevi vedermi?»
Jarod non rispose. Il silenzio cominciò a diventare imbarazzante. Per un istante
pensò addirittura di essere rimasto solo nella stanza, fino a che non sentì
qualcosa sfiorargli la gamba del pantalone.
«Jarod…»
«Si?»
«Che cosa ti è saltato in mente stanotte?!» lo rimproverò.
«Io… ho bisogno di sapere chi sono, Ed, … e l’unico modo è cercare
nell’archivio.» tentò di giustificarsi.
Edward sospirò posando le mani sui fianchi scostando la giacca del completo: «Tu
non hai bisogno di sapere chi sei! … Tu sei Jarod.» gli rispose con naturalezza.
Lo sentì muoversi alla sua destra. Attese che fosse lui a parlare, ma il ragazzo
non disse niente.
«Che ne dici di accendere la luce?!» propose.
La stanza si illuminò tutt’a un tratto, lasciandolo abbagliato per un istante
interminabile. Quando tornò a focalizzare lo vide: era seduto per terra, la
schiena al muro, le gambe incrociate e gli occhi rivolti al pavimento.
«Che cosa c’è che non va, Jarod? Sei pronto per la prossima simulazione?»
Il ragazzino sollevò il suo glaciale sguardo sullo psichiatra. Non aveva più di
quattordici anni, ma il suo sguardo avrebbe fatto abbassare gli occhi a molti
adulti. Si alzò in piedi svogliatamente e prese il libro che stava sul suo
letto, lo rigirò tra le mani e lo porse all’uomo.
«Non è il mio nome che ho bisogno di sapere. - disse - Un nome non è nulla, in
fondo… io potrei chiamarmi in mille modi diversi, ma sarei sempre io, … non
credi?»
«“Quella che chiamiamo rosa, con un altro nome non profumerebbe forse
ugualmente?!”» gli fece eco Edward.
Jarod sorrise: «Shakespeare.»
«Ti senti Romeo?» gli chiese.
«No, - rispose - … mi sento molto più Amleto.»
«Smetti di torturarti, ti ho già detto tutto ciò che so sulla tua famiglia, ti
ho fatto avere la foto dei tuoi genitori, ti prego, ora basta! - lo rimproverò,
ma il suo tono era quasi compassionevole - Devi finire la simulazione entro
venerdì, sono ordini di Mr Lyle.» concluse.
Jarod strinse le labbra mentre due grosse lacrime gli invadevano gli occhi.
«Jarod…?»
«Non è vero… - bisbigliò - Loro non sono i miei genitori!»
Edward rimase perplesso mentre il ragazzo dagli occhi di ghiaccio faceva
scivolare fuori da sotto il cuscino un dsa: «Loro… loro sono i miei genitori. -
disse combattendo per trattenere le lacrime con lo sguardo rivolto al dischetto
digitale. - L’ho trovato stanotte, nell’archivio, - disse - e ho trovato anche
dei documenti… Ed, quelli non sono mio padre e mia madre! Perché mi hai
mentito?» gridò puntando l’indice alla fotografia incorniciata sul suo comodino.
«Che cosa dici, Jarod…» iniziò lo psichiatra.
«No! - gridò ancora più forte - Sono stanco delle bugie! Dimmi perché?» Pianse
stringendo tra le dita il dsa.
Edward sollevò la fotografia di una donna esile con un caschetto biondo che
succhiava un lecca-lecca abbracciata ad un uomo di mezza età dai baffi bianchi e
dagli occhi azzurri. Li studiò e poi portò la sua attenzione sul ragazzo che
singhiozzava davanti a lui stringendo il suo tesoro tra le mani.
«Tua madre si chiamava Brigitte Parker, - disse - ed è morta dandoti alla luce;
tuo padre… dopo la tua nascita non si è saputo più niente di Mr Parker, è
scomparso senza lasciare traccia.» concluse.
Jarod tirò su col naso: «La conosco la tua storia, ma ormai non mi incanta più!
Io voglio solo la verità! - gridò. I suoi occhi ora erano furiosi, taglienti. -
Ho trovato dei documenti su Brigitte Parker nell’archivio: il suo gruppo
sanguigno era zero positivo, il mio è AB negativo, - proseguì con tono risoluto
- AB negativo si forma da A+B, o da due gruppi AB identici, non c’è zero
nell’equazione! - Edward lo ascoltava in silenzio - Quella donna non può essere
mia madre!» concluse.
«Dove vuoi arrivare, Jarod? Pensi che Mr Lyle ti permetterà di continuare nella
tua personale ricerca delle radici ancora a lungo? Se sapesse che ti ho fatto
avere questa foto, io…»
«Ed… - lo interruppe - io voglio sapere chi sono, … ho bisogno di saperlo!»
«E credi che io abbia le risposte?!»
Il ragazzino abbassò lo sguardo. Il dsa stretto nel suo pugno. «Forse tu no, ma
io le troverò, … anzi, le ho già trovate.» sentenziò aprendo la mano e
mostrandogli il dsa, la data era l’aprile del 1970.
«Jarod, che cosa cerchi di dimostrare?»
«Guarda il filmato, Ed.» tagliò corto il ragazzo.
Edward si sedette alla scrivania accostata alla parete e attese che lo schermo
in bianco e nero del lettore dsa si accendesse, infilò il dischetto nel lettore
con un sospiro e l’immagine del laboratorio per simulazioni apparve come era nel
1970, la didascalia a sinistra dello schermo era: “Jarod, for Centre use only”.
«Vuoi assaggiare?» mormorò una voce di bambino dall’interno di uno dei condotti
di aerazione. Una scatola di caramelle scivolò fuori dal condotto, ai piedi di
una ragazzina dai capelli neri, i cui occhi azzurri malinconici fissavano ora la
scatola colorata con disappunto. La raccolse e se la pose in grembo, i suoi
gesti armoniosi seguiti dallo sguardo compassionevole di un terzo ragazzino del
tutto somigliante a Jarod seduto accanto a lei.
Edward gettò un’occhiata al ragazzo che osservava le sue reazioni alle sue
spalle, poi tornò a prestare attenzione al filmato. Era molto somigliante,
sembrava davvero Jarod. Eppure c’era qualcosa di diverso, nell’atteggiamento,
nella postura, nell’espressione… qualcosa che non riusciva a cogliere
perfettamente, ma che era evidente. E poi ovviamente c’erano gli occhi.
«Figlia triste…» mormorò di nuovo la voce di bambino dall’interno del condotto.
La ragazzina si alzò in piedi stringendo tra le mani la scatola di cartone,
senza poterne staccare lo sguardo.
«Ti manca tua madre, non è vero?» le chiese Jarod.
Lei strinse le labbra: «Mi portava sempre questi dolci. Adesso ho solo il mio
papà, ma lui lavora sempre. - il suo tono era sommesso, soffocato - La mia mamma
e io parlavamo di tante cose, - continuò - lei mi pettinava o… leggevamo
insieme,» la sua voce nostalgica, il suo viso si cullava nei ricordi; fece una
lunga pausa, durante la quale i suoi occhi di ghiaccio divennero lucidi.
Fu Jarod a rompere il silenzio imbarazzante: «Anche io ho perso mia madre, -
disse pacatamente alzandosi in piedi - ma io le parlo ancora. - La ragazza lo
guardò senza capire - La sua voce è dentro di me, - spiegò fissandola negli
occhi - anche quella di tua madre è dentro di te.»
Il filmato era giunto al termine, Edward lo spense.
«Ed?»
Lo psichiatra non disse nulla per un attimo che a Jarod parve una vita.
«Che cosa vorresti dimostrare con questo?» gli chiese infine con un tono aspro e
duro. Jarod non se lo aspettava, rimase interdetto per qualche istante, poi
ribatté: «Mi pare ovvio, quel ragazzo si chiama Jarod, come me, e la somiglianza
è inequivocabile!»
Lo psichiatra estrasse il dsa dal lettore e lo tenne sul palmo della mano
aperta.
Jarod tremava e non riusciva a star fermo, possibile che fosse l’unico a
notarlo?! l’unico a vedere come plausibile l’ipotesi che quel ragazzo del
filmato fosse suo padre?!
«Ti somiglia, è vero, ma questa è una registrazione molto vecchia, Jarod, …»
«E con questo?! Se quel Jarod è realmente mio padre, allora forse un giorno…»
«Jarod… - lo ammonì lo psichiatra - sai che non succederà mai, che non potrai
mai uscire dal Centro. »
Il ragazzo guardò altrove. Avevano parlato milioni di volte a quel proposito e
non aveva voglia di infilarsi in una conversazione senza scopo quando stava per
scoprire le sue vere origini: «Ed, quel ragazzo ha ragione, io sento la sua
voce!»
«Ma che significa?!» fece Edward scuotendo la testa, le sopracciglia aggrottate.
«La sua voce è dentro di me, io sento la voce di mia madre, e… non chiedermi
come ma so che lei è quella ragazza.»
Edward scoppiò in una sonora risata: «Jarod, la tua voglia di avere una famiglia
non deve spingerti ad affermazioni quanto meno azzardate, non ricordi che cosa
ti ho insegnato?! devi innanzitutto attenerti ai fatti, abbandonarsi alle
sensazioni e alle emozioni spesso pregiudica il risultato. Non essere cocciuto,
usa la testa, tu puoi fare tutto, se solo mi dai retta.»
Jarod lo fissò, i suoi occhi azzurri velati dalle lacrime lo trafiggevano. Non
volle ammetterlo davanti a lui, ma quegli stessi occhi avevano bucato lo schermo
poco prima ed erano appartenuti a quella ragazzina.
Jarod singhiozzò rivivendo dentro di sé le sensazioni che gli aveva trasmesso la
voce di sua madre, il tocco gentile della sua mano sulla sua guancia… era solo
un sogno, ma tutte le notti tornava, in una luce azzurrata, leggera come un
soffio e il suo sorriso bastava a rassicurarlo e a non farlo sentire più solo.
Quanto a suo padre… fissò il dsa un’ultima volta con determinazione: «Lui era un
simulatore, proprio come lo sono io! Ed, mi avevi detto che non ce ne erano
altri!»
«Perché è così! - ribatté - Tu sei speciale, e il tuo lavoro permette di aiutare
milioni di persone, la tua intelligenza serve a migliorare la vita nel mondo,
per questo è il caso di tornare immediatamente alla simulazione.»
«Perché non posso far parte del mondo anche io? - gridò - Non ho diritto anch’io
ad avere una famiglia? Forse i miei genitori sono ancora vivi, - disse infine -
forse sono là fuori, e magari mi stanno cercando, come io cerco loro…»
«E se così non fosse?! - lo interruppe lo psichiatra - Che cosa succederebbe se
invece scoprissi che non sanno nemmeno della tua esistenza, o che magari sono
morti, che ti hanno abbandonato, o che non hanno alcun interesse per te?!»
Forse era stato troppo duro. Si sentì terribilmente in colpa quando il capo del
ragazzo cadde reclinato e le lacrime cominciarono a scendere nonostante gli
sforzi per trattenerle.
«Mi dispiace, Jarod, ma è una battaglia persa. Faresti meglio a rendertene conto
prima di farti del male. Soffrire non serve a far migliorare le tue capacità.»
Jarod pianse. Edward lo lasciò sfogare, si alzò in piedi e raggiunse la porta
della cella a lunghi passi misurati.
«Ti concedo un quarto d’ora, - disse prima di andarsene - ti aspetto nel
laboratorio, pronto per lavorare.»
La porta si richiuse dietro di lui lasciandolo solo.
Jarod asciugò in fretta i suoi occhi glaciali e si sedette sul bordo del letto;
tremava tutto, singhiozzò sommessamente e si strinse il dsa al petto ascoltando
ancora una volta la calda voce di sua madre che gli sussurrava all’orecchio:
“Non aver paura… ci sono io qui con te… ti voglio bene.” E questo fece crescere
dentro di lui la determinazione necessaria per andare avanti.
«Io non mi arrenderò mai… - mormorò a sé stesso - Non mollerò mai, Ed…»
(scritto da Camilla)
Grazie per essere finalmente giunti alla conclusione,
spero ne sia valsa la pena. Se così non fosse o se aveste suggerimenti, pareri,
correzioni, critiche, o altro da riferirmi, potete farlo, solo non siate troppo
cattivi! (il mio ego è fortemente provato ultimamente!)
Grazie a Sara e a Deborah per la rilettura e le correzioni, non so come farei
senza di voi!