Il Camaleonte Fan Fiction

Memento mori


Riassunto: se la serie si fosse conclusa dopo la terza stagione questo sarebbe stato un finale. Il mio.

Periodo di composizione: dal 7 marzo 2001 (così dice il mio computer) al 14 luglio 2002 (perché non ho avuto solo questo da fare)

Adatto: a chi ha voglia e pazienza di leggerlo; niente scene di sesso violento, per stavolta vi lascio a bocca asciutta. Giusto un po’ di sangue… non siate impressionabili: è tutto finto!

Disclaimer: ovviamente nessuno dei personaggi della serie o la serie stessa è di mia proprietà, li ho usati senza il permesso degli autori e non a fini di lucro… etc… etc… Ragazzi è davvero deprimente! Quale diavolo sborserebbe un centesimo per leggere i deliri di una fan di Jarod?!
Tutti i diritti del racconto sono di proprietà del sito "Jarod il Camaleonte Italia".

NOTA DELL’AUTRICE: il racconto è stato scritto in fasi diverse della mia vita, durante le quali si sono susseguiti stati d’animo e sensazioni contrastanti. Vogliate tener presente che ho scritto questo racconto per me personalmente in primo luogo, per mantenere una parvenza di sanità mentale, ma spero comunque che vi piaccia, e che non vi annoi troppo. So che alcune parti vi ricorderanno alcune scene della quarta serie, ma la storia era stata sviluppata molto prima che cominciasse. Mi scuso se troverete patetiche certe cose, ma cercate di capire il mio punto di vista, dopotutto sono una ragazza e questa è la mia prima fanfiction. La storia si svolge come se la conclusione della terza stagione fosse la conclusione della serie intera e questo è il finale mancante. Buona lettura.


Prologo

«Jarod!» gridò Miss Parker «Fermati!»
Ma lui non le dava retta, anzi, correva più veloce che poteva, schivando e scartando gli alberi uno dopo l'altro.
«Jarod!»
Jarod non si voltò, continuando dritto davanti a sé, fuggendo da quella voce tanto perentoria quanto minacciosa.
«Jarod!»
Con la pistola in pugno Miss Parker seguitava a non perderlo di vista. Era la sua grande occasione, come non ne aveva mai avute in passato: oramai mancavano davvero pochi metri alla libertà, all'addio al Centro...
«Jarod!» Ma non serviva a nulla gridare, doveva prenderlo, afferrarlo, atterrarlo, riportarlo al Centro. Doveva.
Era così vicina da sentire il fruscio della sua giacca ed il suo incessante ansimare.
Da quanto tempo lo stava inseguendo nel bosco?
«Jarod!»
Una buca. Jarod la saltò, Miss Parker fece lo stesso.
Una radice. Jarod la evitò, Miss Parker fece lo stesso.
Gli alberi si facevano via, via meno fitti, segno che il bosco avrebbe in breve lasciato il posto a... un dirupo non previsto nel piano di fuga di Jarod.
«Jarod!» Miss Parker lo aveva quasi raggiunto sull'orlo dello strapiombo, con un sorriso di trionfo gli afferrò il braccio.
«Sei mio, genio! Ora si torna a casa.»
Ma lui non era dello stesso avviso.
Un elicottero sbucò sopra le cime degli alberi: un elicottero nero, senza scritte o insegne, un elicottero del Centro, che non esitò a fare fuoco su di loro.

Esistono tra noi individui straordinari,
dei simulatori, capaci di diventare chiunque vogliano essere.

Un'organizzazione chiamata "Il Centro"
ha isolato un giovane simulatore di nome Jarod
e ha sfruttato le sue capacità per le proprie ricerche.

Ma un giorno, Jarod fugge...


«Ma che diamine sta succedendo?»
«Chiedilo ai tuoi amici, Miss Parker!» le rispose Jarod spingendola all'interno della boscaglia più fitta. Sentivano il ronzio assordante dell'elicottero sopra di loro che li seguiva a vista e ogni qual volta ne aveva occasione sparava qualche pallottola nelle loro vicinanze, ed ogni volta mirava sempre più vicino.
Si era alzato un vento gelido, e lo spostamento d'aria dell'elicottero spazzava a terra i rami secchi, le foglie, le pigne, facendo paurosamente oscillare le cime degli alberi.
«Jarod!»
«Per di qua!» Jarod la trascinò sulla destra.
«Che cosa hai in mente?»
Ad un tratto si fermò. L'elicottero si stava allontanando, ne era certo.
«Ma che ti prende?»
«Sh!» la zittì lui «Perché se ne vanno?»
Purtroppo la sua domanda non tardò a ricevere risposta: una decina di uomini armati si facevano largo tra la boscaglia, pronti a sparare a vista, ed il loro bersaglio era un simulatore fuggito dal Centro quattro anni prima.
«Miss Parker…»
«Si?!»
«… scappa!»
Tornarono entrambi sui loro passi in una corsa frenetica sino al dirupo. L'unica loro possibilità di fuga era saltare. E lo fecero.
Jarod la afferrò per il braccio e la trascinò con sé, senza esitazione; sotto di loro il pendio scosceso, gli alberi, i rami, le foglie, …
Ruzzolarono assieme lungo l’irta discesa, senza possibilità di arresto. L’elicottero era ormai volato via, e ora si potevano distintamente udire i rumori e gli ordini dei cecchini del Centro che gridavano, e nella foresta riecheggiò la condanna: «Uccideteli! Non devono uscire vivi da questo bosco!»
La caduta si arrestò poco più giù, sotto le fronde degli abeti, su di uno spinoso tappeto d’aghi.
«Tutto bene?» Se le fosse successo qualcosa per colpa sua non se lo sarebbe mai perdonato.
«Si…» Si alzarono in piedi, entrambi apparentemente incolumi, a parte escoriazioni varie, i capelli arruffati ed i vestiti infangati.
«Andiamo via di qui.»
Saggia decisione: pochi secondi dopo la squadra di cecchini era sulle loro tracce nel bosco sottostante. Potevano sentire il loro scalpiccio alle loro spalle, le considerazioni, gli ordini impartiti, sempre più vicini. Jarod e Miss Parker non potevano far altro che correre dritto davanti a loro, cercando di non lasciare tracce del loro passaggio, senza farsi scoprire. Corsero a perdifiato finché non si sentirono al sicuro, lontani dagli spazzini, dal Centro, da tutto ciò che era civiltà, in mezzo alla foresta, in mezzo al nulla.
Ansimando forte e senza più la forza di proseguire giunsero nei pressi di una stradina sterrata che costeggiava un fiume di montagna. Era il crepuscolo. Miss Parker si sedette sulla sponda erbosa del fiume, abbracciando le ginocchia e sospirando: «Che cosa è successo? Per quale assurda ragione dovrebbero volere la mia morte? … La tua poi?! Il Centro ti rivuole indietro vivo, o non se ne farebbe nulla di un simulatore inutilizzabile!»
«Mpf… “simulatore inutilizzabile”?» replicò Jarod andandosi a sedere al suo fianco.
Miss Parker si voltò divertita: «Scusa, non volevo degradarti, io… mi sono espressa male.»
«È così che mi hai sempre considerato: una cavia da laboratorio? Un computer? …»
«Non avrei potuto dirlo meglio! … Non essere così melodrammatico! Jarod, so quanto il Centro ti abbia fatto soffrire, la conosco la tua triste storia, - commentò sarcastica - ma il mio compito è quello di riportarti al Centro, nulla di più, nulla di meno, e non c’è niente di personale devi credermi!»
«Già, chi meglio di te?!»
Miss Parker sospirò: «Il tuo posto è al Centro.»
«Io non ti capisco: Sydney mi ha detto che volevi liberare Gemini, perché con me dovrebbe essere diverso?»
Miss Parker non rispose. Strinse le labbra.
Trrrr. Trrrr. Trrrr. Entrambi scattarono in piedi. Trrrr. Trr… «Pronto?»
«Miss Parker,» bisbigliò la voce all’altro capo del telefonino cellulare.
«Broots! Che cosa fai? Dov’eravate tu e Sydney mentre ci sparavano addosso?»
«Perdonaci, ma ci siamo trovati davanti gli spazzini del Centro, ci hanno puntato le armi contro, e ora stiamo viaggiando su di un furgone anonimo, e Dio solo sa dove ci stanno portando! … Jarod è con te, state bene?»
«Si. Che cosa sta succedendo?»
«Vorremmo tanto saperlo anche noi, ma… ora ti devo lasciare… Ah, state attenti a…»
«Broots! Broots! … Ma che ha questo coso?!» infuriata iniziò a sbattere il suo telefono contro la mano.
«Finirai per romperlo, e ho l’impressione che ci servirà ancora.»
«È caduta la linea. Chissà cosa ha combinato quell’idiota di Broots.»
Jarod rise della cattiveria con cui trattava il suo povero collaboratore. Sapeva che in fondo lo stimava molto per il suo prezioso aiuto e che avevano instaurato una sorta di rapporto di amicizia, ma Miss Parker doveva pur sempre mantenere la sua posizione di “donna di ghiaccio”.
Si guardarono intorno. Alberi, alberi, alberi, una stretta stradina sterrata che si perdeva nel nulla in entrambe le direzioni perseguibili.
Un lontano cinguettio. Fruscii. Fruscii alle loro spalle. Silenzio.
Jarod sussultò. «Giù!» gridò, solo qualche istante prima che la sparatoria avesse inizio. Si tuffarono nelle acque gelide del fiume quasi simultaneamente, cercando di raggiungere l’altra sponda prima che la corrente li trascinasse via, e fuggire nuovamente tra le protettrici fronde della macchia.
I proiettili sibilavano accanto alle loro tempie come aliti di morte e bucavano l’acqua facendo tremare ogni loro speranza di salvezza.
La corrente li trasportava lontano, a valle. Erano salvi, almeno per ora.
Miss Parker conquistò la sponda, traendosi a fatica sulle rocce coperte di muschio scivoloso che in quel tratto avevano occupato il posto dell’erba. Aiutò Jarod.
Tossendo si trascinarono nel più fitto del verde.
«Dove siamo?»
«Più a valle di quanto non fossimo prima.»
«Grande intuizione ragazzo prodigio!» sbraitò con una smorfia.
«Stai perdendo sangue.»
«Dove?» fece stupita Miss Parker.
Jarod si avvicinò, prendendole il viso tra le mani e rigirandolo delicatamente: «Hai una ferita sulla fronte, poco sopra il sopracciglio… devono averti colpito di striscio con una pallottola. Ti fa male la testa?»
«No.» rispose liberandosi dalla presa e tastandosi la fronte. Si sporcò le dita di sangue, con l’unico risultato che il dolce liquido purpureo scese più copiosamente e un dolore lancinante le invase l’emisfero destro.
«Lasciati stare, non è molto grave, ma dovremmo disinfettarla e fasciarla.»
«Ah, si?! E con che cosa, genio?»
Miss Parker tornò al fiume, non prima di essersi assicurata che gli assassini del Centro non fossero nei paraggi, ed immerse il viso nell’acqua gelata.

Il tramonto era passato da quasi un’ora e l’aria iniziava a farsi pungente. Nell’agguato il telefono cellulare era andato perso e Jarod e Miss Parker non avevano più smesso di camminare, in silenzio, l’uno accanto all’altra. Ogni tanto sbirciavano alle loro spalle, ma Jarod era quasi convinto che la squadra di spazzini avesse abbandonato l’inseguimento. Almeno per quella notte.
«Dove stiamo andando?»
«Incontro al destino, Miss Parker»
«…»
Jarod si voltò a guardarla. Era pallida.
«Non hai la minima idea di dove siamo?» chiese lei.
Jarod pensò un istante. «Probabilmente dietro quella montagna c’è una strada statale, non credo che ci passino molte auto e comunque non è consigliabile andarci, rischieremmo di trovarci in una nuova imboscata. Ma da qualche parte qui intorno c’è una baita: il mio rifugio per questa settimana; se riuscissimo a raggiungerla potremmo medicarti la ferita alla testa e mettere un po’ d’ordine a tutta questa… strana faccenda.»
«È così buio.» mormorò Miss Parker scavalcando un ramo caduto.
“Già” pensò Jarod.
L’aria della sera spazzava le cime degli alberi lasciando scivolare al suolo foglie ed aghi che andavano a coprire il loro cammino.
Erano tutti bagnati e gocciolanti, infreddoliti e disorientati. Dove e a che cosa li avrebbe portati quell’inutile fuga? La ricerca della libertà, la volontà di vivere, la speranza di una vita normale, sembravano ogni giorno sempre più irraggiungibili, sia per l’uno che per l’altra. Erano stanchi di attendere il destino. Ora stava solo a loro decidere se fuggirlo o inseguirlo.
La tenue luce lunare che riusciva a filtrare tra il fitto dei rami permetteva ben poca chiarezza nella traduzione dei segnali che Jarod aveva lasciato nascosti sui tronchi per ritrovare la baita. E alla luce lunare appariva così fragile Miss Parker.
«Ci siamo quasi! È laggiù!» esultò Jarod.
Miss Parker sorrise inconsapevolmente ascoltando l’infantile entusiasmo che solo Jarod riusciva a trasmetterle. Per un istante tornò bambina. E mentre Jarod già si affrettava verso la piccola costruzione di legno, la sua vista venne meno, le girava la testa, fece un passo in avanti, barcollò, cadde.

Le tenui ombre dipinte sul suo viso lasciavano trasparire dalla sua espressione una spontanea gentilezza, che non le apparteneva abitualmente; ma quel candido pallore l’aveva trasformata. Sembrava così graziosa, e fragile.
Tentò delicatamente di disinfettarle la ferita con un batuffolo di cotone, ma Miss Parker girò il capo di scatto al primo contatto. Strizzando gli occhi gemette di dolore.
«Scusa. Stai ferma, farò in un attimo.»
«Brucia.» si lamentò.
«Resisti.» Lentamente le pose una benda attorno alla testa, fermandola con un paio di garze a cerotto.
«Ahi!»
«Ho fatto!»
Miss Parker era stesa sul divanetto accanto al fuoco che Jarod aveva acceso nel camino della baita. Era ancora scossa da brividi. Jarod sparì per pochi minuti nella penombra, e tornò con un paio di jeans ed una felpa che le porse, indicandole il bagno: «Sistemati, togliti i vestiti bagnati e… metti questi. Non sono di Armani, ma è il meglio che ti posso offrire.»
Miss Parker si alzò e raggiunse faticosamente la porta del bagno.
«Vuoi una mano?» chiese Jarod
«No, grazie!» rispose acida lei. Ma sorrise maliziosamente chiudendosi la porta alle spalle.
Non era stato prudente accendere il fuoco, i cecchini del Centro avrebbero potuto localizzarli, ma si era alzato il vento, e qualche goccia già iniziava a cadere. Molto presto si sarebbe trasformato in un grosso temporale, a giudicare dai lampi e dai tuoni che ne anticipavano l’arrivo. La luna aveva ceduto il posto a dense nubi opprimenti che schiacciavano al suolo le svettanti e ondeggianti cime dei pini. La montagna si preparava ad essere investita da un diluvio.
Con uno scricchiolio sinistro si riaperse la porta del bagno. Jarod sorrise.
«È enorme.» sentenziò Miss Parker cercando di raggruppare le maniche della felpa al di sopra delle dita, mentre i pantaloni le scivolavano dai fianchi ed era costretta a sostenerli con una mano.
Jarod le si avvicinò portandole sulle spalle una coperta di lana. Si accorse che tremava, e che faceva un enorme sforzo a reggersi in piedi.
«Ti fa male la testa?»
«No!» rispose lei, forse un po’ troppo in fretta: Jarod comprese il suo vano tentativo di salvare la sua fama di imperturbabile, ed era riuscita ad ingannarlo per tutta la sera, ma ora, era evidente, la febbre stava salendo.
«È solo un capogiro.» continuò Miss Parker mentre le sue gote si tingevano.
«Faresti meglio a stenderti.» la accompagnò al divano. Un sereno tepore e uno strepitio appena accennato e il profumo del legno. Ma non riusciva a godere di nulla in quel momento: qualcuno voleva ucciderla; e, cosa ancora più impensabile, volevano uccidere Jarod contravvenendo alle direttive del Triumvirato.
La testa le doleva terribilmente, ma non voleva che Jarod se ne accorgesse, non voleva che se ne preoccupasse. Non riusciva a credere di trovarsi con lui dopo tanto tempo, dopo che aveva cercato di catturarlo tante volte senza successo; ora, quando meno se lo sarebbe aspettato, Jarod era lì tutto per lei.
«Chi sapeva che saresti venuta qui a cercarmi?»
«Lo sapeva… bhè, credo che lo sapessero tutti.»
«Tutti chi?»
«Mio padre, Raines, Brigitte, Lyle, … Sydney e Broots erano con me quando siamo arrivati, poi sei scappato per il bosco, ti ho inseguito e… non c’erano più.»
Jarod pensò per qualche istante: «Forse sono stati fermati dagli uomini del Centro prima di noi, e quindi portati via. Spero solo che stiano bene.»
«Chi credi che sia il mandante?»
Miss Parker ritirò i piedi lasciando a Jarod lo spazio per sedersi.
«Non so chi, ognuno di loro ha un valido motivo per eliminarci, ed è proprio questo che dobbiamo inquadrare: il perché.»
«Come facevano a sapere che eravamo in riva al fiume? Credi che ci abbiano seguito in silenzio per coglierci di sorpresa?»
«Non ha alcun senso: se ci volevano uccidere, perché aspettare?! … a meno che non sapessero esattamente la nostra posizione in qualunque momento.»
«Come?»
Il sospetto s’insinuò nel loro pensiero deridendo la loro ingenuità.
««Una spia. Una cimice!»
«Nei miei abiti?! E come avrebbero fatto?»
Jarod recuperò in bagno il tailleur grigio fumo, frugando le tasche, i risvolti del collo, gli orli, … Una piccola, minuscola spia infilata in un bottone rivelò la sua presenza svelando il mistero.
«Jarod… allora anche adesso sanno dove siamo!»
Però avevano il tempo dalla loro parte: nessun elicottero avrebbe potuto alzarsi da terra con quelle condizioni atmosferiche, si stava scatenando una vera e propria tempesta là fuori, nessuno si sarebbe avventurato per il bosco al loro inseguimento.
Potevano davvero stare tranquilli?
D’altra parte nemmeno loro potevano muoversi; erano costretti nella piccola costruzione in legno protetta tra gli alberi. All’esterno il vento gelido scuoteva i rami e qualcuno di questi franava al suolo, sguazzando sul terreno fangoso.
«Siamo sicuri che questa baracca reggerà?» chiese la donna guardandosi intorno non troppo fiduciosa.
Miss Parker stava male, Jarod lo leggeva nel suo sguardo.
C’era freddo, il fuoco non bastava a scaldare l’ambiente, anche se piccolo. Jarod si alzò e raggiunse la finestra. Se la febbre di Miss Parker fosse peggiorata non avrebbe avuto nulla con cui curarla, inoltre nella sua scatola per le emergenze non rimaneva garza a sufficienza per una nuova fasciatura alla testa. Doveva portarla all’ospedale. Come?
Jarod osservava i fusti degli alberi tremolare come fili d’erba piegati dal vento, la pioggia si scaraventava furente sui vetri e sul tetto, guidata dalle folate che si facevano via, via più violente.
Tornò a posare lo sguardo sul viso di Miss Parker, le gote rosse per la febbre. Tremava. Gli occhi chiusi. Rannicchiata in un canto del divanetto. Avvolta in una coperta di lana. Sembrava una bimba, la stessa che aveva incontrato per la prima volta al Centro.
Chi poteva essere tanto crudele da volere la sua morte?! Miss Parker non era cattiva come voleva far credere, e Jarod questo lo aveva sempre saputo. E forse era per questo che ora rischiava la vita.
Le si avvicinò lentamente sfiorandole la fronte calda. Doveva trovare il modo di proteggerla… e di salvare sé stesso dal Centro.

La pioggia cadeva ancora incessantemente al suolo, quando Jarod e Miss Parker si avventurarono tra i boschi dopo un’intera notte di tempesta passata nella baita scricchiolante. Ovunque c’erano arbusti e rami spezzati, fango, melma, acqua; lentamente superarono la cima della montagna sotto la pioggia battente, arrampicandosi su scivolosi pendii o rocce coperte dal muschio.
Erano in cammino dall’alba, vale a dire da quando Jarod aveva costretto Miss Parker a trascinarsi fuori.
Miss Parker non stava affatto meglio della sera precedente, non riusciva a reggersi in piedi, le girava la testa, aveva la febbre alta, la ferita alla testa le sanguinava ancora, tremava ed era pallidissima. Jarod la teneva per mano per aiutarla nella salita.
Il Centro li avrebbe trovati. Dovevano fare presto, raggiungere il motel sulla statale il più in fretta possibile: la padrona li avrebbe di sicuro nascosti, Jarod l’aveva aiutata una settimana prima a ritrovare il figlio scomparso.
«Jarod…»
«Si?»
«Io… aspetta, non ce la faccio più.»
Miss Parker non aveva la forza di guardarlo negli occhi. Era un’ammissione dolorosa per lei, così orgogliosa, ma ciò significava che era davvero allo strenuo delle forze.
Jarod si fermò di fronte a lei. Una sosta avrebbe comportato la perdita di un po’ di quel vantaggio che avevano accumulato. Erano entrambi bagnati da capo a piedi, gocciolanti ed infreddoliti.
«Ti prego.» implorò la donna.
«Ormai manca davvero poco…»
Jarod la guardò negli occhi. Due lucidi occhioni grigio-azzurri, severi e sconsolati allo stesso tempo. Come poteva rifiutarsi?!
Dopo aver trovato la cimice nel vestito di Miss Parker, Jarod aveva staccato il bottone e l’aveva legato con dello spago alla zampa di un uccellino che aveva poi lasciato libero nella foresta. Sperava così di guadagnare qualche minuto, ma non sarebbe servito più di tanto, avrebbero scoperto in fretta il trucco. Dovevano sbrigarsi.
Impiegarono più di due ore per raggiungere la strada statale di cui Jarod aveva parlato. E non erano ancora in salvo.
Tremavano entrambi, lui per il freddo, lei per la febbre. Non c’era nessuno in vista, ma era sempre meglio essere prudenti: si mantenevano un po’ scostati dal ciglio della strada, tra la vegetazione, più riparati dalla pioggia dagli alberi, camminavano in mezzo alla fanghiglia, con zaino ed impermeabile sulle spalle.
«Sei stanca?»
«Un po’.»
«Vuoi che ci fermiamo di nuovo? tanto ormai manca poco.»
«No, no… tanto ormai manca poco.» ripeté.
Ed era vero, mancavano solo un paio di miglia al motel, quando qualcuno sparò nella loro direzione.
Erano di nuovo i cecchini del Centro.
Si accucciarono tra l’erba, cercando di capire la provenienza della pallottola, ma altre pallottole piovvero loro addosso, da tutte le parti. Era il caso di mettersi al riparo, ma dove? Non c’era nulla lì attorno!
Miss Parker estrasse la pistola dalla fondina e si preparò a rispondere al fuoco cercando di mantenere lucida la sua vista. Jarod le teneva stretto il braccio sinistro, e lentamente scivolavano verso l’interno del bosco.
Ancora spari, si misero a correre. Sempre più veloce, per quanto potevano. La volontà di vivere superava ogni stanchezza e ogni malattia, e li spingeva ad una impossibile sfida intrapresa contro la morte, una lotta sfrenata al destino che inesorabile si sarebbe abbattuto su di loro impugnando una falce. L’ultimo giorno era stato segnato. Ma non volevano ancora arrendersi all’evidenza.
«Fermi!» gridò uno dei cecchini parandosi di fronte a loro con l’arma in pugno. Jarod e Miss Parker si bloccarono. Uno sparo.
«No!» mentre un secondo sparo riecheggiava nell’aria schiumosa del bosco.

Broots passeggiava nervosamente su e giù per la cella nella quale erano rinchiusi lui e Sydney, impaziente di sapere che cosa stava succedendo all’esterno e preoccupato per ciò che sarebbe accaduto loro nei prossimi minuti.
Sydney era pazientemente seduto su una branda sfondata.
«Ma come fai ad essere tanto calmo? - sbraitò Broots - È incredibile, potrebbero anche ucciderci e tu te ne stai lì come se niente fosse a rigirarti i pollici!»
«Chi ha detto che ci uccideranno?»
«Nessuno, ma… Ci hanno sequestrato in un bosco, caricati come merce su un furgone anonimo, sballottati chissà dove, e rinchiusi in questa… come la chiameresti? Cella?! Prigione?! - riassunse - E tu insisti ancora a tranquillizzarmi dicendomi che non ci uccideranno?! E invece è proprio ciò che faranno! - fece sconsolato - È incredibile: non rivedrò mai più la mia Debbie!» e così dicendo si sedette accanto a Sydney con le mani fra i capelli, quelli che gli rimanevano.
Sydney sospirò: «Non essere tanto tragico.»
«Ah no! Perché diavolo ci avrebbero… rapito se…»
«Stia tranquillo signor Broots.» rantolò un’ombra sulla soglia della cella.
Broots e Sydney si voltarono di scatto verso la porta che si era improvvisamente aperta. Mr Raines entrò lentamente trascinandosi dietro la sua fidata bombola d’ossigeno.
«Mr Raines!» esclamò.
«Sorpresa.» fece con poco entusiasmo.
Dietro di lui si schierarono in fila a scudo della porta tre dei suoi uomini.
«Che cosa significa tutto questo? Dove sono Jarod e Miss Parker?» domandò Sydney alzandosi.
«Oh, non si preoccupi di Jarod e Miss Parker, in questo momento ha cose molto più importanti a cui badare. E in ogni caso presto ci raggiungeranno: i miei uomini se ne stanno già occupando.» Detto questo, con un cenno dell’indice destro chiamò avanti uno degli spazzini e gli impartì segreti comandi. L’uomo se ne andò.
«Ora voglio sapere esattamente che cosa sa Jarod di Adam.»

Jarod era a terra, ma incolume, invece il cecchino del Centro aveva un braccio grondante di sangue e gridava per il dolore.
«Jarod?» Miss Parker gli si avvicinò per aiutarlo ad alzarsi.
«Che dire… sono felice che ora tu sia dalla mia parte! - commentò sfilando dalle mani insanguinate dell’uomo la pistola che gli era stata puntata contro: - Questa la prendo io!»
Continuarono la loro frenetica fuga per i boschi trascinandosi dietro lo spazzino ferito.
Camminarono lungo il fiume che li aveva salvati la sera prima tenendo l’ostaggio sotto tiro: «Chi ti manda? Per chi lavori?»
Silenzio.
«Non ti conviene fingere il muto, perché rischi di diventarlo realmente! Parla!»
L’uomo strinse i denti. Se avesse parlato lo avrebbero ucciso.
«Lasciami indovinare: Raines?» ipotizzò Miss Parker.
«Perché ci vuole uccidere?»
«Non servite più.»
Che cosa significava? Che cosa intendeva dire con “Non servite più”?
«Adam…?» bisbigliò fra sé Jarod. Mai come prima d’allora si era sentito arrabbiato.
«Allora avevo ragione: quel verme, … cadavere ambulante di Raines! Asmatico figlio di…! - lo maledisse Miss Parker - Sdraiati qui!» ordinò al cecchino.
«Che cosa vuole fare?» fece allarmato l’uomo vestito di nero.
«Non preoccuparti per il tuo fondoschiena, pivello, voglio solo che ora tu ti metta sdraiato a pancia in giù.»
L’uomo eseguì riluttante. Si sdraiò lentamente sulla sponda del fiume con le mani alzate sulla nuca, infangandosi i vestiti e sporcandosi la faccia. Miss Parker lo osservò divertita per qualche istante, poi gli posò un piede sulla schiena e lo spinse con un calcio deciso di fronte e sé. La melma la aiutò e un istante dopo lo spazzino era scivolato dritto nell’acqua schiumosa e gelida del fiume.
Jarod rise: «Speriamo che sappia nuotare. Miss Parker, andiamo.»
«Hai qualche idea per sfuggire al blocco?»
«Non possiamo fare altro che tenerci nel bosco, per ora.» La pioggia non era di grande aiuto; certo, non era una tempesta come quella della sera prima, ma di sicuro non era di alcun giovamento per la febbre di Miss Parker.
«Ci troveranno.»
«Non pensarci.»
«Come sarebbe a dire, Jarod!?»
Lui camminava velocemente, spostando i rami degli alberi che pendevano sgocciolando sulla sua persona; e tutti i rami che così scostava finivano immancabilmente per arrivare sulla faccia di lei, che arrancava alle sue spalle. Avrebbe voluto tirargli un pugno in viso dalla rabbia, lo odiava quando assumeva quell’aria di superiorità.
«Jarod!»
Lui si voltò di scatto nello stesso istante in cui un lampo ruppe il silenzio della foresta che li circondava: nella luce bianca che illuminò tutto d’un tratto il suo sguardo Jarod apparve incredibilmente imponente e severo, quasi indemoniato. I suoi occhi ed il suo viso, bagnati di pioggia, lasciavano trasparire una dolce vena di follia, che, per quanto potesse ricordare, gli era sempre appartenuta, e che costituiva una parte importante del suo fascino. Jarod la trasse a sé stringendole le spalle: «Non capisci perché non hanno più bisogno di noi?! Perché hanno trovato qualcun altro! Un altro simulatore! Un altro bambino strappato alla sua infanzia! Un’altra vita distrutta!» gridò scuotendola.
Miss Parker rabbrividì, di freddo, di paura, di tensione. «Come lo sai Jarod?»
Lui la lasciò. Ora il suo sguardo era di nuovo quello sornione di sempre, con circospezione si guardava attorno. Alberi.
«… Lo so perché mi sono imbattuto in un file protetto tra le cartelle di Raines, l’ultima volta che sono entrato nel sistema del Centro: cercavo notizie sul mio passato e ho trovato un file denominato “Adam”, e che per quanto sono riuscito a capire riguarda un bambino di tre anni con doti particolari.»
«Doti che Raines ha intenzione di sfruttare per creare un suo simulatore?» concluse Miss Parker.
Jarod asserì silenziosamente. Non poteva assolutamente permettere che ciò che gli era successo si ripetesse. Aveva giurato che nessuno più avrebbe vissuto come lui.
Miss Parker lo guardava in silenzio.
«Ti prego, … ti prego dimmi che tu non lo permetteresti mai.» la supplicò.
«Jarod…»
«Tua madre non l’avrebbe mai accettato. Lei voleva liberare me ed altri sette bambini, e avrebbe cercato di impedirlo anche stavolta, ne sono certo… Dimmi che sei con me.»
«Ma certo.»

«Glielo ripeto, Raines, non sappiamo nemmeno di che cosa stia parlando!» sbottò Sydney.
L’uomo si ergeva minaccioso su di lui, coprendo la luce con la sua ombra: «Non ti credo. So per certo che hai avuto una conversazione telefonica con Jarod la sera che è penetrato nel computer centrale del Centro. Ora voglio sapere che cosa vi siete detti?»
«Jarod non mi ha parlato del Centro.»
«Sei un bugiardo Sydney. Stai solo cercando di proteggere il tuo pupillo, ma non ti servirà a nulla, perché ormai è troppo tardi, per lui e per Miss Parker.»
«Che cosa intende con “troppo tardi”? cosa vuole fare?» intervenne Broots alzandosi in piedi.
«Lo scoprirete presto… se non vi deciderete a collaborare.»
Sydney rimase pensieroso sulla branda disfatta. Jarod era in pericolo, e si era trascinato dietro anche Miss Parker. La situazione si delineava sempre più delicata. Jarod rischiava di essere ucciso, Raines sapeva che aveva scoperto Adam, e gli avrebbe impedito di salvarlo, anche a costo di ucciderlo: ora aveva la possibilità di crearsi un simulatore tutto suo, libero da vincoli con il Triumvirato poiché esterno al Centro. Sebbene avesse intenzione di adoperarne le strutture, il suo lavoro con Adam non avrebbe figurato tra i suoi esperimenti per il Centro. Adam sarebbe stato una sua creazione.
Adam era soltanto suo.
«Non ti illudere Sydney. Questa volta Jarod non ha scampo: non riuscirà a rubarmi anche Adam.»
«Ne parli come se ti appartenesse. Dì, Raines, che cosa vuoi realizzare con Adam?»
«Dunque tu conosci Adam!» sorrise l’uomo spalancando i suoi occhi grigi a palla.
«Io non ho detto questo, ma suppongo che si tratti di un nuovo simulatore: siccome Jarod è riuscito a sottrarti, o a “rubarti” il suo clone hai intenzione di riprovare con un altro bambino. Dico bene?»
«Jarod non mi avrebbe mai sottratto il ragazzo se tutti voi, compresa Miss Parker, non lo aveste aiutato. E ora voglio impedire a voi tutti di ripetere una simile sciocchezza.»
Broots sbiadì paurosamente e tornò a sedersi accanto a Sydney. Ora tremava di paura e di rabbia: non avrebbe più rivisto la sua cara Debbie.
Raines si diresse verso la porta della cella con passo lento ed affaticato, trascinando con sé la bombola d’ossigeno che cigolava fastidiosamente.
«Quando Adam sarà qui Jarod e la Parker saranno solo un doloroso ricordo… grazie a voi.»
Uscì facendo chiudere a chiave la stanza da uno dei suoi uomini in nero.
«Sydney! - fece concitatamente Broots - Che cosa vuol dire “grazie a noi”? Jarod e Miss Parker… Loro…» Non riuscì a concludere la frase.
«Raines li vuole morti.»
«Ci riuscirà?»
«Non lo so. Non dobbiamo sottovalutare Jarod, ma Raines sembra davvero pronto a tutto. … “grazie a noi”… che cosa avrà voluto dire?»

«Sei pronta?»
Miss Parker fece cenno affermativo col capo.
Erano sul ciglio della statale, di fronte ad una diramazione stradale che li avrebbe condotti dalla signora che Jarod aveva aiutato la settimana prima. Avevano evitato accuratamente le sentinelle del Centro camminando tra la boscaglia più fitta. Aveva da poco smesso di piovere, e dagli alberi ancora gocciolava acqua piovana, che scendeva a carezzare fastidiosamente la loro figura.
Il bendaggio sulla fronte di Miss Parker era oramai zuppo di sangue. La ferita le faceva girare la testa, ma non potevano fermarsi, nemmeno un istante. Dovevano attraversare la strada e raggiungere il motel in fondo al sentiero sterrato, pochi metri più a sud. Allora e solo allora avrebbero tirato un sospiro di sollievo. Ma non potevano rischiare di farsi scoprire proprio ora.
«Jarod, …»
«Manca poco.»
Rapidamente lui la prese per mano e la trattenne al suo fianco, spingendola delicatamente.
Con pochi passi furono dalla parte opposta. Intrapresero la camminata costeggiando il sentiero all’interno del bosco, coperti dagli alberi, e giunsero finalmente al motel.
Era segnalato da una striscia luminosa posta sulla tettoia del porticato, e pubblicizzato qualche chilometro prima sulla statale. Si avvicinarono cautamente: c’erano delle auto nere parcheggiate nel piazzale, auto del Centro.
«Adesso che facciamo genio?»
«Sono sicuro che la signora Dealy ci coprirà.»
Pochi secondi più tardi una squadra di spazzini uscì dal locale, salì in auto e se ne andò sgommando.
Jarod e Miss Parker uscirono furtivamente, sbirciando all’interno della reception. Nessuno.
«Jarod!» gridò una voce alle loro spalle.
Si voltarono di scatto: «Mikey! - Un bimbetto color cioccolato gli corse incontro tuffandosi a braccia aperte su di lui. Jarod lo afferrò al volo: - Mikey! Dov’è la mamma?»
«Sono qui Jarod.»
La madre era una giovane donna di colore, con i capelli neri raccolti in tante minuscole treccioline che aveva legato in una coda morbida. Aveva un’espressione dolcissima e sorrideva.
«Grazie al cielo stai bene, sono così felice di rivederti! - continuò raggiungendo il figlio - Sono passati alcuni signori a cercarti, proprio come mi avevi detto, li ho mandati via.»
«Hai fatto bene, Michelle.»
La ragazza squadrò Miss Parker: «Ma che cosa vi è successo?»
Miss Parker le lanciò un’occhiataccia.
«Ci siamo imbattuti in quelli che hai mandato via. - spiegò Jarod - Michelle, ci potresti aiutare?»
«Certo.»
Entrarono.
La stanza era piccola, ma confortevole ed accogliente, con carta da parati rosa antico ed un motivo floreale in rosso scuro, e mobili in legno di quercia. Un letto a due piazze, una scrivania, una poltrona e un armadio. Il bagno era sulla destra.
«Scusatemi, non è molto, ma è l’unica stanza con due uscite, se… per caso dovesse servire… Io sono sempre a disposizione, sopra la reception.»
«Non preoccuparti Michelle, è perfetta.» rispose Jarod osservando sorridendo la stanza da letto.
«Certo, se non c’è di meglio.» bisbigliò acidamente Miss Parker con le mani incrociate sul petto.
Dopo essersi asciugati e cambiati con alcuni vestiti che molto gentilmente aveva prestato loro Michelle, Jarod sistemò il suo portatile sulla scrivania e la Parker si coricò finalmente sul letto.
«Aspetta, fammi vedere prima quella ferita.»
Sospirando Jarod le tolse il bendaggio sporco di sangue. La pallottola non era stata devastante, ma nemmeno troppo gentile: la cute era lacerata abbastanza in profondità da richiedere l’intervento di punti di sutura. Sfortunatamente Jarod non aveva il necessario alla baita, e trascorse più di sei ore dall’incidente il rischio di infezione non consentiva l’applicazione di tali punti. Jarod le fasciò la testa con della garza pulita, dopodiché le provò la temperatura corporea. La febbre non la abbandonava un istante, e aumentava di ora in ora.
«Resterà la cicatrice?» chiese allarmata Miss Parker.
«No… o per lo meno non si vedrà molto. - la rassicurò - Perché non prendi un po’ d’antibiotico prima di dormire?»
«Non voglio nessuna medicina: voglio essere sveglia e lucida quando ammazzerò quel figlio di un cane di Raines!»
Jarod sorrise amaramente.
«Se non ti curerai non riuscirai a muovere un solo passo fuori di qui.»
Spazientita si girò dall’altra parte. Aveva ragione, forse, ma… Cedette: afferrò il bicchiere che lui le porgeva e trangugiò tutto il liquido rossastro con una smorfia di disgusto.
«Ah, ah! - rise Jarod - Ora dormi, ti farà bene.»
«E tu, cosa farai?»
«Cercherò informazioni su Adam, e vedrò cosa fare per non incorrere più nei cecchini di Raines.»
Miss Parker si sistemò meglio tra le coperte.
«Che cosa intendi fare? Vuoi salvare il bambino?»
«Non possiamo fare altro.»

Sbuffando Miss Parker si rigirò nel letto.
Jarod alzò gli occhi dal computer per osservarla. Era stata irriconoscibile in quelle ore trascorse, distesa tra le coperte con gli occhi chiusi e l’espressione rilassata non sembrava affatto la donna di ghiaccio che aveva sempre dimostrato di essere. Qualcosa lampeggiò sullo schermo, attirò di nuovo l’attenzione su di sé: la ricerca aveva dato i suoi frutti ed aveva incontrato un file protetto denominato “Adam”.
«Bingo!» sussurrò.
Purtroppo il file era stato inserito in un programma di protezione ideato da Broots che faceva scattare un allarme al primo tentativo di apertura. Una volta scoperta la sua presenza nel sistema il Centro l’avrebbe estromesso entro pochi minuti, ma poteva contare sulla momentanea mancanza dell’ideatore, e senza di lui sicuramente avrebbe avuto più tempo per curiosare tra le pagine di Adam.
«Che cosa stai facendo?»
«Ben svegliata, Miss Parker. Vieni a vedere, ho appena trovato la gallina dalle uova d’oro!»
«Adam?» Si mise a sedere sul letto rovesciando le coperte.
Jarod voltò leggermente lo schermo verso di lei.
«Che aspetti, aprilo!»
La pagina iniziale di Adam apparì sotto i loro occhi: una fotografia a colori di un bambino, di poco più di tre anni, occhi verdi vivacissimi, pelle chiara, capelli castani scompigliati, sorridente.
«Ma è piccolissimo!» costatò Miss Parker.
«Addestrali sin da piccoli e ti obbediranno meglio. Credi che a Raines importi qualcosa di lui?! Io avevo quattro anni quando mi hanno sottratto ai miei genitori.»
Una brevissima biografia collocava la sua nascita nello stato del Montana, da madre Veronica e padre Joshua, entrambi deceduti il mese scorso.
«Opera del Centro, scommetto.» commentò Jarod guardando Miss Parker con la coda dell’occhio. Lei inarcò le sopracciglia e continuò a leggere: “ospite dell’orfanotrofio di Whitehall sino al 10/15…”
«…Che giorno è oggi?»
«Giovedì 15 ottobre.»
Si guardarono negli occhi, pensando entrambi la medesima cosa, e cioè che se non si fossero mossi per tempo quel bambino sorridente sarebbe stato perso per sempre.
In quel mentre il terminale di Jarod fu estromesso dal sistema.
Il Centro aspettava già Adam. A che ora avevano appuntamento gli uomini di Raines a Whitehall? E dove l’avrebbero portato dopo?

«Jarod si è inserito nuovamente nel computer centrale del Centro. Vogliamo sapere come ha fatto, e che cosa può avere scoperto.»
Broots era legato mani e piedi ad uno scomodissimo sgabello di ferro, con la pancia contro le gambe e le ginocchia sotto il mento. Gocciolava abbondantemente di sudore per i soffioni di aria calda che aveva puntati addosso. L’odore fetido di fogna e rifiuti invadeva la stanza e pungeva le sue narici ogni qual volta il lento roteare delle pale di uno stanco ventilatore mandava nella sua direzione folate di asfissiante aria calda. Si sentiva prigioniero di un phon. Aveva i pantaloni bagnati e la gola secca. In più non sapeva come giustificare il fallimento del suo programma di sicurezza senza offenderli; la colpa era stata principalmente loro se Jarod era in qualche modo riuscito a carpire informazioni dal computer centrale. Soprattutto la sua mancanza aveva contribuito a far sì che avesse più tempo a disposizione, … ma come dirlo a qualcuno che potrebbe ucciderti all’istante, o peggio ancora potrebbe uccidere tua figlia?
Broots tossì raucamente: «Dunque… avrei bisogno di un po’ d’acqua… se… se non vi dispiace… troppo.»
Lo spazzino del Centro si sollevò dal muro e gli andò alle spalle con passo pesantemente minaccioso. Si chinò su di lui per gridargli nell’orecchio: «Ah! Vuoi dell’acqua?! Danny, il pidocchio vuole dell’acqua!» ridacchiò.
Danny era evidentemente fuori della porta alle sue spalle e poco dopo la aprì con un cigolio acusticamente insopportabile.
L’acqua arrivò: una secchiata atterrò sulla sua spina dorsale con tutta la violenza necessaria ad annullare ogni effetto di sollievo che in quelle condizioni il ricevere una rinfrescata comportava.
«Ti è bastata l’acqua?» chiese sarcastico l’uomo in nero.
Broots fece cenno affermativo colla testa, tentando di raccogliere con la lingua le gocce che cadevano dal naso e dalle gote. Jarod era entrato nel computer centrale. Perché?
«Allora, ti vuoi decidere a collaborare?»
«Che cosa volete sapere?»
«Che cosa sa Jarod?»
Broots tremava di paura e timidamente azzardò: «Ma come faccio io a saperlo?!»
L’uomo sorrise e sparì alle sue spalle. Pochi istanti dopo fu di ritorno con un carrello ed un computer su di esso.
«Ora rispondimi: che cosa sa Jarod?»

«Sai, Miss Parker, ci ho pensato parecchio mentre dormivi…»
«A cosa?» gli chiese lei mantenendo lo sguardo sulla carta stradale.
Si stavano dirigendo a nord, a Whitehall, sulla strada statale che secondo loro era la più diretta.
«A tutta questa faccenda: se davvero mi vogliono ammazzare per quel bambino… bhè, posso anche capirli, dopotutto ho sottratto loro me stesso, Davy Simpkins e Gemini, sono decisamente scomodo, ma… tu invece, che cosa hai fatto per farti odiare tanto?»
«Bhè, che motivo ha Raines per fare quello che fa?!»
«Non credo che Raines voglia ucciderti per divertimento. - un breve sguardo a destra: Miss Parker seguitava a fissare la carta - La mia sensazione è che tu non me la racconti giusta: c’è di più sotto, e voglio sapere cosa!»
Silenzio. Miss Parker piegò in malo modo la mappa stradale e sospirò voltandosi verso il guidatore: «Sentiamo, ragazzo d’oro, che cosa credi che nasconda?»
«Dimmelo tu»
«…» Miss Parker esitò, rimase a labbra semichiuse, nell’intento di esprimersi, ma senza successo. Alla fine rinunciò e si rimise appoggiata allo schienale.
Jarod rallentò improvvisamente.
«Ma che fai!?»
«C’è una pattuglia, dietro quel cespuglio, se ci ferma la polizia addio Adam!»
«… Jarod, … si, hai ragione, il motivo per cui quello schifoso residuo d’umano mi vuole morta… non è il bambino, né una sua vendetta personale… o almeno non solo.»
Jarod riprese a schiacciare sull’acceleratore. La strada era sgombra e umida per il violento temporale della notte precedente. Erano le due e venti del pomeriggio, ed un pallido sole faceva capolino tra le nubi solo da pochi minuti. L’aria era fresca, all’esterno.
«Il bambino non c’entra.»
«Questo l’hai già detto.»
Miss Parker si sforzò di non tossire. Non voleva che Jarod si preoccupasse della sua salute nuovamente. La febbre era sparita da sole due ore, e Jarod sapeva perfettamente che non poteva sentirsi bene, ma fece finta di niente. Ora la loro priorità era Adam.
«Ho detto a mio padre che voglio andarmene dal Centro.»
Silenzio.
«Ovviamente non me lo permetterà mai, ma non mi importa più. Questa volta non mi tiro indietro. Non voglio passare il resto della mia vita a rincorrere te! Non riuscirei mai a riportarti al Centro.»
«Se ne sei tanto sicura perché non te ne sei andata prima?»
Un cartello con la scritta “Welcome to Whitehall” comparve in lontananza.
Miss Parker lo guardava avvicinarsi sempre di più. Voleva… anzi, doveva trovare quel piccolo simulatore prima che Raines ci mettesse le grinfie. Non poteva permettergli di rovinare un altro essere umano.
Sua madre avrebbe fatto lo stesso, ne era certa.
«Sono contento che tu voglia andartene dal Centro, davvero, ma… ancora non capisco perché Raines voglia eliminarti. E nemmeno perché tuo padre glielo lasci fare!»
«Non sono affari tuoi Jarod.»
«Ah, davvero?!»
«Già!» scattò Miss Parker. Tossì. E tossì di nuovo.
«C’è una bottiglia d’acqua nella borsa, sul sedile posteriore…»
«Non ne ho bisogno.»
L’orfanotrofio di Whitehall era a soli due isolati.
«Hai freddo?» le chiese.
«No»
«Allora perché stai tremando?»
Spazientita lo freddò con una gelida occhiataccia. «Fermati qui. Che cosa facciamo se il bambino non c’è?»
Slacciando la cintura di sicurezza Jarod le rispose: «Prega che ci sia ancora.»
Raggiunsero un edificio di cinque piani, in pietra a vista, finestre alte ad arco, adiacente ad una chiesa. Un convento: l’orfanotrofio di Whitehall.
Entrarono da una minuscola porticina sul lato ovest e si ritrovarono in un’entrata rettangolare, di fronte a loro un enorme portone di legno intagliato con due sottili feritoie. Bussarono.
«Chi è?» si sentì dalla parte opposta. Mentre ad una feritoia si affacciava l’occhio miope di una suora.
«Jarod Heye, assistente sociale.»
L’anziana suora aprì lentamente il pesante portone, indietreggiando e zoppicando.
«Assistente sociale?!» fece stupita.
«Si, Jarod Heye - ribadì mostrando alla donna il tesserino che lo qualificava - lei è la mia collega.» Miss Parker strinse le labbra incrociando le mani dietro la schiena.
«In che cosa posso esservi utile?»
«Siamo qui per Adam. - Jarod lesse l’incomprensione negli occhi miopi della suora - Doveva essere trasferito oggi, vero?!»
«Si, certo, ma sono già venuti.»
«Quando?» domandò istintivamente Miss Parker.
«Chi?» la corresse Jarod
«Gli assistenti sociali, pochi minuti fa.»
Jarod avrebbe voluto dare sfogo alla rabbia e frustrazione che tentava di reprimere di fronte alla suora, ma i suoi sentimenti vennero pienamente espressi dal viso di Miss Parker, tanto che la povera anziana suora si fece prendere dal panico: «Oh mio Dio! Il bambino! … non erano assistenti sociali?»
«No!» sbraitò Miss Parker spaventando ancor più la già atterrita suora.
«Dove lo stanno portando?»
«I… io non lo so.»
«Da che parte sono andati?»
«A destra, si, a destra, verso l’autostrada, già,…»
«Prendi l’auto!» ordinò Jarod
«Devo chiamare la polizia?»
«Ci pensiamo noi, sorella, non si preoccupi.» intervenne Miss Parker avviandosi di corsa a recuperare la berlina rossa. “Meglio non avere la polizia tra i piedi” pensò.
«Oh, che cosa ho fatto! Che cosa ho fatto! Il bambino!» continuava a disperarsi la donna.
Accorsero altre consorelle allarmate dai lamenti.
Jarod le lasciò nell’atrio a consolare l’anziana suora, salì in macchina velocemente e Miss Parker voltò bruscamente a destra in direzione dell’autostrada.
«Come facciamo a rintracciarli?»
«Non lo so.»
«Ah! E tu saresti un genio!» ironizzò
Raggiunsero l’autostrada quasi subito, non c’era praticamente nessuno.
L’adrenalina doveva aver miracolosamente acuito i sensi di Miss Parker, Jarod se ne accorse dal modo in cui schiacciava il pedale dell’acceleratore. Scartava e seminava le altre automobili, incurante di tutto. La sua espressione accigliata era divenuta più intensa ed arrabbiata. “Stupida suora,” pensò Miss Parker “come ha potuto scambiare degli assassini del Centro per assistenti sociali!?”
«Eccoli!» gridò Jarod puntando l’indice verso un’auto grigio antracite che viaggiava a poca distanza.
Miss Parker sterzò improvvisamente, mettendosi alla sinistra dell’auto dei “rapitori”.
Immediatamente riconosciuti, ricevettero il saluto che spettava loro: il finestrino oscurato si abbassò lentamente e una mano armata emerse dal nulla, scaricando sulla fiancata della berlina rossa un intero caricatore costringendo Miss Parker a tornare in carreggiata dietro l’auto.
«Ma porca…! - imprecò Jarod - È la macchina di Michelle!»
Miss Parker sembrava davvero spazientita; si riportò sulla sinistra e sterzò violentemente. Il contatto produsse scintille e lasciò sgommate sull’asfalto. Le due auto procedettero affiancate in una danza scricchiolante di lamiere e scintille, con un assordante rumore di contatto indesiderato.
«Vacci piano, è la macchina di Michelle!» ripeté Jarod
La loro corsa ebbe termine nel canaletto che costeggiava la strada statale da un paio di chilometri. L’auto scura aveva accartocciato il suo muso sulla sponda opposta, mentre la berlina rossa era riuscita a rimanere parzialmente sulla strada.
Miss Parker slacciò la cintura e scese, Jarod fece lo stesso, con un po’ più di difficoltà. Il suono lamentoso di un clacson proveniva incessante dall’auto dei rapitori.
«Maledetti bastardi!» sbraitò uno dei due spazzini uscendo a fatica dal posto di passeggero. Miss Parker lo raggiunse puntandogli la pistola alla tempia sinistra. «Dammi la tua e non ti ucciderò.» gli intimò. Lo sventurato obbedì imprecando. «La mamma non ti ha insegnato a non offendere chi ha in mano un’arma?!»
Jarod scostò il guidatore dal volante e il fastidioso sibilo del clacson cessò. Una piccola contusione al naso: se la sarebbe cavata. L’acqua aveva invaso rapidamente l’abitacolo, sebbene non fosse più alta che mezzo metro era meglio prendere il bambino subito.
Il sedile posteriore era vuoto. “Adam!”
«Jarod…» fece Miss Parker per attirare la sua attenzione sul bambino.
Spostandosi un po’ più a destra Jarod scorse una piccola ombra che si nascondeva sotto il sedile del passeggero, sperando di non essere scovata.
«Adam?»
Jarod aprì la portiera posteriore e scivolò lentamente accanto al bimbo.
«Adam, mi chiamo Jarod, non avere paura, è tutto passato.»
Il bambino stranamente non piangeva, né dava segno di insicurezza o preoccupazione, semplicemente osservava inespressivo quel volto nuovo che gli tendeva una mano per aiutarlo ad uscire dal suo nascondiglio. Lentamente si trasse fuori, Jarod lo prese in braccio e lo fece salire sull’altra auto.
Miss Parker intanto continuava a tenere sotto tiro il rapitore e con passo malfermo si allontanò, salì in macchina accanto al bambino.
«Grazie ragazzi, alla prossima. Ah, dimenticavo, questo è per Raines, assicuratevi che lo riceva, - Jarod gettò all’uomo un dischetto per computer - un regalino da parte mia. Non fare quella faccia, non sempre si vince!»
Dopodiché se ne andarono rapidamente ripercorrendo il tragitto d’andata.

Un uomo in nero entrò sbattendo bruscamente la porta.
Broots sobbalzò aspettandosi un’altra dolorosa ed inarrestabile secchiata d’acqua, che però non arrivò mai: il nuovo arrivato si era avvicinato al suo torturatore e gli bisbigliava qualche segreta informazione nell’orecchio; magari proprio ora giungeva la notizia che sua figlia era stata presa in ostaggio e che poteva utilizzare quella carta, o che avevano invece ucciso Jarod e Miss Parker e che la sua collaborazione non era più richiesta, che potevano procedere al suo assassinio quindi, … forse. O forse no, forse lo avrebbero torturato ancora per tutto il giorno o tutta la notte, tanto non aveva idea dell’ora che fosse.
Ma invece l’uomo in nero se ne andò pochi istanti dopo e l’altro, sorridendo malignamente al povero ostaggio fece lo stesso.
Broots era rimasto solo col computer nella stanzetta puzzolente, legato come un salame, infastidito da orribili pensieri e dal calore insopportabile.
E vi sarebbe rimasto ancora per parecchio tempo.

Dalla sua stanza al primo piano Michelle vide arrivare in lontananza la berlina rossa che aveva gentilmente prestato a Jarod. Scese sotto il portico ad attenderli con un sorriso, sollevata che fossero tornati: Jarod le aveva raccontato tutto.
Man mano che si avvicinava l’auto riuscì a scorgere la sagoma al volante in controluce, poi la figura di Miss Parker, poi la testolina di un bambino. Ciò significava “missione compiuta con successo”. Ma man mano che si avvicinavano, che proseguivano per la strada sterrata, man mano che le figure non erano più solo sagome e volumi, ma diventavano dettagliatamente visibili, Michelle scorse l’irreparabile danno arrecato alla fiancata destra: sedici fori di pallottola e due enormi squarci sulla portiera anteriore.
«Jarod!… ma… la macchina!» balbettò sconsolata con le mani nei capelli non appena l’uomo parcheggiò.
«Scusami, te la riparerò io.» fece scendendo dall’auto.
«Dovevo ancora finire di pagarla!»
«Non preoccuparti, tornerà come nuova, promesso. Sono stato anche meccanico, sai?!»
«Davvero?» Miss Parker tese la mano ad Adam per aiutarlo a scendere.
«Si, due mesi fa. A San Francisco.»
Michelle osservò garbatamente sorridendo al nuovo ospite: «Così è questo, Adam.»
Entrarono.
«Non possiamo stare qui.» sussurrò Miss Parker.
«Non hai nulla da temere, Michelle è una brava persona.»
«Io non temo un accidente!… ma troveranno l’auto prima o poi e verranno a riprendersi il bambino, io dico che è meglio tagliare la corda prima di mettere la tua cara Michelle e suo figlio ulteriormente in pericolo.»
Non aveva tutti i torti.
Mikey stava giocando con Adam nella stanza accanto. Michelle stava preparando la cena.
«Dove andiamo? - le chiese - e come?»
Miss Parker sospirò. Il suo mal di testa non faceva che peggiorare. Si strofinò il dorso della mano sull’occhio sinistro con fare stanco; erano solo le sei del pomeriggio ma l’adrenalina di quelle ultime ore l’aveva sfinita. Tornando si erano fermati un istante all’orfanotrofio, accolti apprensivamente dalla miope suora e dalle consorelle preoccupate; mostrato ancora una volta il tesserino di assistente sociale Jarod aveva rassicurato le povere donne che stavolta avrebbero lasciato Adam in buone mani. Miss Parker aveva atteso in auto onde evitare di compromettere tutta la commedia. Dopodiché se ne erano andati. Adam non aveva mai parlato, non aveva mai nemmeno mostrato alcun segno di paura, stupore, curiosità o qualunque altro sentimento ammissibile in quella straordinaria circostanza. Le suore sostenevano che fosse così da quando era stato portato loro. Era comprensibile, dopotutto, che un bambino di soli tre anni che aveva assistito alla morte di entrambi i genitori fosse rimasto shockato e…
«Non so, Jarod, forse…»
Passeggiava nervosamente in cerchio da quando aveva messo piede di nuovo nella cucina di Michelle.
«Non avete nessuno che vi possa ospitare per un po’ in un’altra città?» domandò la donna continuando a mescolare la minestra in brodo che stava preparando per la cena.
Miss Parker le gettò un’occhiata gelida: non sopportava essere interrotta, meno che meno da lei; anche se li aveva aiutati non poteva sopportare la confidenza che dava a Jarod e soprattutto che Jarod la tenesse tanto in considerazione.
La donna si accorse del notevole risentimento di Miss Parker e pensò bene di cambiare aria per un po’: «Ah, io vado a vedere che cosa combinano i bambini.»
Si allontanò asciugandosi le mani in uno strofinaccio che portò con sé oltre la porta. Un istante dopo il suo braccio si affacciò dallo stipite e lo gettò sul tavolo.
Finalmente soli. «Jarod, dobbiamo trovare Sydney e Broots e portare via da qui Adam… non sei d’accordo anche tu? … Potremmo anche, che ne so… girare un po’ per il Paese e…» Lui la guardava senza convinzione.
«E su, Jarod! Sei tu l’esperto! Come facciamo a far perdere le nostre tracce?»
«Che cosa credi che facessero quegli spazzini sulla strada statale questa mattina presto?»
«Aspettavano noi?!»
«Come sapevano che saremmo venuti da quella parte? E perché non ci hanno seguito lungo tutta la strada e nel bosco?»
Miss Parker lo guardò con aria interrogativa, come per chiedergli spiegazioni riguardo quel repentino cambiamento d’argomento. Quella mattina non avevano certo avuto troppo tempo per pensare alla dislocazione degli spazzini lungo la via statale, o in un suo tratto, l’unico loro pensiero era rivolto alla salvaguardia della loro vita.
«Non stavano aspettando noi.» concluse infine con più incertezza che convinzione.

Sydney era seduto su di una branda da carcerato in una vuota, anonima, piccola stanza nel seminterrato di un edificio sconosciuto. Uno spazzino passeggiava lentamente e sicuro di sé accanto alla porta chiusa a chiave. Impugnava la pistola che teneva nella fondina sotto la giacca e si lisciava la barbetta incolta.
Aveva rivolto a Sydney le stesse domande che erano state rivolte a Broots, ricevendo analoghe risposte.
I due non sapevano nulla di concreto. Stando alle loro affermazioni.
Sydney sospirò stropicciandosi gli occhi stanchi. Sperava ardentemente che Jarod e Miss Parker fossero entrambi in salvo, lontani dal Centro e lontani da quel pazzo di Raines.
Lo spazzino passò di fronte alla stanza e sbirciò dalla feritoia verticale sul lato della porta e scomparve oltre il cemento armato. Sydney lo guardò truce e tornò ai suoi pensieri; un’ombra strisciò fulminea fuori della porta e catturò la sua attenzione. Il corridoio era semibuio e Sydney si avvicinò alla porta arrugginita per vedere meglio. Accanto al muro due piccoli occhietti vispi e chiari lo fissavano incuriositi. Sydney si appoggiò alla porta e alla fioca luce di una lampadina scorse una manina bianca, stretta a pugno sulla gonna a pieghe blu.
«Ciao!»
La bambina non rispose.
«Io mi chiamo Sydney, e tu?»
Dalla penombra la bambina lo osservava zitta stropicciando la gonna a pieghe con le manine.
«Che cosa ci fai qui sotto?» chiese Sydney gentilmente.
Silenzio.
«Chi sei?» chiese di nuovo.
«Eve.» rispose flebile una vocina.
Dei passi risuonarono minacciosi sul cemento del corridoio di là dalla porta. La bambina impaurita sparì nell’oscurità. Avvicinandosi i passi divennero più chiari e più forti, distinti, e Sydney sentì anche il cigolio che li accompagnava ritmicamente. L’attesa fu rotta dall’apertura della porta arrugginita; Raines si affacciò trascinandosi dietro quella sua inseparabile bombola dell’ossigeno, il suo viso illuminato da uno sguardo di superiore consapevolezza.
«Non è più necessario, oramai Jarod è nostro.» sentenziò.

«Stavano aspettando il bambino?»
«Non credo, sono venuti a prenderlo solo questo pomeriggio, …»
Miss Parker passeggiava massaggiandosi le meningi doloranti col pensiero che forse la minaccia della febbre o, peggio ancora, di un’infezione non era del tutto archiviata.
«Non stavano aspettando noi, non aspettavano Adam, non aspettavano nessuno, in fondo perché avrebbero dovuto aspettare qualcuno armati fino ai denti?!» sbottò lei.
Jarod sospirò.
Michelle si affacciò alla porta della cucina. La minestra stava bollendo e nessuno si era preoccupato di spegnere il fuoco. Bisbigliando azzardò un cenno a Jarod che si affrettò a spegnere i fornelli sotto lo sguardo critico di Miss Parker a cui non importava nulla della cena.
«Ah! - sobbalzò improvvisamente - Sydney e Broots! Ma certo, quei cecchini non stavano cercando, ma vigilando, proteggendo qualcosa!»
«Sydney e Broots?! Chi sono? Altri bambini?» chiese timidamente Michelle.
«No, - le spiegò Jarod versando nei piatti la minestra col mestolo - sono due collaboratori di Miss Parker.»
«Lavorano per il Centro?»
«Si.»
«Ma certo! Lì nei dintorni ci devono essere Sydney e Broots! E non cercavano noi, ci stavano solo tenendo lontani.»
Jarod approvò la sua intuizione, dopotutto era plausibile anche se un po’ azzardata.
Miss Parker uscì dalla stanza e trovò Mikey davanti a lei con le braccia tese e i palmi aperti, Adam lo imitava, in attesa di qualcosa. Li squadrò per qualche istante, poi incrociò le braccia sul petto ed inarcò le sopracciglia. Mikey si guardò le mani, poi disse debolmente: «Ci siamo lavati le mani, guarda.»
«Oh si, davvero perfetto.» rispose acidamente andandosene.
«Credi di poterti fidare di lei?» chiese Michelle.
«Credo di si, in fondo è fuggita dal Centro e dai suoi sicari con me, non vedo perché dovrebbe rischiare di farsi uccidere.» le rispose Jarod.
Michelle terminò di sistemare i piatti in tavola e chiamò i bambini.
«Non so, Jarod, è molto fredda e… se devo essere sincera quella donna mi fa un po’ paura.»
Jarod sorrise.
La prima volta che aveva incontrato Miss Parker era stata al Centro, quando entrambi erano ancora bambini. Crescendo aveva imparato a conoscerla e, anche se era molto cambiata nel corso degli anni, Jarod non poteva non pensare che in fondo avesse solo dimenticato la sua dolcezza al Centro, senza mai perderla. Certamente Miss Parker non era cattiva, non c’era cattiveria nelle sue azioni. La sua vita sino a quel momento era stata difficile e la prospettiva che la situazione rimanesse tale non era facile da sopportare.
«Miss Parker è molte cose, ma non è senza cuore.»
L’aria fresca della sera le accarezzava timidamente il viso e il pungente odore dei pini le attraversava l’anima. Quell’ebbrezza la faceva sentire carica di forza e determinazione. A braccia conserte in piedi rimase per qualche istante ferma nella penombra del crepuscolo, ad ammirare lo splendido paesaggio del bosco che si stendeva sulla vallata nel retro del motel. Poteva chiaramente sentire l’adrenalina scorrerle nelle vene come un brivido elettrizzante ad ogni respiro.
Chiuse gli occhi e le parve di cadere in un vortice; li riaprì. Inspirò profondamente di nuovo socchiuse gli occhi, ma di nuovo quella sensazione di vuoto si impadronì di lei, lasciandola senza fiato. Ora le girava la testa, le facevano male gli occhi e il sangue nelle vene scorreva più velocemente. Con lo sguardo severo rivolto al tramonto di una estenuante giornata Miss Parker si chiese come sarebbe stato il domani. Avrebbe dovuto fuggire per sempre dai cecchini del Centro? Avrebbe continuamente rischiato la propria vita per la libertà, come Jarod? Che cosa ne era stato di Sydney e Broots? E che cosa ne sarebbe stato del bambino, di Adam? Ponendosi tali domande il suo mal di testa aumentò. Avrebbe voluto chiamare suo padre, magari avrebbe chiarito tutto, ma… era troppo rischioso.
L’odore dei pini ebbe la meglio e quell’attimo di frenesia la rese ebbra al punto che vacillò reggendosi a stento sulle gambe, e quando quella intensa sensazione si dileguò improvvisamente non le restò se non il nulla. La desolante solitudine di quel posto e il flusso dei suoi incerti pensieri fu interrotto: «Miss Parker.»
Si voltò di scatto. Troppo in fretta forse per il suo equilibrio compromesso e la sua ormai fragile stabilità. Dovette fare un passo indietro per non cadere. Jarod le tese una mano che lei prontamente scostò fulminandolo con uno sguardo più freddo del ghiaccio.
«Non vieni a mangiare qualcosa?»
Ancora infastidita dal suo evidente mancamento Miss Parker scosse la testa lievemente indietreggiando.
«Sei pallida.»
«…» non lo guardò.
Jarod le passò una mano delicatamente tra i capelli neri, scostando il ciuffo. Lei si ritrasse, troppo tardi.
«Ti è tornata la febbre!»
«No!»
«Vieni dentro.» le ordinò.
Rimase immobile a fissare la distesa delle cime degli alberi che si ergevano a perdita d’occhio nella valle sotto il pendio. Gli occhi lucidi, si sentiva svenire, se solo avesse azzardato un passo era sicura che le sue gambe non avrebbero retto.
Jarod la prese in braccio.

Broots e Sydney si trovavano ora in celle contigue, separate da una parete di sbarre.
Broots se ne stava chiuso nelle spalle avvolto in un panno e rannicchiato sulla sua branda accanto al muro, ancora tremolante per lo spavento.
Sydney sedeva a braccia conserte sempre pensieroso.
Nessuno dei due sapeva dove si trovava e se ne sarebbe uscito.
Broots, rimasto solo nella puzzolente stanzetta delle torture, aveva preso il computer accanto a lui sul carrello e con fatica aveva scritto e spedito un’e-mail all’indirizzo “Refuge”, ovvero “Rifugio”: la posta elettronica che utilizzavano Sydney e Jarod. Sperava così che Jarod o Miss Parker in qualche modo li avrebbe rintracciati e fosse venuto a liberarli dallo sguardo vigile e minaccioso degli spazzini fuori della porta. A dire il vero non sapeva nemmeno lui dove si trovasse in realtà, ma nel messaggio aveva indicato alcuni particolari che avrebbero potuto aiutarli a rintracciarli, come il rumore di un fiume che aveva sentito distintamente mentre erano sul furgone, il fatto che dovesse essere una struttura abbastanza grande e che si estendeva anche nel sottosuolo a un’ora circa di viaggio in macchina dal luogo in cui erano stati prelevati; sempre che non avessero fatto deviazioni per disorientarli.
Comunque il messaggio era stato inviato. Ora Broots contava su Jarod e Miss Parker, sempre che fossero ancora vivi.
In fondo al corridoio si aperse una porta e il carrello col computer venne spinto all’interno da uno spazzino di Raines. Si fermò di fronte alla cella di Broots e con voce roca gli ordinò di controllare che cosa conteneva il dischetto che Jarod aveva consegnato loro. Una squadra di impiegati aveva tentato inutilmente fino a quel momento di aprire il file ma senza successo. Broots si avvicinò lentamente e timidamente infilò le braccia tra le sbarre. Il file necessitava di una password nascosta, ma non era inaccessibile e in pochi minuti Broots lo aprì. Il suo aiuto era davvero prezioso, comunque pensasse Lyle. Una volta aperto, il file lanciò un programma e una traccia audio con la registrazione della voce di Jarod: «Salve! Spero che non vi arrabbierete troppo se salvo un bambino dalle vostre torture mentali, ma ho altri progetti per lui. Ora, il programma che si è lanciato all’apertura del file è un virus ideato da me. Scommetto che vi dispiace non avermi dalla vostra parte! Comunque, il virus attaccherà principalmente il programma di sicurezza del Centro, dopodiché passerà alla distruzione dei dati e se ci arriverà manderà in tilt il vostro computer centrale. Buona fortuna!» Broots rimase a fissare lo schermo senza parole. E ora? Lo spazzino sgranò gli occhi e si mise a gridare: «Fermalo! Brutto idiota, fa qualcosa!» Broots non sapeva che fare il terminale si era oscurato, evidentemente il virus aveva già iniziato la sua opera estromettendo tutti i computer collegati al Centro ed impedirlo era davvero impossibile senza un accesso al computer del Centro, che era appena stato disconnesso dalla rete. Jarod era davvero un genio.

Miss Parker era distesa sul letto con aria avvilita. La sudorazione era intensa e non riusciva a mettere a fuoco la vista. L’unica cosa di cui era certa era la presenza di Jarod nella stanza: la sua colonia la inebriava come l’odore dei pini. Avrebbe voluto parlare ma le parole le si strozzavano in gola. Non era una piacevole sensazione.
«Jarod, - chiamò Michelle affacciandosi alla porta della stanza - il tuo computer in cucina lampeggia. Che cosa significa?»
Jarod alzò lo sguardo dalla cartina che stava consultando nell’intento di individuare il luogo in cui Sydney e Broots potevano essere prigionieri. Pensò per qualche istante. «È arrivata un’e-mail.»
Michelle rimase sola con Miss Parker nella stanza. Timidamente si guardò intorno e si avvicinò al letto cercando di capire se la ragazza stesse dormendo oppure no. Miss Parker si scostò una ciocca dal viso infastidita e Michelle si ritrasse improvvisamente.
«Vuoi un po’ d’acqua?» fece sorridendo mesta.
Miss Parker agitò una mano nella sua direzione e mormorò qualcosa.
«Come?!»
«Dov’è… - ripeté sforzandosi - …»
«Jarod?! È in cucina ha ricevuto un’e-mail. Adam e Mikey sono qui fuori che giocano. Aspetta… - si avvicinò di nuovo e le rinfrescò il viso con un fazzoletto bagnato - Jarod dice che è necessario abbassare la temperatura.»
Strizzando gli occhi Miss Parker si voltò dall’altra parte.
«Jarod mi ha parlato molto di te, sai?»
Miss Parker sospirò e le rivolse uno sguardo che parlava da solo: “Ma davvero?! Sentiamo un po’!”
Michelle sorrise: «Si, quando è stato qui la prima volta. Credo che lui ti stimi molto, ma che non voglia dirtelo apertamente. - mestamente inclinò la testa e chiuse gli occhi per un istante - Jarod è un uomo magnifico, sei davvero fortunata ad averlo incontrato; riesce a far sentire le persone importanti, non trovi?! È una di quelle persone che è raro trovare sul tuo cammino, e io… bhè, se non fosse stato per Jarod credo che Mikey non sarebbe qui ora, io gli devo molto, e farò il possibile per aiutarlo, come lui ha aiutato me.» si tacque soprappensiero. Miss Parker la guardava febbricitante. Ormai la voce angelica della negretta assomigliava molto più ad un’eco lontana, ma percepiva ciononostante il senso languido e malinconico di quelle parole quasi sussurrate, ed il tepore del corpo di Michelle la fece rabbrividire.
In quel mentre Jarod rientrò di corsa: «Broots mi ha inviato un’e-mail! - gridò - Avevi ragione Miss Parker, sono più o meno là dove ci hanno assaliti.»
Miss Parker tossì faticosamente tentando di alzarsi sui gomiti, ma era talmente debole che non poté neppure sollevare la testa dal cuscino.
«Michelle, che cosa c’è in questa zona abbastanza grande da poter nascondere un laboratorio, o qualcosa del genere?» le chiese porgendole la carta stradale che aveva consultato sino a poco prima. Michelle osservò attentamente: «Non so, qui dovrebbe esserci una fattoria abbandonata, ma dubito che nascondano qualcosa lì dentro, ma… forse qui: la vecchia cartiera è in disuso da anni ed è una struttura abbastanza grande.»
Jarod segnò il punto sulla mappa. Una vecchia cartiera…
Jarod le si avvicinò e le chiese a bassa voce: «Michelle, ho bisogno del tuo aiuto: prepara una borsa con un paio di vestiti, prendi dell’acqua fresca e porta Miss Parker all’ospedale più vicino. Registrala sotto un nome falso, inventalo, poi aspetta lì finché non sarò tornato con Sydney e Broots. Ok!? … - Michelle asserì colla testa e lo guardò dritto negli occhi con sguardo preoccupato; Jarod strinse le labbra e per tranquillizzarla ripeté: - Tornerò presto, vedrai, è una promessa.»
Michelle sapeva che le promesse di Jarod venivano regolarmente mantenute e voltò il viso sull’esile figura di Miss Parker che si agitava tra le coperte.
«Porta sempre con te Adam e Mikey, mi raccomando, non perderli mai d’occhio. Conto su di te.» aggiunse.
«Va bene.»
Michelle si ritirò al piano di sopra e Jarod si sedette accanto a Miss Parker.
«Jarod… - bisbigliò - che cosa hai in mente di fare?»
«Ancora non lo so, ma a qualcosa penserò. Il dischetto che ho dato agli spazzini di Raines conteneva un virus, se lo hanno portato a Broots a quest’ora avrà già cominciato ad agire, pensavo di usarlo per inserirmi di nuovo nel loro computer, ma ci sarà più utile del previsto, ora.»
Miss Parker si strofinò gli occhi con il palmo della mano.
«Ho già chiesto a Michelle di portarti all’ospedale, vedrai che con una flebo d’antibiotico e un paio di giorni di riposo ti sentirai meglio.»
Adam si tirò faticosamente sul letto e camminando a gattoni raggiunse Miss Parker.
«Non voglio andare in ospedale!»
«Non puoi fare niente in queste condizioni e questi continui sbalzi di temperatura non fanno di certo bene al tuo fisico, mi sarà più utile saperti in un posto sicuro che con me.»
«Non dire idiozie, non puoi farcela da solo! Dammi quella roba rossa che mi hai fatto bere stamattina, ha funzionato!»
«No! Ora tu vai in ospedale con Michelle e i bambini, e guai a te se non ti trovo in perfetta salute quando ritorno.»
Adam si accoccolò sul cuscino di Miss Parker e si mise a giocare con i suoi capelli. Jarod le sentì la fronte bollente e sospirò impaziente.
«Non mi piace Michelle, non mi fido di lei.»
«Cosa?! E perché?»
«Fa troppe domande e non… non mi piace come mi guarda! Potrebbe anche lavorare per il Centro, in fondo cosa ne sappiamo noi!»
Jarod rise, ricordandosi della conversazione che aveva avuto con Michelle prima di cena a proposito di Miss Parker. «Non temere, è un’amica.» concluse.
Lei scostò nervosamente le manine di Adam che le attorcigliavano i capelli neri. Forse Jarod aveva ragione, ma non le andava di essere accudita da quella donna. Si sentiva pateticamente inerme.
«Da bravo Adam, lascia stare Miss Parker.» Jarod lo prese in braccio e lo posò a terra mentre Adam salutava con la mano Miss Parker. Lei sorrise amaramente.
«Che cosa ne sarà di lui, ora?»
«Per ora è affidato alle tue “amorevoli” cure finché non torno… mi raccomando.»
Miss Parker sorrise di nuovo, ma senza convinzione e tossì debolmente un paio di volte: «Non ci posso credere, che cosa diavolo mi sta succedendo: la febbre deve avermi fatto impazzire. Fare da mammina ad un moccioso che ho salvato dal Centro!… E pensare che il mio compito è di riportartici… Come ho potuto scappare insieme a te! Avrei dovuto consegnarti a loro invece di aiutarti a fuggire!» strizzò gli occhi, le girava la testa.
«Ma ci stavano sparando addosso.» obiettò.
«Non avresti dovuto trascinarmi con te!» fece lei.
«Non avresti dovuto inseguirmi.»
«E tu non avresti dovuto fuggire dal Centro!» replicò spazientita.
«Non avrei mai dovuto nemmeno mettere piede al Centro!» la zittì.
Miss Parker si tacque fissandolo negli occhi. Il suo dolce sguardo era pieno di triste consapevolezza.
«Come avete fatto a rintracciarmi, in mezzo al bosco, ieri?» chiese Jarod.
«Angelo. - rispose Miss Parker sospirando - Ci ha segnalato un ritaglio di giornale che riportava la notizia di un salvataggio nel bosco di un bambino da parte di un forestiero. Ho pensato di venire a controllare.»
Jarod strinse le labbra maledicendo tra sé i giornalisti.
«Angelo… non vi avrebbe mai mostrato quell’articolo perché voi mi catturaste.»
«Che vuoi dire?»
«Forse lo ha fatto perché sapeva che il Centro voleva uccidermi.»
«E io?! Che cosa avrei dovuto fare, io?! Salvarti?!» commentò scetticamente.
Jarod sbatté le palpebre scacciando un raggio di sole infiltrato tra le tende.
«È proprio quello che hai fatto.» rispose quasi sussurrando.
Miss Parker spostò il suo sguardo sul bambino che la guardava con occhi verdi curiosi e vispi.
«Sai, credo che lui si sia già affezionato: mentre dormivi si è seduto qui accanto e mi ha chiesto che cosa avevi; ti ha anche lasciato il suo pupazzetto sotto le coperte per aiutarti a guarire.» Miss Parker tirò fuori un coniglietto bianco spelacchiato che il bambino si era portato dietro dall’orfanotrofio.
«Perfetto.» commentò in tono acido. Chiuse gli occhi stanchi stropicciando le lenzuola.
Jarod contemplò il pezzo di cielo che si riusciva a scorgere dalla finestra; le nubi si stavano diradando, sarebbe stata una notte serena, forse, e l’indomani una giornata impegnativa. Meglio agire in fretta, prima che il Centro corresse ai ripari.

«Non c’è niente da fare, non funziona più nulla, telecamere, sistema antincendio, cancelli elettrici, interfono, niente…»
«Non è possibile! Riprova!» ordinò lo spazzino puntandogli la pistola alla testa.
«Ma non so cosa fare, il computer è andato, si è come bloccato, non posso fare niente!» cercò di giustificarsi Broots alzando le spalle.
«Che cosa sta succedendo?» tuonò una voce rauca e minacciosa avvicinandosi con un cigolio.
«Bhè, ecco, si tratta del dischetto che vi ha consegnato Jarod. - spiegò - Dunque, io non sapevo che fosse un virus, e… mi hanno chiesto di aprire il file e…» cercando le parole più adatte Broots si impappinò e balbettò involontariamente.
«Ripari a questo imperdonabile errore signor Broots!» ordinò Raines perentorio. Voltandosi lentamente squadrò Sydney che sorrideva sornione senza farsi notare troppo.
«Che altri scherzetti ci ha preparato il tuo pupillo, Syd?»
«Non saprei, Jarod è davvero imprevedibile.» rispose con quel suo mezzo sorriso sulle labbra Sydney.
Raines si voltò. Il suo spettro si trascinava per i corridoi del Centro da quasi tutta la vita, quei corridoi erano diventati casa sua e si sentiva Dracula nella sua bara: perfettamente a suo agio; ma ora, tra le spesse mura di una cartiera abbandonata era diverso; Sydney osservò la sua sagoma agghiacciante sparire nell’ombra di quel tetro magazzino, scivolare scricchiolando verso una tana più sicura. Si sentiva vulnerabile, ne era certo.
«Non cantare vittoria Sydney, non hai ancora visto di che cosa sono capace.» mormorò chiudendosi la porta di ferro alle spalle con un pesante frastuono.

La foschia mattutina si stava gravemente infiltrando tra gli alberi svettanti. La tensione di quelle ultime ore stava via via raggiungendo il suo culmine. Dipendeva tutto da lui. Si era alzato un po’ di vento e gli aghi e le foglie si sollevavano da terra volteggiando lentamente sopra la sua ombra. Jarod si incamminò velocemente in mezzo al bosco in direzione ovest, parallelamente alla strada statale costeggiando il fiume, armato di una torcia elettrica, del suo portatile e della pistola di Miss Parker. La visibilità era poca, ma non sarebbe stato un viaggio molto lungo, giusto un paio di miglia.
Se l’intuizione di Miss Parker fosse stata giusta Broots e Sydney non erano lontani. Sperava che stessero bene. Il Centro aveva tentato di ammazzare lui, perché con loro avrebbe dovuto essere più clemente?! Pensò che se davvero quella cartiera abbandonata era un laboratorio segreto di Raines da quelle parti avrebbe dovuto essere pieno di cecchini, specialmente dopo lo scherzetto del virus.
Scorse in lontananza la sagoma nera e massiccia dell’edificio che si ergeva tra gli alberi a una ventina di metri di distanza dalla strada statale; un posto riparato dalle attenzioni dei passanti, che non dovevano essere molti comunque. Jarod spense la torcia e si fece largo tra i rami dei pini a tentoni. A quest’ora Miss Parker e Michelle dovevano aver raggiunto l’ospedale.
Con il binocolo sbirciò lungo il perimetro: tre cecchini armati di mitra e in assetto da combattimento passeggiavano burberi accanto al cancello e a turno facevano il giro della recinzione. Aspettavano lui. Riconobbe Willy, lo spazzino di Raines che aveva sparato a Miss Parker tentando di colpire il padre, e Sam, lo spazzino di Miss Parker. Il terzo non lo conosceva. Si avvicinò ancora un po’ e aspettò. Il perimetro della cancellata esterna era controllato da tre spazzini su ogni lato, ciò significava che Broots aveva aperto il file e lanciato il virus. Jarod aprì il suo portatile e digitò qualcosa. E attese.
La sirena scattò pochi secondi dopo, alzando il suo lamento al cielo nero e singhiozzando una luce rossa irradiò il cortile d’entrata ed i corridoi dell’edificio. Jarod sorrise sornione. I tre spazzini si posizionarono intorno alla recinzione guardinghi, pistola in pugno. Willy fece cenno silenzioso agli altri due di controllare in giro.
«Che cos’è, Sydney?» fece allarmato Broots scattando in piedi al primo lamento della sirena.
«Jarod.»
Lo spazzino accanto alle celle afferrò la sua arma pronto ad utilizzarla sul simulatore e chiese istruzioni via radio. “Sparate a vista” fu la risposta.
Raines ansimò nei tubicini che gli occupavano le narici. Cominciava la battaglia, anche se questa volta era sicuro di vincere. Doveva, a tutti i costi o il Triumvirato gli avrebbe sottratto la paternità dell’operazione, e questo significava perdere ogni potere di controllo sugli esperimenti futuri del Centro. Jarod non aveva scampo. Stavolta aveva pensato a tutto.
«Voglio che lo prendiate, sono stato chiaro!?» sibilò alla radio.
Jarod scese silenziosamente il pendio e sottraendosi rapidamente alla luce dei fari si avvicinò alla recinzione.
Raines rimase immobile in piedi nella stanza della sorveglianza, lo sguardo fisso sul monitor spento, sembrava una statua di sale, la pelle raggrinzita e gli occhi infossati rispecchiavano l’aspetto demoniaco del suo carattere. Ma nonostante la sua impassibile figura il suo nervosismo aumentava di minuto in minuto. Infilò la mano nella tasca della giacca nera e prese fuori un pacchetto di sigarette già parzialmente consumato. Uno degli spazzini che lo attorniavano gli porse l’accendino. Il primo tiro diede seguito ad una serie di spasmi polmonari che fecero contrarre l’uomo come fosse epilettico. Ripresosi, Raines inspirò più profondamente dai tubicini e ripeté.
«Questa roba mi ucciderà Grey.» ansimò tossendo soddisfatto.
«Sempre che prima non ti uccida io!»
Raines ed i tre spazzini si voltarono improvvisamente.
«Jarod! Come hai fatto ad arrivare fin qui?» rantolò Raines gettando la sigaretta ai sui piedi e schiacciandola con piacere perverso.
«Non lo immagini? Mi deludi.»
I tre spazzini estrassero le loro armi automatiche e uno di loro prese in mano la radio per richiedere rinforzi.
«Ah, se stai cercando Willy e gli altri… mi spiace ma credo che non siano in condizioni di risponderti ora.»
«Che cosa ne hai fatto?»
«Io?! Io non ho fatto nulla, hanno fatto tutto da soli. - commentò sorridendo e ripensando ai tre uomini ammanettati tra loro con le loro stesse manette - Non vi pare strano che servano tante persone per uccidere un uomo solo?»
«Infatti, ne basta una sola!» fece uno degli spazzini alzando la pistola.
«Ah-ah, attenzione, non è così facile…»
Lo spazzino si fermò. Jarod sospirò divertito e con una fulminea mossa gli sottrasse la pistola dalle mani colpendolo ai polsi. L’uomo gridò e gli altri spazzini alzarono le armi di riflesso in difesa.
«Sparategli!» gridò Raines indietreggiando.
Ma Jarod era già sparito oltre la porta che si chiuse alle sue spalle.
«Maledetto… prendetelo!»
Gli uomini in nero gli corsero appresso, ma la porta era bloccata: Jarod li aveva intrappolati.
Sydney aspettava pazientemente nella sua cella con un mezzo sorriso stampato in faccia guardando divertito lo spazzino di guardia che girava su sé stesso guardingo, pistola in pugno e radio nell’altra mano. Broots era sempre più sconvolto, gli occhi sbarrati e l’espressione atterrita, se ne stava tremante con le mani strette alle sbarre della sua cella.
«Signor Raines, qui è tutto normale, passo.»
«Assicurati che i due prigionieri non fuggano. - ordinò dalla sala di controllo - Danny, dammi la situazione.»
Danny non rispose. «Ripeto, Danny, dammi la situazione!» gridò spazientito al microfono della radio sibilando.
«Scusalo, ma ora ha da fare. - ridacchiò Jarod all’altro capo del microfono - Passo e chiudo!» scherzò.
Raines era su tutte le furie: «È nel settore otto, ha neutralizzato Danny! Prendetelo, vivo o morto!» sentenziò.

Scese i pochi gradini che precedevano la porta con passo felpato, stringendo saldamente la sua pistola. Seguiva le grida. Quei lamenti erano terrificanti, atrocemente pietrificanti. Un brivido scosse la sua schiena mentre tendeva una mano alla maniglia in ferro della porta. Era spessa, ma ciononostante i lamenti di dolore laceravano i suoi timpani e la sua coscienza. Si sentiva responsabile, anche se non si rendeva ancora conto per che cosa. Lentamente afferrò la maniglia e la spinse, uno spiffero gelato la investì e l’odore del sangue le invase le narici. Chiuse gli occhi schifata. Un altro brivido la fece vacillare, riaprì gli occhi e spinse la porta. Entrò.
«Jarod… Jarod!» mormorò rigirandosi nel letto.
Michelle le si fece accanto e le carezzò una guancia per svegliarla: «Miss Parker… era solo un sogno.» disse dolcemente guardandola in viso.
Miss Parker si guardò intorno sbattendo le palpebre e cercando di mettere a fuoco l’immagine di una minuscola stanzetta dall’aspetto asettico e pulito: niente quadri, niente colori, niente luce, solo un letto vuoto accanto al suo e due sedie di plastica all’apparenza scomode.
«Dove siamo?»
«Saint Catherine’s Memorial Hospital di Whitehall, Montana.» rispose.
Miss Parker gemette ricordandosi la dolorosa esperienza di quegli ultimi due giorni. Lentamente i suoi occhi si abituarono al buio.
«Devi essere molto legata a Jarod, se chiedi di lui anche nel sonno.» commentò Michelle ridacchiando.
«Non sono legata a Jarod in nessun modo!» sbraitò più sveglia di prima.
«Ora so che ti stai davvero rimettendo: questa è la Miss Parker che ho conosciuto.»
«Tu non mi conosci affatto!»
Michelle sorrise bonariamente. Il leggero colorito che già cominciava a dipingersi sulle gote della donna la faceva apparire molto meno fragile di quanto le era sembrata prima. «Lui mi ha molto parlato di te, te l’ho già detto, no?! Io non volevo farti arrabbiare, credimi.»
Miss Parker strinse le labbra e sussurrò minacciosamente: «Ma tu non mi hai ancora vista arrabbiata.»
«Miss Parker sta male?» chiese una vocina dal pavimento.
Si sporse oltre la sponda del letto e vide Adam che se ne stava seduto su di un tappeto con il coniglio bianco e Mikey, e la guardava curioso.
«No, Adam, ora sta già meglio.»
«Io… Ahm, … ho avuto un incubo, tutto qui.» confermò.
«Ah! Ricordati Miss Parker, tu ora ti chiami Catherine.» le bisbigliò all’orecchio Michelle.
«Cosa?!» gridò.
La ragazza sembrò imbarazzata, si ritrasse timidamente e balbettò in segno di scusa: «Bhè, io non ho molta immaginazione, e quando ho dovuto registrarti con un falso nome ho visto quello dell’ospedale e… non ti piace?»
Miss Parker arrossì violentemente. Era imbarazzante sentirsi chiamare col nome di sua madre; era così strano come tutti le dicessero che era proprio uguale a lei. Rimase in silenzio per qualche istante nel ricordo della sua mamma scomparsa e si sentì le lacrime salire agli occhi. Si scrollò improvvisamente quell’immagine dalla mente e riprese: «No, va bene.» In realtà pensò che l’averla registrata sotto il nome di Catherine Parker avrebbe sicuramente aiutato il Centro a rintracciarla, se lo avesse voluto.
Michelle le prese una mano tra le sue, era calda e rassicurante.
«Il dottore assicura che starai molto meglio dopo qualche giorno di riposo, ma vorrebbe tenerti in osservazione in ospedale per via dell’ulcera, potrebbero sorgere complicazioni.»
Miss Parker rimase sdraiata a letto per qualche secondo senza dire nulla, poi improvvisamente si alzò a sedere e si strappò i tubi della flebo che aveva attaccati alle braccia e subito cominciò a sanguinare.
«Ma che fai?»
«Devo andare da Jarod.» rispose tranquillamente tastandosi la testa fasciata.
Michelle le afferrò il polso tenendola seduta. Miss Parker si voltò di scatto e la fissò negli occhi con uno sguardo gelido.
«Sei impazzita, che cosa vorresti fare?!» insisté strattonandola.
Miss Parker si liberò dalla presa e scese dal letto. Michelle le si parò davanti.
«Non puoi uscire, non stai ancora bene!»
«Me ne infischio, Jarod si farà ammazzare! Devo andare da lui.»
«No! - gridò - Non devi! Jarod mi ha chiesto di tenerti qui e io farò esattamente come ha detto.»
«Ma chi sei tu, il suo cagnolino?»
Michelle imbarazzata fece un passo indietro e distolse lo sguardo. «S… smettila! - balbettò - Stai spaventando i bambini.»
Lei si voltò e posò l’attenzione su Adam e Mikey che si erano nel frattempo andati a sedere accanto alla finestra e assistevano alla scena con attenzione. Fuori c’era vento e le pesanti persiane nere sbattevano con violenza, lasciando a tratti intravedere come un lampo le fronde degli alberi nel cortile agitarsi e frusciare contro il muro dell’imponente edificio.
«Io mi fido di Jarod. Mi ha promesso che tornerà!»
«E Jarod mantiene sempre le promesse, non è vero?!»
Michelle tentennò, non capiva l’assurda ostinazione di Miss Parker: «Certamente. Miss Parker, se non ti fiderai di lui non potrà mai aiutarti!»
Lei sospirò spazientita e scosse la testa.
«Credimi! - Michelle le prese di nuovo il polso e la spinse indietro verso il letto - Se Mikey è qui con me è unicamente merito di Jarod.»
«Smettila con questa commedia! Non ti sopporto! - gridò - Piantala di fare l’innocentina!»
«Ma che dici?!» balbettò Michelle.
«Tira fuori le unghie invece di appoggiarti a Jarod come una stupida, ho visto come lo guardi, ti sei innamorata di lui!» fece in tono tagliente.
Michelle sbarrò gli occhi sorpresa: «Allora è questo…?»
«Questo cosa!?» scattò Miss Parker.
«È gelosia! Sei gelosa, è per questo che mi odi tanto!»
Miss Parker impallidì, avvicinò il suo viso a quello di Michelle e con uno sguardo più freddo del ghiaccio, tagliente e arrogante, le sibilò: «Non dire sciocchezze ragazzina.»
«Ti prego… ti prego aspetta. Jarod tornerà! Me lo ha promesso e io gli credo!»
Miss Parker si guardò le braccia: due rivoli di sangue sgorgavano dai buchi degli aghi delle flebo. Alcune gocce erano già cadute a terra e aveva sporcato il camice bianco e azzurro dell’ospedale. “Ma che diavolo ci faccio qui?” si chiese. Strinse le labbra e tornò a sedersi sul letto.
«Si era perso nel bosco, non è vero?»
«… »
«Tuo figlio Mikey.»
«Già. Una sera è uscito in cortile a giocare; non era la prima volta, quando ho guardato fuori e non l’ho visto ho pensato che fosse andato sull’amaca nel retro, ma venti minuti dopo sono uscita e… e il mio bambino non c’era più. - singhiozzò - Jarod era un cliente del motel… - riprese - … lui e Mikey avevano fatto amicizia. Jarod si offerse di organizzare le ricerche, ma dopo tre giorni non c’era alcuna traccia di Mikey. Ero disperata! E Jarod mi consolò assicurandomi che sarebbe andato tutto bene, e che se avessi avuto fiducia in lui sarebbe riuscito a trovare il mio bambino sano e salvo. Il giorno dopo Jarod e la sua squadra tornarono con Mikey… - Michelle prese in braccio il figlio e lo coccolò con tanti baci - Devi fidarti di Jarod.»
Adam li osservava inespressivo, ma le sue manine strette alla pelliccia consumata del coniglio fecero sentire Miss Parker terribilmente in colpa per non averlo affatto considerato.
Doveva fare qualcosa per porre fine a tutta quella storia, impedire a Raines di fare una strage e liberarsi del Centro una volta per tutte: doveva chiamare suo padre.

«Siamo al settore otto…» annunciò un uomo in nero correndo per il corridoio buio seguito da altri sei spazzini.
«Sparategli, non deve uscire vivo da qui, intesi!?» gridò Raines alla radio.
«Signore, qui non c’è.»
«Trovatelo, era lì un secondo fa, trovatelo!» ripeté spazientito.
Gli spazzini si aggirarono guardinghi agitando le pistole e controllando le stanze del corridoio male illuminato dalla luce intermittente delle sirene che ululavano alla notte nera.
Jarod sorrise loro sornione da dietro l’angolo e sparì nel buio senza che nessuno dei sette uomini si fosse accorto di lui.
Lo spazzino di guardia osservava severo Sydney che aspettava seduto sulla sua branda con fare rilassato, stoico, quasi irritante. Jarod era ancora vivo e non si era dimenticato di loro. Presto sarebbero stati liberi.
Con un preciso colpo alla base del collo Jarod atterrò l’uomo di fronte alle celle prima che lo stesso potesse accorgersene. Emerse dall’ombra come un vendicatore e si chinò a prendere le chiavi dalla tasca della giacca dello spazzino sotto gli occhi increduli di Broots e quelli divertiti di Sydney.
«Che piacere rivederti Jarod! Credevamo fossi morto! Meno male… hai ricevuto l’e-mail?» chiese felice Broots non appena la cella fu aperta.
«Si, ora fuori di qui.» suggerì.
«E Miss Parker?» domandò Sydney.
«È all’ospedale… vi spiegherò più tardi.»
«Già, meglio andarcene da qui.»
«Troppo tardi Sydney.» tuonò una voce dal fondo del corridoio.
«Raines! Come avete fatto a sbloccare le porte?» Jarod si voltò di scatto con la pistola alzata.
Avvicinandosi scricchiolando lentamente la figura arcigna e spiritata si delineò in controluce come la sagoma di un mostro.
«Ora sei tu che mi deludi, Jarod, io credevo che fossi un genio, invece sei solo uno stupido incosciente. Credevi davvero di poter uscire da qui con tanta facilità? Pensavi forse che ti avrei lasciato andare perdendo questa grande occasione?»
Jarod mantenne la mira della sua arma sulla fronte del mostro. Era solo, niente spazzini, a parte l’uomo svenuto a pochi passi di distanza; gli altri erano stati accuratamente neutralizzati e rinchiusi.
«Non ti vergogni, Raines?!»
«Io sto solo facendo il mio lavoro.» ghignò borioso.
Broots era rimasto impietrito accanto a Sydney, impassibile nonostante la sua rabbia crescente.
«Che cosa vuoi ancora Jarod, ormai hai il bambino, no?!»
Jarod scosse la testa. «È stato facile. … che cosa vuoi tu, ora?… non ti permetterò di distruggere la vita di un altro innocente!»
«Già, lo immaginavo.»
Jarod rimase perplesso. Non capiva dove volesse in realtà andare a parare.
«Jarod… - si intromise Sydney - andiamo via.»
Raines lo fissava ancora con quei suoi spiritati occhi grigi a palla. Aveva qualcosa in mente era più che evidente, per non circondarsi di spazzini e non portare nemmeno un’arma con sé.
«Non farò il tuo gioco!»
«Ah, ah! Lo stai già facendo.» replicò l’uomo inspirando profondamente dai tubicini.
Jarod si stava innervosendo era visibile.
«Continua, sono curioso.»
«Jarod andiamocene!»
«Sono d’accordo.» fece Broots guardandosi intorno per cercare una via di fuga.
«Basta giochetti, basta bugie! Sono stufo di te, Raines!»
«Avanti!» sibilò l’uomo.
Jarod fremette di rabbia. Avrebbe voluto ucciderlo.
Le sirene ancora lampeggiavano nella notte, e la luce intermittente pigolava lungo tutti i corridoi dell’edificio.
«Che cosa mi impedisce di ucciderti?!» gridò in preda alla frustrazione.
«Le cose che so di te.» rispose tranquillo Raines.
«…» la rabbia lo fece rabbrividire, si sentì vuoto, di tutto. Non poteva cedere. Non doveva cedere. Non adesso e non lì.
«Pensi ancora di potertene andare?!»
«Non sarei mai entrato senza un piano per uscire.»
Sydney sorrise: Jarod era riuscito a controllarsi ancora una volta.
«E quale sarebbe il tuo piano per uscire, Jarod?»
«… Chiedere permesso!» scherzò.
Raines rimase immobile.
Jarod, Sydney e Broots gli passarono accanto e lo superarono, diretti alla porta che li avrebbe condotti fuori. Raines non tentò nemmeno di trattenerli.
«Se te ne vai ora… ti pentirai di essere mai fuggito dal Centro!» sibilò Raines.
Ma nessuno dei tre si voltò per ascoltare quell’ultima minacciosa constatazione.

L’odore del sangue le punse le narici mentre apriva lentamente la porta. Scese l’ultimo gradino, trovandosi sulla soglia della stanza: un grande ambiente male illuminato. Un laboratorio per simulazioni. Tornò a tendere la sua arma davanti a sé, ispezionando l’aria. Le grida disumane penetravano la sua pelle come lame affilate, scuotendola nell’anima, facendola rabbrividire ad ogni passo, ad ogni grido, ad ogni sguardo. Sapeva che era lì, ma non riusciva a vederlo. Non lo vedeva. Perché? Perché non riusciva a fermarli? Non voleva più sentirlo gridare, era più forte di lei, doveva fermarli, lo avrebbero ucciso, ucciso dal dolore!
La stanza buia sembrava più piccola ancora di quel che in realtà era. Si scrollò le coperte di dosso e rabbrividì. Rigirandosi nel letto si accorse di non essere sola: una piccola palla di pelo morbido era schiacciata sotto il suo braccio sinistro e una presenza calda poco più in là si contorceva tra le lenzuola. Miss Parker si trasse a sedere ed accese l’abat-jour sul comodino alla sua destra: Adam sbadigliava beatamente rannicchiato in un canto del letto, stringendo il coniglietto. Miss Parker rimase a fissarlo cercando di immaginare come quel piccolo esserino avesse fatto ad arrampicarsi sulla sponda, poi pensò che probabilmente doveva aver ottenuto la complicità di Michelle. Si guardò intorno. Non ricordava nemmeno di essersi addormentata, anzi, l’ultima cosa che le era rimasta in mente era la lunga conversazione che aveva avuto con Michelle la sera prima.
Le persiane erano chiuse, ma dalla fessura sbirciava uno spiraglio di luce tenue. Sospirò e si alzò andando ad aprire la finestra. Fu investita da un vento gelido che spazzò via ogni sintomo di sonno dal suo corpo e fece entrare un’atmosfera poco rassicurante nella piccola stanza. Adam mugugnò strofinando gli occhietti vispi contro il cuscino. Miss Parker richiuse la finestra rabbrividendo e si riportò sotto le coperte accanto al bimbo.
Adam la guardò inespressivo.
«Che cosa ci fai tu qui?! Dove sono Michelle e Mikey?»
Il bambino non rispose, ma sbadigliò di nuovo e si fece più stretto a Miss Parker che corrugò la fronte e fece finta di nulla inorridita.
Bussando alla porta entrò un’infermiera con un carrello: «Buongiorno, … - salutò, e guardando sulla cartella medica - … Catherine Parker. Io sono Tess, ecco la colazione.» disse porgendole un vassoio.
Miss Parker osservò la scodella con i cereali e il succo di mela e decise che non aveva fame.
«Come si sente, oggi? - continuò l’infermiera bionda ossigenata andando ad aprire la finestra. Una folata di vento l’investì e lei inspirò profondamente: - Oh, che splendida giornata, non le pare?»
Miss Parker la guardò perplessa, ma la donna non se ne accorse nemmeno, concentrata com’era sulla vista del parco che circondava la clinica: «Una splendida giornata di sole, ci voleva proprio!» sentenziò, lasciando a Miss Parker una smorfia di incomprensione sul volto. In effetti, il pallido e singolo raggio di luce che penetrava a fatica nella stanzetta asettica era molto differente dalle belle giornate soleggiate e calde di Blue Cove.
«A dire il vero ho un tremendo mal di testa, - fece Miss Parker massaggiandosi le tempie - non potrebbe portarmi un’aspirina?»
«Un’aspirina?! Prima deve mangiare tutto quello che vede sul vassoio, e poi chiederò al dottore.» rispose bonariamente.
Miss Parker la guardò storto, ma si accinse anche se riluttante a mangiare qualcosa.
L’infermiera uscì canticchiando per proseguire il suo giro di distribuzione e Adam e Miss Parker rimasero soli con la finestra spalancata. Adam rabbrividì. Lei si voltò a guardarlo con aria rassegnata e si alzò di nuovo faticosamente per chiudere la finestra.
«Hai fame? - chiese al bambino - Perché non mi aiuti a mangiare quella roba?»
Adam aveva fame e mangiò quasi tutti i cereali, a Miss Parker toccò il succo di mela, che mandò giù di malavoglia.
Ripensò a Jarod… sperava che stesse bene.
«… Miss Parker…»
Michelle le posò una mano gelida sulla spalla e lei trasalì.
«È la seconda volta che ti chiamo, non mi hai sentita?»
«Ero soprappensiero…»
Michelle era in piedi accanto al letto con la borsa a tracolla e il figlio in braccio, e si accingeva sorridente a starle accanto per un’altra giornata.
«È tornato Jarod?» chiese sottovoce.
Michelle scosse le treccine imbronciata, ma cambiò in fretta la sua espressione e affermò: «Non stare in pena, sono passate solo poche ore, sarà di ritorno quanto prima.»
Adam e Mikey intanto si erano appartati a giocare con le macchinine.
«Il marmocchio è rimasto qui stanotte.» fece Miss Parker seguendo i suoi movimenti con lo sguardo.
Michelle sorrise dolcemente: «Si, ieri sera non è voluto venire via… credo che non volesse lasciarti sola.»
«Che premura!» ironizzò.
«Non dire così: si è molto affezionato a te, molto più che a me… Mi chiedo perché.»
Miss Parker si voltò lentamente verso la donna fissandola con sguardo incredulo e di rimprovero.
«Scusa.» si affrettò a rimediare Michelle sbattendo gli occhi e recuperando una sedia.
«Michelle, devi fare una cosa per me.»
«Cosa?»
«Se hai un telefono cellulare prestamelo.»
«Non ce l’ho. A che cosa ti serve? Chi vuoi chiamare?»
«Mio padre, prima che sia troppo tardi.»
Michelle rimase interdetta: «Oh, no, ti prego, Jarod ha detto…»
«Lo so cosa ha detto Jarod, - la interruppe Miss Parker - ma se non chiarisco questa situazione immediatamente rischiamo di non vederlo più tornare il tuo caro Jarod!»
Michelle ammutolì.
Adam e Mikey si erano voltati a guardare la scena e Miss Parker scocciata sbraitò: «La volete smettere?! Continuate a giocare!»
«Ti prego…»
«Oh, basta! Mi hai proprio scocciata: se non mi vuoi aiutare tu mi aiuterò da sola!» e così dicendo si alzò dal letto e raggiunse il corridoio a grandi passi sbattendo la porta della camera.
Michelle le corse dietro gridando: «Aspetta, ferma, che vuoi fare?! Ragiona! …»
Un’infermiera si girò a guardare la donna che procedeva speditamente lungo la corsia senza sapere che fare. La finta bionda che distribuiva la colazione uscì da una delle camere e le andò dietro gridando: «Ehi! Si fermi, dove ha intenzione di andare scalza!?»
Imperterrita Miss Parker procedette lungo il corridoio sino all’ascensore e spinse il bottone, ma venne raggiunta da Michelle e dall’altra infermiera.
«Aspetta, torna a letto!»
«Ha ragione, non può uscire in camicia da notte e a piedi nudi.»
«Sai quanto me ne frega!»
Michelle le mollò un sonoro schiaffo sulla guancia destra che la fece vacillare. Le porte dell’ascensore si aprirono in quell’istante e Miss Parker indietreggiò involontariamente. Michelle la trattenne per un braccio; i suoi occhi color cioccolato erano spalancati e velati. L’infermiera si avvicinò ad uno degli scaffali in rete metallica che c’erano lungo il corridoio e prese una coperta per la paziente.
Miss Parker non riusciva a parlare, le parole le si strozzavano in gola tanta era la sua incredulità e sorpresa. Non si aspettava un gesto tanto forte da una donna come Michelle; forse la aveva giudicata male: era molto più determinata di quanto non apparisse.
Michelle ora tremava di rabbia: «Non ti permetto di parlare così! Sei solo un’egoista! Che cosa ci sto a fare io qui?! È solo per te! Credi che non sia preoccupata anch’io per Jarod?! - gemette - Io mi faccio in quattro per te, per Adam, per Mikey, e… tu non fai altro che rendere tutto più difficile! - singhiozzò - Stupida!»
Miss Parker non la guardò. Ma si fece riaccompagnare in camera dall’infermiera.
«Perdonami, - mormorò Michelle tirando su col naso - non volevo farti male, ma non sapevo come fermarti.»
«Non preoccuparti. - Miss Parker fissava Adam - … forse non te ne rendi conto, ma quello che hai fatto era molto simile al gesto di un suicida.» fece a denti stretti.
Michelle sorrise debolmente.
«Se davvero vuoi andrò a cercarti un telefono cellulare, ma devi promettermi che non farai sciocchezze, che non metterai in pericolo la tua vita né quella di Jarod, d’accordo?»
Miss Parker annuì.

Si stava ormai facendo sera. Il pallido sole del mattino aveva lasciato posto molto presto a nuvole candide e fredde, come batuffoli gonfi di ghiaccio. Il parco della clinica di Whitehall era spazzato dal vento e le poche foglie rimaste ancora attaccate ai rami planarono a terra danzando.
Jarod, Sydney e Broots entrarono dall’entrata principale diretti all’accettazione per chiedere di Miss Parker.
Mentre l’impiegato controllava sul computer Michelle sopraggiunse con un bicchiere di plastica in una mano ed un giornale nell’altra.
«Jarod! - gridò correndogli incontro - Mio dio! Sono così felice che tu sia qui! Miss Parker…» non riuscì a finire la frase dall’emozione.
Jarod le sorrise e le presentò Sydney e Broots.
«Come sta Miss Parker, meglio?» si informò.
«Si, è molto agitata, non ha fatto altro che contare le ore.»
Jarod sorrise: «E Adam? E Mikey?»
«È tutto a posto, sono in camera, la trecentotto.»
Michelle fece strada. Sydney e Broots entrarono e Miss Parker li guardò trattenendo il respiro: «Ah! Syd, Broots! … Jarod!»
«Ce l’abbiamo fatta.» rise lo psichiatra.
«State tutti bene, vero?!» fece apprensiva.
«Si, ma c’è mancato davvero poco che non ci ammazzassero, se non fosse arrivato Jarod forse ora saremmo sottoterra!» piagnucolò Broots.
Jarod si inginocchiò accanto ad Adam e Mikey e li carezzò sulla testa amorevolmente. Michelle si avvicinò e gli sussurrò mentre gli altri parlavano: «Sai, Adam e Miss Parker sono diventati molto amici.»
Jarod le rivolse uno sguardo interrogativo: quando la aveva lasciata Miss Parker amava i bambini solo quando se ne stavano pacificamente lontani da lei: non sopportava essere infastidita dalla loro ingombrante presenza, dai loro elementari bisogni e dalle loro spiazzanti domande.
«Penso che in un qualche modo Adam stia cercando la figura materna che ha perso… in Miss Parker, anche se non ti so dire perché abbia scelto una donna tanto insensibile.» sbuffò incrociando le braccia sul petto.
Jarod rise e sollevò Adam dal pavimento e lo adagiò ai piedi del letto di Miss Parker, lui gattonò sino alla pancia della donna e vi posò la testa. Lei inorridita scostò le braccia, ma non disse nulla.
Sydney sospirò e Jarod si accorse dell’espressione infelice che lui e Broots avevano assunto: «Abbiamo un nuovo problema - cominciò a dire lo psichiatra - Miss Parker ha telefonato a suo padre…»
«Mr Parker?!» lo interruppe allarmato con uno sguardo di rimprovero nei confronti della ragazza che lo fissava sospirando.
«Già, - proseguì - Mr Parker ha assicurato la sua totale estraneità al progetto, e garantisce la nostra incolumità per i prossimi giorni, richiamerà al Centro le squadre di spazzini di Raines, ma afferma di aver ricevuto una telefonata proprio da Raines questa mattina: … - Jarod annuì invitandolo a continuare - … Raines sostiene di avere nascosta la sorella gemella di Adam: Eve.»
Jarod sbarrò gli occhi.
«Pensi che sia vero? Forse è solo una trappola.»
Sydney sospirò: «Purtroppo credo di no: in quella cartiera abbandonata ho visto una bambina piccola, bionda, credo che si tratti della gemellina.»
«Il file di Adam non diceva nulla in proposito.» intervenne Miss Parker.
«Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo tutto… Lo ha fatto apposta, il bastardo! Lo sapeva! Dannazione!… avrei dovuto capire che nascondeva un asso nella manica per lasciarci andare via così…»
Rimasero tutti in silenzio.
«Jarod… mio padre ha avanzato una proposta.»
L’uomo si voltò a guardarla negli occhi. Miss Parker aveva un’espressione triste, quasi di scusa.
«Sentiamo.»
«Raines rinuncerà alla bambina e ad Adam, per sempre, se tu tornerai al Centro… per sempre.»

Fine prima parte

«Non devi decidere subito, abbiamo ancora dodici ore per pensare a come togliere la bambina a Raines.»
«Non importa, Syd, non c’è molta scelta.»
«Perché dici così?!» intervenne Miss Parker.
Jarod si voltò a guardarla. La sua figura longilinea si stagliava in controluce, inquadrata dal rettangolo della finestra, in una cornice arancione e rossa. Un altro giorno era passato senza che Mr Parker avesse richiamato. Il limite di tempo fissato per la risposta era la mattina del 18 ottobre, lunedì; e lo scambio sarebbe avvenuto il pomeriggio stesso in località neutra ancora da definire. I termini dell’accordo erano chiari: i due gemelli sarebbero stati liberi se Jarod fosse tornato al Centro di sua spontanea volontà, Raines si impegnava ad abbandonare il progetto “Simulatore” ed i bambini, il Centro assicurava il lecito utilizzo delle future simulazioni di Jarod a favore dell’umanità intera e non a scopo di lucro.
«Non sarà così facile come lo è stato per Adam, questa volta non se la faranno sfuggire da sotto il naso… inoltre… non sappiamo nemmeno dove sia, ormai la cartiera sarà stata sgomberata.»
Erano tornati al motel di Michelle; il dottore aveva dimesso Miss Parker con la raccomandazione di stare a riposo e soprattutto di stare lontana dallo stress, prescrizione che ignorò completamente.
Jarod sospirò sedendosi sul letto. Avrebbe dovuto sacrificare la sua vita, ma almeno una bambina sarebbe stata libera.
«Ti rendi conto di che cosa significherebbe per te, Jarod, tornare al Centro?» insistette Sydney.
«Certo, - rispose l’uomo con rammarico - altri anni di torture e sofferenza, non è così?! - il suo tono era acido e sarcasticamente pungente. - Ma sono solo dei bambini! - non aveva fatto altro che dare questa giustificazione alla sua scelta negli ultimi due giorni - Meritano molto di più, e io non intendo sottrarli alla loro infanzia!»
«Non tu, Jarod, ma il Centro!»
«… Sydney…»
«Troveremo una soluzione, non sarai costretto a tornare al Centro.» continuò lo psichiatra andando a sedersi accanto a lui.
Jarod sospirò di nuovo poco convinto.
Miss Parker rimase accanto alla finestra, illuminata dalla luce calda che si affievoliva lentamente coperta dalle cime degli alberi sulla montagna. Proseguì il suo silenzio immobile, osservando il crepuscolo che tingeva la foresta sottostante. Broots e Michelle erano seduti sotto il portico sul davanti e con loro c’erano i bambini. Miss Parker non poteva sentire le loro parole, ma vedeva le loro labbra muoversi, ogni tanto sorridere, i loro occhi parlare da soli.
«Se io tornerò Adam ed Eve potranno condurre una vita normale, Raines ha promesso, questo mi basta.»
«Come puoi fidarti delle parole di quell’uomo?» chiese Sydney polemico.
«Io mi fido di te, Syd, … e so che né tu né Miss Parker permetterete che il progetto “Simulatore” riprenda con nuovi soggetti.» rispose alzando il capo in direzione della donna.
Miss Parker si voltò verso di lui con aria inaspettatamente mesta. Lo guardò con compassione e strinse le labbra. Jarod aveva ragione, il suo lavoro era riportarlo al Centro, preferibilmente vivo, ma c’era qualcosa di personale tra loro due: erano cresciuti insieme, non poteva dimenticarlo, lui era stato l’unica persona alla quale aveva aperto il cuore in quel freddo luogo, dopo la morte di sua madre. Si rese conto che non sarebbe mai stata capace di ucciderlo, sebbene gli avesse sparato molte volte, che aveva veramente avuto paura per lui quella notte, e che non voleva che Jarod soffrisse; voleva che nessuno più soffrisse, compresa lei.
«Inoltre… - il flusso dei suoi pensieri fu interrotto - … inoltre, se tornassi, il Centro ti lascerebbe libera di andartene, Miss Parker.»
Miss Parker scosse la testa e tornò a guardare il tramonto, e poi Broots e Michelle nel portico.
«Una volta al Centro non credo che potrò farti fuggire, Jarod.» disse Sydney alzandosi.
«Non importa, non cercherò più di fuggire.»
«Ne sei sicuro? Non credo che questa sia una…»
«Non ti preoccupare, Syd.»
Sydney sospirò impaziente ed irritato.
«Va bene così, credimi: finché io resterò al Centro, il Centro non avrà bisogno di altri simulatori.» concluse Jarod.

Quella notte Jarod non riuscì a prendere sonno. Rimase in silenzio sdraiato sotto le coperte calde a fissare la finestra. Pensava alla sua libertà rinnegata. Quelle ore sarebbero state le sue ultime ore da uomo libero. Alla fine il Centro aveva vinto.
Si rigirò nel letto a fissare la parete scura, in ombra.
In fondo non poteva dire di essere mai stato veramente libero: aveva sempre avuto qualcuno che lo inseguiva, lo incalzava, gli sbarrava la strada, … erano stati anni davvero incredibili, sempre con la paura di svegliarsi di nuovo in un incubo. Però aveva anche imparato molto sulle persone, sul mondo e su sé stesso. Anche se non era riuscito a ritrovare la sua famiglia ora era sicuro di non essere solo, sapeva che da qualche parte sua madre, suo padre e sua sorella erano ancora vivi, e non lo avevano dimenticato.
Si alzò a sedere e accese la luce. La stanza era vuota, la sua valigetta argentea contenente il lettore dsa era riposta con cura sul comodino accanto al letto; Jarod la prese e la sistemò sulle ginocchia, la aprì e scelse un filmato: 23/07/72.
Un ragazzino dai capelli castani che gli cadevano sugli occhi si trovava nel laboratorio per simulazioni assieme a Sydney ed era intento a leggere alcuni libri di geografia. Si sistemò meglio sulla sedia scomoda e buttò un occhio verso il tutore che non lo perdeva di vista un istante.
«Che cosa c’è, ti vedo inquieto, Jarod.» disse un giovane Sydney.
Il ragazzino tornò a posare gli occhi sul suo libro, seguendo col dito i contorni dell’immagine di una piramide. Poi tornò al suo tutore: «Tu ci sei mai stato in Egitto?»
«No Jarod, ora continua a studiare.»
Il giovane Jarod si alzò dalla sedia con il libro in mano e raggiunse lo psichiatra seduto sui primi gradini di una scala in ferro. Gli porse il libro e lo invitò a guardare le immagini con un gesto dello sguardo: «Tu le hai mai viste queste?» insistette.
«Jarod, non ti stai concentrando a sufficienza. Finisci di studiare e procedi nella simulazione.»
Visibilmente insoddisfatto il ragazzino tornò al suo posto sotto la luce fredda di un riflettore e l’obiettivo di diverse telecamere.
«Credi che un giorno riuscirò a vederle, Syd?»
«Jarod, sono stufo di sentire certi discorsi, ora torna alla simulazione.»
«Sono stanco di fare solo simulazioni, Sydney, io voglio sapere per che cosa faccio tutto questo, perché non posso uscire, perché… ?»
«Jarod, le tue simulazioni servono a salvare molte vite, il tuo lavoro è importantissimo, per questo non puoi perdere tempo!»
«Ma io voglio uscire, voglio vedere il mondo, voglio sapere che cosa c’è là fuori e… e magari andare a visitare le piramidi in Egitto e…»
«Ma non è possibile, Jarod!» lo interruppe lo psichiatra.
«Potrò mai uscire da qui, Sydney?»
Sydney non rispose e lo guardò severamente.
Lo schermo in bianco e nero faceva risaltare poco le sfumature sul suo volto, ma dove prima Jarod aveva letto severità ora si accorse che quell’espressione somigliava molto più a compassione, e forse a dispiacere. Jarod sospirò e si guardò intorno. Le pareti di quella stanza gli impedirono di guardare oltre, ma la sua mente viaggiava attraverso tutti i luoghi nuovi che aveva visitato, le città, le persone che aveva incontrato ed aiutato.
Nessuno di loro avrebbe più dimenticato Jarod: il suo arrivo segnava sempre una svolta.
Jarod non era mai stato in Egitto, non aveva mai visto le piramidi, ma la sua mente conservava comunque molto fresca l’immagine di quei giorni di libertà apparente che gli avevano permesso di essere chiunque avesse voluto, tranne sé stesso.
Chiuse la valigetta e la ripose di nuovo con cura accanto al letto. Tornò a stendersi per qualche minuto, poi si alzò sospirando, si vestì e uscì nel portico. L’aria era fresca, ma non sentì il bisogno di allacciarsi la giacca. Si guardò intorno: non vide nessuno, le luci nelle camere erano spente, persino l’insegna luminosa non lampeggiava. L’unico punto di riferimento era la luna circondata dalle stelle.
Jarod si sedette sul dondolo accanto alla porta della reception e si cullò silenziosamente nell’oscurità immobile.
Quella notte stellata, l’aria fresca e pungente sul viso gli portarono alla memoria il cielo nero, il profumo del mare e tante, tante stelle come non ne aveva mai viste prima, in una notte del 1974, la notte nella quale Miss Parker gli aveva detto che avrebbe lasciato il Centro. Quel giorno stava studiando i moti dei corpi celesti rinchiuso all’interno della cupola di un planetario al sottolivello sedici, circondato da libri, da immagini e da fotografie scattate da satelliti. Invano aveva tentato di convincere Sydney a portarlo fuori per osservare le costellazioni con i propri occhi, il Centro non glielo permetteva. Poi era arrivata Miss Parker.
Jarod gettò un’occhiata alle finestre buie. Forse stava dormendo, o forse era insonne anche lei, avvolta nell’oscurità delle coperte; se anche lei avesse visto quelle stesse stelle probabilmente avrebbe ripensato a quando erano solo ragazzini, quando l’aveva raggiunto nel laboratorio per simulazioni con gli occhi tristi e si era seduta accanto a lui a parlare di niente. O forse di tutto, tutto ciò che passava loro per la mente, senza mai toccare l’argomento per il quale lei era andata a trovarlo, l’argomento del quale non era ancora pronta a parlare. Jarod le aveva chiesto com’era la notte e lei gli aveva raccontato di rumori innocui che improvvisamente diventavano sinistre avvisaglie di agguati, di cieli neri senza luna, di temporali violenti, di ombre maligne e di mostri nascosti nei sogni; ma gli aveva accennato anche di silenziose ninnananne, della voce di sua madre che la tranquillizzava nel buio, di letture notturne, di coperte calde e abbracci materni. L’unica notte che Jarod conosceva era il Centro, avvolto in una perenne oscurità, metri e metri sottoterra, senza mai aprire le porte alla luce del sole.
La aveva vista titubante, tesa, inquieta, ma ancora non capiva il perché; finché Miss Parker lo aveva preso per mano intimandogli di non far rumore, e lo aveva condotto lungo gli immensi corridoi deserti e bui, sino in cima alle scale, fin dove a lui era proibito arrivare, e poi oltre. Oltre la porta.
Jarod non voleva uscire, se li avessero scoperti avrebbero di certo passato grossi guai, ma Miss Parker aveva insistito col sorriso sulle labbra per la sua insicurezza, per la prima volta in quel giorno l’aveva vista più serena, come se non le importasse nulla di essere scoperta. Miss Parker lo aveva portato sul tetto più alto dell’intero edificio, il terrazzo della Torre.
«Io venivo sempre qui con mia madre quando volevamo parlare da sole.» gli aveva detto. Jarod era rimasto a bocca aperta: il cielo era limpidissimo e la luna era solo una falce dorata circondata da miliardi di puntini luminosi, scintillanti, affascinanti. Si erano seduti uno accanto all’altra, in silenzio, ad osservare lo spettacolo del cosmo, col naso all’insù. I loro occhi erano lucidi per l’emozione. «Parlami del cielo, Jarod.» gli aveva chiesto gentilmente. Jarod le aveva mostrato con entusiasmo le costellazioni, indicandole e raccontandole gli aneddoti mitologici che le distinguevano. Si sentivano soli al mondo.
«Questa è la cosa più carina che qualcuno abbia mai fatto per me.» le aveva sussurrato all’orecchio. Miss Parker si era voltata a guardarlo con un sorriso compassionevole e gli aveva risposto: «Questo è davvero molto triste.» Poi si era sdraiata sospirando e aveva aggiunto che almeno entro due ore sarebbero dovuti tornare dentro, purtroppo. L’aria fresca pungeva i loro visi e il profumo del mare e il rumore ritmico della risacca accompagnavano i loro intimi silenzi. Jarod si era sdraiato accanto a lei e ricordò di aver pensato che fosse in vena di coccole, perché Miss Parker si era accoccolata nel suo abbraccio ed aveva chiuso gli occhi prima che una lacrima le scendesse sulla gota. L’aveva sentita piangere sommessamente poco dopo, mentre ascoltava il battito regolare del suo cuore.
«Vuoi rientrare?» le aveva domandato bisbigliando tra i suoi capelli neri, profumavano di cocco; lei aveva fatto cenno di no con la testa e si era asciugata in fretta le lacrime, vergognandosi un poco.
«Vorrei restare così per sempre.» gli aveva confidato. Jarod le aveva sorriso ed erano rimasti così per un’altra oretta, a chiacchierare, finché Miss Parker gli aveva parlato del progetto di suo padre: sarebbe dovuta partire appena due giorni dopo per andare a studiare all’estero, in collegio, fra estranei, sola. E probabilmente non sarebbe tornata prima di sei mesi. Jarod l’aveva lasciata sfogare, con lo sguardo fisso alle stelle, l’aria pungente gli riempiva gli occhi di lacrime.
«Non ci vedremo più?»
Miss Parker non aveva risposto, si era limitata a stringergli forte le mani tra le sue.
Chiuse gli occhi imponendosi di non pensare più al Centro. Era così rilassante sentirsi avvolto nella giacca pesante, il dondolio al quale si era abbandonato lo lasciò scivolare lentamente verso il mondo dei sogni.
«Jarod…» sussurrò Sydney avvicinandosi.
Era stato solo un fruscio lontano, un impercettibile richiamo, che bastò a riportarlo alla realtà. Lo psichiatra gli posò una mano sulla spalla: «Che cosa ci fai qui?»
Jarod si voltò verso di lui tirando su col naso. La barba incolta gli graffiò la faccia sfregando contro il collo della giacca.
«Non faccio nulla, non riuscivo a dormire.»
«Sei preoccupato?»
«No.» mentì.
Sydney si chinò su di lui e sorrise beffardamente. Jarod abbassò lo sguardo, si alzò e insieme attraversarono il porticato di legno, scesero sulla strada sterrata diretti con passo stanco verso la foresta.
«Se non te la senti di accettare i ricatti di Raines io ti capisco benissimo.»
«Non è così, Syd.»
Si sedettero sull’erba umida.
«Troveremo un altro modo per salvare la bambina.»
«Sydney… sono stanco di fuggire, e Miss Parker è stanca di inseguirmi, io voglio solo che Adam ed Eve abbiamo un’esistenza normale.»
«Quella che tu non hai potuto avere?» aggiunse Sydney. Anche se non lo aveva detto a voce alta era ciò che Jarod in effetti pensava.
«Non rimpiango di essere fuggito dal Centro, non rimpiango nessun momento passato in libertà, - disse sommessamente - … però, se non me ne fossi andato, forse Raines non avrebbe cercato nuovi simulatori, non avrebbe tentato di ricreare un nuovo me stesso, non avrebbe ucciso la famiglia di quei due bambini, …»
«Non è stata certo colpa tua.»
Jarod alzò il viso al cielo. La luna si rifletteva sui suoi occhi velati di tristezza. Non avrebbe più visto notti come quella.
«Voglio che domani tu e Broots torniate al Centro.»
«Perché?»
«Sarà Miss Parker a consegnarmi a Lyle e Raines, la farà felice.»
Sydney rise: «Tu pensi? Sai, in fondo non credo che lei ti voglia realmente rivedere rinchiuso al Centro.»
«Miss Parker fa solo il suo lavoro.»
«Ma io so che non vorrebbe farlo. - replicò lo psichiatra. Jarod fece una smorfia. - Avete parlato in questi giorni?» chiese Sydney.
«Di che cosa avremmo dovuto parlare?»
«Non le hai detto nulla?»
Jarod non rispose. Il cielo quella sera era più nero del solito, e le stelle erano così affascinanti che non volle rispondere. Lo sguardo perso nel vuoto, nell’infinità dell’universo, restò immobile a decifrare le costellazioni. Sydney non disse nulla, aspettando di sentirlo parlare di nuovo. Attese.
«Non riuscivi a dormire, Sydney, perché non vuoi che torni al Centro, non è così?»
Sydney annuì col capo.
«Sei sempre stato molto protettivo nei miei confronti, grazie, Syd, io ti devo tutto quello che sono.»
Sydney non disse nulla.
«In questi anni sei rimasto al Centro solo per me, ma ora voglio che tu te ne vada.»
Sydney si voltò stupito verso l’uomo: «Ma che cosa dici?»
«Devi lasciare quel posto, il più presto possibile, vai da tuo figlio e sii un buon padre per lui come lo sei stato per me.»
«Jarod…»
«Non voglio che tu passi la tua vita in quella prigione, non voglio che altri bambini debbano rinunciare alla loro infanzia, non voglio che Miss Parker rimanga al Centro, quel posto la sta distruggendo!»
Sydney si accorse che stringeva i pugni involontariamente, e che le lacrime erano arginate a fatica sotto le ciglia. Jarod aveva una sensibilità particolare, spontanea, come se fosse rimasto un bambino. Non avrebbe mai potuto abbandonarlo. Gli posò una mano sulla spalla e si alzò.
«Hai pensato a me, ad Adam ed Eve, a Miss Parker, … ma non hai pensato a te stesso. - concluse - È proprio questo che vuoi?»

La domanda di Sydney non ebbe mai una risposta. La mattina dopo Sydney e Broots rientrarono al Centro, non prima che Miss Parker avesse chiamato suo padre. Jarod accettava la proposta, era disposto a consegnarsi nelle mani del Centro quel pomeriggio stesso, in una radura nel bosco, nei pressi del motel di Michelle. Lyle e Raines sarebbero arrivati con un elicottero, avrebbero effettuato lo scambio e se ne sarebbero andati mentre Miss Parker avrebbe portato al sicuro i due bambini prima di ritornare al Centro.
L’auto si arrestò nel punto prestabilito seminascosta da una siepe. Mancavano ancora venti minuti all’appuntamento, ma avevano preferito presentarsi in anticipo per evitare spiacevoli inconvenienti. Jarod sorseggiò dell’acqua da una bottiglietta fissando il cielo. Miss Parker si guardava in giro nervosa.
Scesero dalla macchina. Era una bellissima giornata, come preannunciava la sera precedente: un bel sole illuminava il bosco e l’aria era quieta; faceva fresco, ma non era freddo, tanto che nessuno dei due aveva il cappotto. Controllarono con lo sguardo lo spazio circostante: un prato erboso circondato da alberi sempreverdi, con un tappeto di aghi ai loro piedi. C’erano ancora rami caduti, spazzati dal vento qualche notte prima; qualche centinaio di metri più a nord c’era la strada, ma non la si poteva vedere da lì. Erano soli, per il momento.
Adam rimase in macchina, sdraiato sul sedile posteriore in un ritaglio strappato al sole, in compagnia del suo peluche.
Jarod incrociò le braccia sul petto e si appoggiò al cofano anteriore dell’auto, in attesa. Rimasero in silenzio.
Miss Parker inspirava profondamente l’acre odore dei pini. Era veramente inebriante, si sentì svuotare i polmoni, rimase senza fiato per qualche istante, poi riprese affannosamente a respirare. Era di nuovo pallida. Jarod se ne accorse, ma non volle urtare le corde scosse della donna e non disse nulla.
«Non avrei mai immaginato che potessi affezionarti ad un bambino come Adam.»
Miss Parker rabbrividì un istante e si voltò verso la macchina nella quale riposava il bimbo. Poteva vedere solamente un piedino al sole.
«Adam è un bambino particolare.»
«Su questo non c’è dubbio.»
Miss Parker mantenne lo sguardo su quel piccolo piedino. «Non è come gli altri bambini: non strilla, non salta, non gioca, non tocca tutto ciò che vede, … e soprattutto fa tutto ciò che gli dico di fare.»
Jarod sorrise amaramente. Se Adam non era come gli altri bambini era colpa del Centro: erano stati gli uomini di Raines ad uccidere i suoi genitori sotto i suoi occhi e a dividerlo dalla sorella. Avrebbe tanto voluto aiutarlo, ma non ne aveva avuto il tempo.
«Quando sarò nelle mani di Lyle dovrai andartene il più velocemente possibile con i bambini, stai attenta a non farti seguire e portali al sicuro; mi raccomando non fermarti.»
Miss Parker lo guardò con compassione: «Sei sicuro di voler andare fino in fondo?»
Jarod annuì. Lei tornò a posare il suo sguardo su Adam, cercando di immaginare la gemellina. Era sicura che sua madre avrebbe fatto il possibile per salvare quelle povere creature, e lei avrebbe fatto lo stesso. Ma in cuor suo non voleva che Jarod si consegnasse al Centro dopo tutti gli sforzi che aveva compiuto per rintracciarlo negli ultimi anni.
«Alla fine ce l’hai fatta: mi hai riportato al Centro.»
Miss Parker sorrise non troppo convinta: «Non era così che sarebbe dovuta andare.» fece alzando gli occhi al cielo a fissare le nuvole a strisce che passavano svogliatamente sopra di loro.
«Ah, no?! e come pensavi sarebbe andata?» chiese Jarod incuriosito.
Lei sbuffò: «Immaginavo di spalancare la porta dell’ufficio di mio padre con un sorriso di trionfo e trascinarti dentro tenendoti per i capelli… - Jarod fece una smorfia di dolore - … e poi ti avrei sbattuto ai piedi della sua scrivania legato come un salame. Ovviamente saresti stato coperto di lividi.» concluse con un sorrisino sadico.
Jarod la fissava sgomento: «Davvero avresti fatto questo?»
Miss Parker rise e si voltò a guardarlo: «Non lo sapremo mai.»
Jarod sospirò tornando a guardarsi intorno. Miss Parker si avvicinò a lui noncurante. Jarod aveva un profumo inebriante come quello dei pini, lo stesso che le aveva invaso le narici nella stanza del motel quando era ancora febbricitante. I due forti aromi si mescolarono inesorabilmente e Miss Parker chiuse gli occhi imprigionata in quella sensazione. Vide Adam.
Li riaprì immediatamente come svegliandosi da un sogno e rimase a contemplare la distesa erbosa.
«Ora finalmente potrai lasciare il Centro.»
Jarod aveva interrotto il flusso dei suoi pensieri e ora la fissava. Miss Parker rimase in silenzio senza trovare le parole: lei sarebbe stata libera, ma lui non più.
«Non sarò mai completamente libera da quella prigione, Jarod: mio padre è il topo a capo della fabbrica di formaggi!»
Jarod rise: Lyle aveva usato la stessa espressione una volta. Evidentemente i legami di sangue tra gemelli erano più forti di quanto loro stessi non volessero ammettere.
«Jarod… siamo ancora in tempo per rifiutare…»
Lui la guardò negli occhi tristemente, poi distolse lo sguardo insostenibile e sorrise al cielo: «Non importa. Mi basterà sapere che non ti dimenticherai di me. - Miss Parker rimase senza fiato - Tornerai a trovarmi a Natale?»
Ora sentiva gli occhi riempirsi di lacrime e la gola secca. Non riusciva a parlare. Incredibilmente si scoprì a stringere la sua mano tra le sue. Si accorse che entrambi avevano gli occhi lucidi.
«Io non li sopporto gli addii!» esclamò. Jarod rise.
«Se questo è un addio significa che non ci vedremo mai più.» disse tristemente l’uomo sempre senza guardarla. Miss Parker scosse la testa: «No… io non potrei mai dimenticarmi di te.» Si stupì di aver pronunciato quella frase sdolcinata.
Una lacrima scese lungo la gota di Jarod, silenziosa. Non avrebbe mai sperato di sentirle dire tali parole. Miss Parker allungò una mano sul suo viso e gli carezzò la guancia scacciando la lacrima indesiderata con delicatezza.
«Non siamo mai stati così vicini come in questi giorni.» sussurrò. Si alzò sulle punte dei piedi.
Jarod chiuse gli occhi e la fermò posandole due dita sulle labbra. Miss Parker chiuse gli occhi a sua volta, ma li riaprì quasi subito, riuscendo a trattenere a stento le lacrime. Jarod la guardò negli occhi per qualche istante affascinato dalla chiara lucentezza. Sospirò tristemente: «Se il Centro sapesse, saresti nei guai.» le sussurrò.
Il profumo di Jarod ora era tutto ciò che riusciva a percepire nell’aria. Era talmente intenso da farle girare la testa.
«Al diavolo il Centro?!» disse inarcando le sopracciglia e trattenendo il respiro.
Le cime degli alberi ad est oscillarono e le pale di un elicottero comparvero sopra la distesa degli abeti spostando con violenza il tappeto d’aghi sottostante e mettendo in fuga gli uccellini appollaiati sui rami.
«Troppo tardi.» concluse amaramente Miss Parker tornando sui suoi passi.
Jarod la allontanò dandole un frettoloso bacio sulla fronte, sperando che nessuno dall’elicottero se ne accorgesse.
Era tempo di tornare a casa.
L’elicottero atterrò e prima ancora che le pale smettessero di roteare scesero Lyle con alcuni spazzini ed una bambina vestita di blu. Eve.
Gli spazzini rimasero accanto all’elicottero, mentre Lyle si avvicinava spingendo la bimba riluttante.
Miss Parker aveva assunto di nuovo la sua aria severa e di disprezzo. Il suo sguardo era tornato glaciale, ben diverso da pochi istanti prima. Spinse Jarod verso il centro della radura, dove Lyle li aspettava con Eve.
«Complimenti sorellina, papà è al settimo cielo.» la salutò l’uomo senza un pollice.
«È lei, Eve?» chiese senza tanti complimenti.
«Si.»
Miss Parker la osservò bene: i lineamenti del viso e gli occhietti vispi la convinsero.
«Ma ancora non capisco perché ti sia alleata con Jarod, sorellina, il Triumvirato era molto contrariato dal tuo comportamento.» continuò Lyle.
Miss Parker si avvicinò all’uomo: «Spero che tu marcisca all’inferno, Lyle.» sibilò.
Lui alzò le spalle sorridendo: «Buon giorno anche a te!» scherzò.
Si chinò sulla bambina, le sorrise: «Io mi chiamo Miss Parker, Eve, vuoi venire con me?»
La bambina non rispose, mantenendo un’espressione di assoluto distacco sul visino paffuto. Miss Parker la prese in braccio frettolosamente rivolgendo un’occhiataccia al fratello e agli spazzini che attendevano istruzioni dall’elicottero, si voltò verso l’auto con la quale lei e Jarod erano venuti e si affrettò a portare via Eve.
«Ci vediamo al Centro.» la salutò Lyle con un cenno della mano mutila, mentre i suoi spazzini ammanettavano Jarod. Miss Parker adagiò Eve sul sedile posteriore accanto al fratellino e si voltò a guardare un’ultima volta lo sguardo profondo di Jarod. Non avrebbe mai voluto lasciarlo andare via con Lyle.
Prese fiato e salì sull’auto, andando via sgommando.

L’auto di Miss Parker sfrecciava sull’asfalto dissestato della strada statale costeggiata da alberi. La ragazza stringeva saldamente il volante tra le dita affusolate mantenendo gli occhi sulla strada deserta davanti a sé. Ogni tanto sbirciava sullo specchietto retrovisore per controllare di essere veramente soli. Adam ed Eve sedevano silenziosi l’uno accanto all’altra sul sedile posteriore. Viaggiavano da ore e nessuno aveva più detto una parola da quando avevano lasciato la radura. Il sole li stava ormai abbandonando, calava rossastro tingendo d’oro i rami spelacchiati degli alberi. Eve era identica al fratello: taciturna, non sorrideva mai, non faceva capricci, non piangeva. Adam aveva messo tra loro il suo coniglietto di peluche e ognuno di loro stringeva una zampetta nella manina bianca.
«Avete fame?» chiese Miss Parker gettando un’occhiata dietro di sé.
«No.» rispose Adam.
Miss Parker si tacque per un istante, tornando a guardare la strada.
«Adam, da quanto tempo ci sta seguendo quell’auto?»
Il bambino si alzò in piedi sul sedile per controllare dietro, ma non disse nulla.
Improvvisamente l’auto sterzò e li raggiunse. Una mano guantata si affacciò al finestrino oscurato e sparò nella fiancata.
«Giù! State giù!» gridò Miss Parker ai due bambini che si accucciarono immediatamente.
L’auto sbandò. Probabilmente un colpo aveva raggiunto la ruota posteriore e Miss Parker non riusciva più a controllare la direzione. L’auto del Centro li superò e sterzò bruscamente davanti a loro. Si scontrarono e la berlina con i due gemelli e Miss Parker fece un giro su se stessa, scivolando sull’asfalto e finendo fuori strada si arrestò contro il tronco di un abete.

«Portatelo dentro!» ordinò Lyle agli spazzini.
Jarod era ammanettato e bendato, a torso nudo. Willy lo spinse lungo il corridoio buio mentre la telecamera di sorveglianza seguiva i loro movimenti. Un secondo spazzino li precedeva e un terzo chiudeva la fila, burbero.
Lo spazzino in testa si fermò davanti ad una porta oscillante e la tenne aperta per far passare gli altri. Un nuovo corridoio sul quale si aprivano cinque porte blindate venne percorso rapidamente e Jarod fu spinto violentemente dentro una delle celle. Venne sbendato e gli spazzini gli legarono mani e piedi, e lo agganciarono al soffitto con una catena.
«Dov’è Sydney?» continuava a gridare Jarod dimenandosi e cercando di sottrarsi alle catene.
La stanza era molto grande, anche se illuminata da un unico riflettore puntato sugli occhi di Jarod che si contorceva impotente.
Lyle entrò con passo svogliato massaggiandosi la mano mutila coperta da un guanto di pelle.
«Se continuerai ad agitarti così mi verrà una terribile emicrania. - sentenziò aggrottando le sopracciglia - Dovrò prendere provvedimenti.»
Fece un cenno colla mano a Willy, il quale sparì per qualche istante nell’ombra e riapparì con un manicotto da pompiere tra le mani.
«Procedi.» ordinò Lyle.
Jarod fu investito da un violento getto d’acqua ghiacciata che gli gelò il sangue nelle vene. Gridò.
«Giusto per schiarirti le idee.»
«Dov’è Sydney?» insistette.
Lyle alzò un dito e una nuova scarica d’acqua questa volta bollente si rovesciò su di lui.
Jarod gridò di nuovo disumanamente. Sentiva la pelle bruciare, i nervi contrarsi. Rabbrividì.
«Se non ti calmerai sarò costretto a usare le maniere forti.» disse serafico l’uomo senza un pollice portando sotto la luce una siringa piena di liquido giallognolo.
Jarod non riusciva a parlare: «No… - balbettò - che cos’è?… non erano questi i patti!» farfugliò.
«Hai ragione, non avresti dovuto fidarti.» disse porgendo la siringa ad uno degli uomini in nero.
«Che intenzioni hai, Lyle!» gridò Jarod dimenandosi.
«Ah, a proposito, ho saputo proprio adesso che l’auto di Miss Parker è stata trovata sulla strada statale.» disse Lyle mentre uno degli spazzini tratteneva Jarod e l’altro gli iniettava la sostanza.
«Lyle!» gridò l’uomo dimenandosi.
«Stai tranquillo. Tra poco non potrai più nemmeno muovere un muscolo. - rise - Purtroppo la mia sorellina non ce l’ha fatta. - continuò - Già, la sua macchina si è scontrata contro un albero… guidava troppo veloce! … Sono morti tutti, anche i bambini. Che disgrazia.» scherzò.
«Lyle! Bugiardo!»
Lyle rimase impassibile, mentre Jarod cercava di combattere l’effetto del narcotico. La sua vista si stava appannando e le luci puntate su di lui divenivano sempre più intense, fino a far diventare i contorni indecifrabili, sagome informi che si affollavano attorno a lui. La voce di Lyle risuonò nella sua testa molto più dura e severa: «Non puoi sottrarti al Centro, Jarod.» insistette arrogante.
«Lyle! - continuava a gridare - Figlio di un cane! Bastardo!…»
«Non è carino, da parte tua.» scherzò.
Jarod ansimava e gli occhi gli bruciavano terribilmente riempiendosi di lacrime. La sua temperatura corporea era notevolmente aumentata e le gocce d’acqua che lo avevano investito prima scivolavano via lentamente, assieme al sudore.
«Dì la verità! Bastardo! - continuò a gridare mentre Lyle si allontanava - Miss Parker!… sei solo un bugiardo! Miss Parker…!» chiamò più forte.
Lyle si voltò verso di lui con aria beffarda, ma Jarod non poteva vedere che una forma scura confusa tra la luce, una sagoma oscillante.
«Un po’ di rispetto, per favore, ho appena perso una sorella.» disse falsamente serio in volto, con lo sguardo arrogante, sprezzante e un’aria troppo sicura di sé.
«Lyle! … Non l’hai mai considerata una sorella! L’hai fatta uccidere! … Miss Parker!…» Jarod non riusciva più a mantenere lucida la vista, sentiva gli occhi pesanti, così come le braccia e le gambe. Non avrebbe resistito ancora a lungo. Non poteva pensare che Lyle dicesse la verità: doveva essere per forza una menzogna.
«… Miss Parker…» bisbigliò tra sé, prima di perdere conoscenza.
Lyle uscì dalla cella lasciandolo solo. Gli spazzini lo seguirono chiudendo la porta alle loro spalle. Lyle fece cenno loro di andare, avviandosi anche lui verso l’uscita. Una figura si mosse nell’ombra davanti a lui: «Che scena commovente.» sibilò la voce femminile.
«Brigitte…»
La donna scivolò sotto la luce, mettendo in mostra il suo pancione.
«Cominci a sembrare una mongolfiera, - disse Lyle senza scomporsi - senza offesa.» aggiunse.
«Naturalmente.» replicò la donna scostando una ciocca di capelli biondi. Era ormai al settimo mese di gravidanza e continuava a succhiare lecca-lecca come di consueto.
«Che cosa ci fai qui?» le chiese Lyle.
Brigitte si inumidì le labbra e ignorò la sua domanda: «Non credi di essere stato un po’ brusco con lui? - disse riferendosi a Jarod - … dirgli della triste fine della mia povera figliastra così crudelmente… gli hai spezzato il cuore. «Lyle sbuffò spazientito e la scansò per proseguire oltre.
«Mio marito non lo accetterà mai: hai dato l’ordine di uccidere tua sorella gemella, Lyle, è orribile!» scherzò trattenendolo per un braccio.
Lyle si ritrasse fissandola negli occhi: «Era diventata una traditrice, si era alleata con Jarod, e il Triumvirato ha pensato bene di eliminarla.» si giustificò.
«Il Triumvirato?!» insistette Brigitte massaggiandosi il pancione.
Lyle sospirò spazientito: «Lo so che mio padre era molto affezionato a mia sorella, ma non c’era altra soluzione… quella donna stava seguendo le orme di nostra madre e avrebbe messo nei guai il Centro e tutto il nostro lavoro, lo capisci?!» Lyle si irrigidì. Brigitte lo osservò sorridendo e succhiando il suo dolcetto.
«Dopotutto non l’ho mai considerata come una sorella.» concluse l’uomo girando lo sguardo ed andandosene.
Brigitte rimase ancora qualche istante sotto la luce del corridoio con un sorriso malizioso in volto guardando Lyle che girava l’angolo e scompariva. Poi si ritrasse e scomparve a sua volta nell’ombra.

L’aria era immobile, impregnata dell’odore pungente dei pini. Aprì gli occhi lentamente. Era così silenzioso il bosco. Mise a fuoco la vista e si accorse di essere ancora nell’auto, seduta al posto di guida. Si alzò a sedere di scatto, voltando lo sguardo sui sedili posteriori. Vuoti.
«Adam… Eve!» sussurrò costernata. Uscì sbattendo la portiera contro l’albero e sfrisando la carrozzeria grigia dell’auto a noleggio. La fiancata sinistra era ormai completamente distrutta, crivellata dai colpi di proiettile esplosi nel tentativo di ucciderla.
Miss Parker si rese conto di essere sola sulla strada. Nessun’auto in vista, nessuna traccia degli uomini del Centro. Girò su se stessa senza sapere che cosa fare, passandosi una mano tra i capelli neri.
«Merda!» esclamò arrabbiata. La sua ferita alla fronte era ancora bendata, ma le faceva male per il colpo che le aveva fatto perdere conoscenza nell’incidente. Tastò sulla garza, per controllare che non uscisse sangue di nuovo e si accinse ad inseguire gli spazzini del Centro. La loro auto era rimasta accanto a quella grigia di Miss Parker, quindi non potevano essere molto lontani. Per quanto tempo era rimasta priva di sensi?
«No!» Il grido attirò l’attenzione della donna nell’interno della foresta. Si voltò di scatto nella direzione di provenienza e si mise a correre tra gli alberi, inspirando l’aria fredda e profumata che le bruciava i polmoni.
«Adam!» gridò
«Ah!» Un altro grido dalla stessa direzione. Che cosa stavano facendo a quei poveri bambini?
Miss Parker si rese conto di non riuscire a correre veloce come avrebbe voluto: un dolore pulsante le colpiva l’addome ad ogni passo avanti. Trattenne il respiro, ma non servì a nulla. Si fermò per riprendere fiato un istante, poi riprese l’inseguimento. Perché avevano abbandonato l’auto e li avevano portati nel bosco? Che cosa stavano facendo? Perché non l’avevano uccisa subito?
Miss Parker giunse infine sull’argine di un fiume, lo stesso che aveva salvato la vita sua e di Jarod qualche giorno prima. Scorse i due uomini in nero che trascinavano i due gemelli sul ponte di legno poco distante.
Ansimando Miss Parker li raggiunse senza farsi notare.
«Stai attento che non ci veda nessuno! Deve sembrare un incidente.» disse uno dei due all’altro sollevando Eve oltre il parapetto. L’altro fece lo stesso con Adam.
«Fermi! O sarà peggio per voi!» intimò loro Miss Parker estraendo la pistola e avanzando nella loro direzione con passo felpato nonostante il crescente dolore all’addome.
«Credevo fosse morta.» balbettò il primo spazzino in tono di scusa, rivolgendosi al compagno.
L’altro non rispose e senza perdere di vista la donna alzò Adam sopra la testa gridando: «Se non getti quell’arma giuro che lo butto di sotto.»
Miss Parker si arrestò a pochi metri dai due uomini in nero, mantenendo la mira.
«Getta l’arma!» ripeté l’uomo.
Miss Parker passò lentamente la pistola da una mano all’altra, alzando le braccia.
«Ora gettala a terra, e spingila verso di noi.» continuò l’uomo.
Miss Parker obbedì, riluttante, avvicinandosi agli spazzini. I due uomini indietreggiarono sensibilmente, allontanandosi involontariamente dalla sponda del ponte. Il fiume scorreva tranquillo sotto di loro, cingendo gelidamente le rocce levigate e dure. Miss Parker prese fiato, traendo un lungo respiro.
Il suo sguardo divenne insostenibile, freddo, pungente, cattivo. Passo dopo passo si avvicinava sempre di più costringendo i due spazzini ad allontanarsi involontariamente dal parapetto sempre più.
«Ferma dove sei o li uccido!» esclamò lo spazzino tendendo la sua arma contro di lei.
Miss Parker guardò negli occhi di Adam e poi in quelli vitrei dell’uomo. Sentì la forza scorrerle nelle vene, sentì il sangue fluire alla testa e in una frazione di secondo disarmò lo spazzino con un calcio.
L’uomo rimase senza fiato, incredulo, lasciò cadere il bambino sul legno del ponte. L’altro non perse tempo e sparò alla donna. Miss Parker si abbassò schivando i colpi e scivolando accanto al parapetto gli assestò un calcio dietro al ginocchio. Lo spazzino cadde e Eve si dimenò nel tentativo di liberarsi.
Miss Parker recuperò ai suoi piedi la sua arma e sparò al primo uomo ancora in piedi, il quale cadde riverso ai piedi di Adam. Miss Parker restò in ginocchio ansimando, spostò la mira sul secondo uomo a terra di fronte a lei, puntandogli l’arma alla fronte.
«Ora, scegli se vivere o morire.» sentenziò senza sfumature nella voce.
Lo spazzino, biondo tinto, alzò le mani lasciando la presa sulla sua pistola e sul braccio di Eve.
«Non mi uccidere, ti prego!» implorò lo sventurato.
Miss Parker alzò un sopracciglio e si alzò in piedi, facendo segno all’uomo di imitarla.
Eve corse accanto al fratello.
«Adam, Eve, perché non andate in macchina?!»
Nessuno dei due si mosse, gli occhi fissi sull’uomo ferito ai loro piedi.
«Non ti preoccupare, sembrerà un incidente!» disse Miss Parker sorridendo maliziosamente allo spazzino.
«No, ti prego!» scongiurò di nuovo.
«Prendi il tuo amico e levagli i vestiti.»
«Cosa?» balbettò.
«Hai capito, e poi spogliati anche tu.»
L’uomo obbedì riluttante: «Più in fretta, scansafatiche!» gridò Miss Parker. Cercò i due bambini con lo sguardo. Erano scesi dal ponte, tenendosi per mano, fissavano inespressivi il corpo incosciente dello spazzino ferito che veniva denudato dal collega, svestito a sua volta.
«Ora prendi i vestiti e gettali dal ponte.» ordinò perentoria.
Lo spazzino eseguì, tremante per il freddo d’ottobre.
«Molto bene. Ora andateveli a riprendere, i vostri stracci.» fece la donna allontanandosi di schiena in direzione della strada statale. Raggiunse Adam ed Eve che assistevano alla scena senza battere ciglio. Miss Parker prese la mano della bimba e senza perdere di vista lo spazzino sul ponte tornò sui suoi passi, lasciando l’uomo a contemplare il fiume che scorreva via con i suoi vestiti e quelli del collega ferito che mugugnava sul legno bagnato.
Tornati di nuovo alla strada statale Miss Parker si liberò l’anima traendo un profondo sospiro di sollievo e massaggiandosi le tempie. Le faceva male la testa e sentiva il suo addome contrarsi in terribili spasmi. Si piegò sulle ginocchia con una smorfia di dolore strizzando gli occhi. Li riaprì.
Adam e la gemellina la fissavano incuriositi.
Miss Parker ansimò per qualche istante, poi si rialzò.
«Stai male, Miss Parker?» chiese Eve.
«No… No, non ti preoccupare.» rispose non troppo convinta. La sua ulcera cominciava a fare i capricci sempre nei momenti meno opportuni.
«Quell’uomo… - cominciò Adam - … è morto?»
Miss Parker e la sorella si voltarono verso di lui: «No.» rispose di nuovo Miss Parker.
«Morirà?» incalzò la sorella.
Miss Parker li guardò con compassione. Evidentemente non era la prima volta che assistevano ad una scena del genere, non alla televisione. La donna sorrise debolmente: «Non preoccupatevi, stavo solo scherzando, non morirà più nessuno, ve lo prometto.» disse dolcemente. Si stupì di quella frase, e ancor più del suo tono di voce. Era la seconda volta in quella strana giornata che si sorprendeva di se stessa.
Salirono tutti e tre sull’auto del Centro, poiché la macchina a noleggio era fuori uso, e proseguirono lungo la strada statale.

In una stanza buia del Centro al sottolivello ventidue uno degli spazzini di Raines controllava le coordinate sul computer. Una dettagliata piantina del Montana era a schermo intero, e il mouse scorreva velocemente da un punto all’altro, scegliendo icone e spazi da ingrandire. Un puntino rosso lampeggiante in mezzo alle montagne seguiva la strada statale segnata in nero, dirigendosi verso il centro della città più vicina: Butte.
«Li abbiamo localizzati, Mr Raines.» disse uno degli spazzini indicando il punto lampeggiante sullo schermo.
«Mandate un’altra squadra da Butte.» ordinò.
«Subito, Mr Raines.»
Raines rimase a fissare lo schermo senza in realtà vederlo: la sua mente viaggiava sulla strada statale segnata dalla mappa, seguiva la berlina del Centro che sfrecciava tra gli alberi verdi, vedeva lo sguardo determinato di Miss Parker alla guida e la ieraticità sul volto dei due gemelli. Li voleva morti.
«Volete fermarvi un momento? Avete bisogno di andare in bagno… avete fame?» chiese Miss Parker osservando i visini dei due bimbi attraverso lo specchietto retrovisore.
Entrambi fecero segno negativo col capo.
«Vi sentite bene?»
Nessuno dei due rispose, né verbalmente, né gestualmente.
Miss Parker tornò a guardare la strada asfaltata. Un cartello annunciava la distanza di diciotto miglia da Butte.
Miss Parker frugò con la mano nella borsa sul sedile accanto al suo e ne estrasse una bottiglietta opaca, color rosa pallido, la aprì con i denti e bevve lentamente il contenuto. La medicina per l’ulcera. Sperò di non essere troppo in ritardo: lo stress di quegli ultimi giorni si stava trasformando in malattia, ne aveva avuto un primo assaggio con la febbre che era sparita da poco.
Ormai non viaggiavano più soli: cominciavano ad incontrare altre auto, camion e furgoni, sulla stessa carreggiata e su quella opposta. Era più difficile ora riuscire a capire se qualche temerario spazzino li stesse sorvegliando, Miss Parker era sicura che sarebbero tornati all’attacco, e la compagnia di altri automobilisti non avrebbe inibito gli assassini del Centro.
Superarono il cartello pubblicitario di un ipermercato.
Non potevano sfuggire.
Lo spazzino ricevette istruzioni all’auricolare e fece cenno al collega alla guida di raggiungere l’auto prima che entrasse in città, erano ormai vicinissimi, quando Miss Parker sterzò a destra in direzione dell’ipermercato.
«Seguiteli, - ordinò Raines all’altro capo della radio - … e uccideteli!»
«Li abbiamo persi.» comunicò qualche istante più tardi l’uomo alla guida.
«Sono all’interno.» rispose uno degli addetti al computer nella sala al sottolivello ventidue.
«A che piano?»
«Un istante. - fece l’altro cercando la planimetria dell’edificio, trasferì la grafica sul computer e rispose:
- Terzo.»
Gli spazzini salirono le scale in fretta, guardandosi intorno. L’ambiente era affollato e rumoroso, una donna strillava messaggi pubblicitari attraverso un megafono, cercando di attirare l’attenzione dei clienti. Il terzo piano era riservato all’abbigliamento per bambini, e ovunque i due uomini si voltassero i corridoi tra gli scaffali erano gremiti di madri con figli al seguito. Non sarebbe stato facile trovare Miss Parker con i gemelli lì dentro.
«Dove sono?» chiese lo spazzino all’auricolare.
«In fondo, nell’angolo a sinistra.» rispose la radio.
I due corsero, spostando i clienti che facevano la fila ai camerini. Ve ne erano cinque, tutti occupati, iniziarono a spalancare le porte, e i bambini ad urlare, ma i gemelli e Miss Parker erano spariti.
«Devono essere lì! - insistette lo spazzino alla radio: - Il segnale della trasmittente è forte e chiaro.»
Lo spazzino che prima guidava richiamò il collega sollevando una gonnellina blu, un maglioncino chiaro ed una camicetta bianca all’interno di uno dei camerini di prova: «I vestiti della mocciosa con la trasmittente.» disse mostrando il congegno minuscolo all’altro.
Sospirarono entrambi scocciati: «Li abbiamo persi, si sono sbarazzati della trasmittente.» spiegò l’uomo in nero alla radio.
«Cercate lì intorno.» fu l’ordine.
Ma ormai era inutile.

Seduta al tavolo in angolo di un minuscolo locale in un paesino nei pressi di Butte, Miss Parker faceva del suo meglio per farsi piacere la zuppa di verdure che aveva davanti. Erano riusciti ad evitare gli spazzini di Raines per un soffio e non avevano smesso di viaggiare fino all’ora di cena. Il sole era pressoché sparito all’orizzonte e i due bambini sedevano di fronte a lei senza dire una parola. Sembravano due bambole di porcellana, vestiti alla marinaretta. Non avevano quasi toccato cibo, e Miss Parker preferì non dire loro nulla: in fondo li capiva benissimo. Quella tavola calda era il primo posto che avevano trovato sulla strada e la loro stanchezza li aveva indotti a fermarvisi comunque.
Miss Parker abbandonò il piatto con la zuppa ancora mezzo pieno per concentrarsi sulla mappa stradale. Se volevano raggiungere Butte sani e salvi avrebbero dovuto prima di tutto cambiare di nuovo auto e strada. Era così concentrata sul trovare un percorso alternativo che non si accorse che Eve era scesa dalla sua sedia finché non sentì una donna, fuori in strada gridare: «La bambina!»
Miss Parker alzò lo sguardo e attraverso il vetro vide Eve sul marciapiede, che camminava in direzione della strada. Non perse attimi e si ritrovò fuori del locale, sul marciapiede, correndo istintivamente verso Eve, le sua gambe si muovevano da sole. Eve fece un passo incerto giù dal gradino. Il cuore di Miss Parker smise di battere in quel momento, mentre correva per afferrare la bambina. L’auto che sopraggiungeva frenò improvvisamente, l’autista sorpreso dall’apparizione non fece in tempo a sterzare, Miss Parker prese violentemente Eve, strappandola dal suolo, sollevandola sopra al cofano dell’auto che si arrestò in quel momento e prendendola in braccio, la strinse a sé. Spaventata, ansimante, Miss Parker avrebbe voluto mettersi a gridare lì in mezzo alla strada, per tutta l’adrenalina che si era accumulata nelle sue vene in quei pochi secondi. Rimase in piedi con la bambina in braccio, incredula per quello che era riuscita a fare. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, lacrime di paura, di tensione. Deglutì scacciandole e sbatté gli occhi. Dio, come avrebbe voluto una sigaretta in quel momento! Eve abbracciava saldamente il suo collo, nascondendo la faccia sulla sua spalla, tra i suoi capelli.
Qualche passante si avvicinò a lei. Miss Parker smise di pensare.
«Ma perché non ve li tenete d’occhio i vostri figli!» imprecò l’autista da dentro l’abitacolo sbattendo le mani sul volante.
Miss Parker si riscosse, accigliata si rivolse all’uomo in macchina: «E tu perché non guardi la strada invece di masturbarti, imbecille!» gridò fuori di sé sbattendo il pugno destro sul cofano dell’auto.
L’uomo scese improvvisamente colto nel vivo: «Ehi! Se mi rovini la macchina ti denuncio!»
Miss Parker non si voltò, ricoprendo lo sciagurato di insulti a denti stretti, rientrò nella tavola calda, dove una piccola folla di clienti si era raggruppata alla vetrina per assistere alla scena.
Tornò a sedersi al suo posto, con Eve in braccio, ancora scossa da gemiti.
«Tranquilla, ora è passata, non è successo niente. - cercò di calmarla - Perché sei uscita?» continuò.
Eve non rispose, continuando a strofinare il viso sulla spalla della donna.
«Non importa, ora è finita.» fece Miss Parker carezzandole i capelli biondi.
«Mi dispiace. - mormorò la bambina - Sei arrabbiata?» chiese staccandosi da lei.
Miss Parker rimase senza parole. «No, no, - rispose dolcemente alla fine - sono solo molto spaventata, Eve, credevo che saresti morta sotto quell’auto.»
Eve tirò su col naso. Miss Parker si accorse che lei e il fratello avevano la stessa identica espressione in viso.
Adam scivolò dalla sua sedia e si abbassò sotto il tavolo per raggiungere la gemella e Miss Parker.
«Non devi uscire senza di me, non devi attraversare la strada, non devi più allontanarti, capito! E questo vale anche per te!» concluse rivolgendosi ad Adam, comparso al suo fianco. Adam annuì e si strinse a Miss Parker che non lo respinse, ma gli passò una mano tra i capelli, carezzandogli la testa ed abbracciando con l’altro braccio Eve.
La gente nel locale avrebbe pensato che quei due gemellini fossero suoi figli. Non le importava niente.
Chiuse gli occhi stanchi lasciandosi andare, sprofondò nell’acqua, immersa nelle bollicine. Quella giornata stava finalmente per finire. Giocò con la schiuma come una bambina, pensando ad Adam ad Eve nella vasca poco prima. Finalmente era riuscita a strappare loro qualche sorriso.
Si rilassò, in ultimo, cercando di scacciare la stanchezza di quella giornata. Sentiva le palpebre pesanti.
Pensò a Jarod, solo, al Centro, o forse in compagnia di qualche spazzino e dell’occhio vigile delle telecamere di sorveglianza. Si intristì. Che cosa si aspettava: dopotutto aveva dato la caccia a Jarod per quattro anni interi e al solo scopo di riportarlo esattamente dov’era adesso. Si accigliò: non aveva mai veramente pensato di poterlo catturare, quindi non si era mai posta il problema di come si sarebbe sentita la sua coscienza. Sospirò rientrando in camera da letto dopo il bagno.
Adam e la sorella erano sdraiati sul letto matrimoniale e sembravano dormire nonostante la luce fosse ancora accesa.
Miss Parker raggiunse il lettino accanto al loro senza far rumore sulla moquette marrone e sprofondò nelle coperte.
L’ansia la attanagliava. Avrebbe voluto gridare anche lei, ma non si azzardò: loro avrebbero potuto sentirla.
Strisciò nell’oscurità cercando un appiglio. Ad un tratto vide la sua ombra: legata, mani alzate, incatenata al soffitto, con solo i pantaloni, si contorceva, si dimenava freneticamente, involontariamente, con atroci urla, spasmi di dolore per le cinghiate che riceveva su tutto il corpo. Lo stavano torturando. Lo stavano frustando brutalmente. L’odore del sangue giungeva fino a lei.
«Nooooo!…. mamma!… mamma!» gridò Eve.
Miss Parker si tirò a sedere di scatto, cercando di liberarsi dalle coperte per precipitarsi ad accendere la luce.
«Eve… - disse andando a sedersi sul bordo del letto - Eve, calmati.»
La bambina singhiozzò aprendo gli occhi e strofinandoli, si buttò su Miss Parker che la prese dolcemente avvolgendola in un abbraccio. Si stupì nuovamente di se stessa. Poco a poco si scopriva diversa da come era sempre stata. Non era più glaciale, né provava ribrezzo nello stringere quel piccolo esserino tra le braccia.
Adam si svegliò a sua volta, poi si voltò dall’altra parte e chiuse di nuovo gli occhi.
«Era solo un sogno.» disse Miss Parker.
«No, non lo era.» Eve strinse il pigiama della donna tra i pugni, abbracciandola più stretta. Miss Parker la carezzò.
«Mamma non tornerà più?… e nemmeno papà?» chiese con sguardo ingenuo.
«Non lo so, piccola, non penso.»
«Perché ci hanno lasciati soli?»
Miss Parker esitò. «Sono sicura che loro non avrebbero mai voluto lasciarvi.» rispose con un sospiro.
Eve chiuse gli occhi. «Ci lascerai anche tu, Miss Parker?»
Lei non rispose. Non poteva rispondere. In cuor suo non avrebbe voluto più separarsi da loro due, ma sarebbe dovuta tornare al Centro prima o poi, e loro non potevano venire con lei.
«Hai lo stesso profumo della mia mamma.» disse la bambina.
Miss Parker le asciugò le lacrime sulle guance e la ripose sotto le coperte. Adam si rigirò nel letto mormorando: «Vieni a dormire qui?»
Miss Parker osservò i volti affaticati dei due bambini e si alzò lentamente per andare a spegnere la luce, poi tornò accanto a loro, sdraiandosi vicino ad Adam che stringeva la mano della sorella.

Sentiva le palpebre pesanti. Gli occhi gli bruciavano insopportabilmente e le lacrime continuavano a scendere incessantemente sulle sue tempie. Si scoprì essere disteso, e non più appeso al soffitto, ma le mani ed i piedi erano comunque legati stretti con pesanti catene ghiacciate.
Ansimò nell’oscurità, sentendo il fiato uscire caldo in una nuvoletta di vapore sopra di sé. Faceva terribilmente freddo, e buio. Provò a richiudere gli occhi, ma le lacrime non smisero di offuscare la sua vista e di bruciare i suoi sensi. Si sentiva schiacciato da un peso incommensurabile, insostenibile. Singhiozzò senza saperne il motivo.
“Dove sono?” si chiese.
Provò a voltare la testa da un lato, ma non riusciva a muoversi, era troppo debole.
“Che cosa mi succede?”
Le lacrime che si accumulavano tra le sue ciglia creavano strane deformazioni nelle ombre attorno a lui, impedendogli di focalizzare, di capire. Era troppo stanco per capire, per sforzarsi di ricordare.
“Chi sono?”
«Jarod…»
La voce! L’aveva sentita veramente?! C’era qualcuno dunque?
«Jarod…» ripeté.
“Io!” pensò “… io… sono qui!”
Quella voce stava rispondendo alla sua domanda senza che lui l’avesse realmente formulata.
«Jarod…» Continuava a rimbombargli nei timpani il sussurro dolce di quella voce femminile. A chi apparteneva? Non riusciva a ricordare.
Sentì la sua presenza avvicinarsi, spettrale, ma reale.
Il suo volto candido apparve come una stella nell’oscurità della stanza che li circondava. Le sue labbra increspate in un sorriso appena accennato, gli occhi severi chini su di lui in un’espressione triste, i capelli profumati.
Jarod pianse. Avrebbe voluto alzare il braccio, raggiungere quel viso familiare, posare il delicato tocco delle sue dita sulla pelle morbida. Come prima, la donna lesse i suoi pensieri, ma fu lei a carezzare il suo viso, senza fare caso alla barba incolta. La sua mano era fredda.
La donna sorrise, un sorriso triste. I suoi occhi azzurri si posarono su di lui come se volessero liberarlo dal peso che lo opprimeva con un solo sguardo.
Jarod sentiva la testa in confusione. “Parla ancora, ti prego.”
«Non aver paura.» disse.
“Ha parlato di nuovo! Ti prego… ti prego non smettere!”
«Non avere paura, Jarod, io sarò sempre qui con te…» la voce si fece più lontana, il volto candido si confuse nell’oscurità, lentamente, come un sogno che svanisce alla luce del mattino.
“Non te ne andare, non lasciarmi, ti prego… ti prego!” gridava dentro di sé.
Fece in tempo solo a sentire la sua fredda mano scivolare via dalla sua guancia, sfiorare il suo collo e scomparire.
“Non lasciarmi… non lasciarmi solo!” pianse sommessamente in solitudine.

L’ufficio era spazioso e ben illuminato. Faceva un po’ freddo però.
Miss Parker sedeva davanti alla scrivania ingombra di incartamenti, con le gambe incrociate, ticchettando le unghie sul legno, impazientemente.
Non aveva voluto andare con loro, sarebbe stato meglio così, per loro e per lei stessa. Si era scoperta più emotiva di quanto immaginasse, negli ultimi tempi. Era sicura che non avrebbe retto nel vedere Adam ed Eve sistemarsi nelle loro nuove camere. Sperava ardentemente che si trovassero bene, sperava di fare la cosa giusta.
La porta si aprì alle sue spalle: «Scusi, Miss Parker, spero che non abbia freddo, in effetti il riscaldamento è rotto, abbiamo chiamato il tecnico due giorni fa, ma non si è visto nessuno, ancora.»
Una donna corpulenta era appena entrata con la faccia rossa sorridente ed il naso a patata, camminando svelta si era andata a sedere dietro la sua scrivania.
Miss Parker strinse le labbra.
«Non si preoccupi per i bambini, sono sicura che staranno bene.» aggiunse l’assistente sociale.
Miss Parker annuì col capo mantenendo lo sguardo fisso sulla donna.
«Perché non ha voluto accompagnarli?» chiese.
Miss Parker ritirò le dita dalla scrivania, incrociando le braccia al petto e distogliendo lo sguardo: «Penso che sarà meglio per loro dimenticare tutta questa storia il prima possibile, e quindi…» Non finì la frase deliberatamente, lasciando intendere alla donna.
«Capisco.» sospirò questa porgendole un modulo da compilare.
«Crede che verranno dati in adozione?» domandò alzando un sopracciglio senza staccare lo sguardo dal foglio che la donna le aveva porto.
L’assistente sociale sospirò: «Bhè, forse non subito… vede, Adam ed Eve sono bambini particolarmente sensibili, ed è evidente il loro shock irrisolto per la perdita dei genitori, provvederemo a cercare loro una famiglia accogliente, ma non tutti sono disposti ad accettare bambini traumatizzati che necessitano di attenzioni particolari o terapie, in alcuni casi.» spiegò giocherellando con la penna.
Miss Parker tentennò, lo sguardo basso. Pensò ad Adam e alla sorella, soli, in mezzo a tanti volti a loro sconosciuti. Le si strinse il cuore, ma non aveva altra scelta.
«Miss Parker…» la donna la richiamò.
«Sì?»
«Perché non riflette sulla possibilità di adozione.» suggerì.
Miss Parker alzò lo sguardo sul viso paffuto dell’assistente sociale che ora la fissava con decisione, sbattendo le palpebre di tanto in tanto.
«Come?!»
«Credo sia evidente anche a lei che oramai i due bambini si siano affezionati a lei, ricercano in lei la figura materna che hanno perso; perché non ha considerato la possibilità di adozione?»
Miss Parker socchiuse le labbra, sorpresa. Non ci aveva pensato, era vero, ma solamente perché non era possibile: «Io… non posso… non sono in grado di occuparmi di due bambini.»
La donna rise: «Non si preoccupi, non serve un corso per essere bravi genitori, è un istinto innato.»
«No… io… - Miss Parker non sapeva come spiegare la sua situazione alla donna: - io sono sola, e il mio lavoro… faccio un lavoro pericoloso… - tentò - sono reperibile giorno e notte e non posso occuparmi di due bambini.» concluse. Non poteva certo portare Adam ed Eve al Centro!
«Capisco.» ripeté per la seconda volta la donna.
Miss Parker era rimasta come inebetita, senza riuscire più a parlare, lo sguardo freddo perso nel vuoto si era stranamente addolcito al pensiero di non separarsi da Eve e dal fratello, di non essere più la sola abitante di casa sua, di non essere più sola…
Si riscosse immediatamente non appena la donna si alzò dalla sua sedia e le prese il foglio compilato dalle mani. La seguì con lo sguardo, poi si alzò a sua volta e la seguì lungo i corridoi della scuola. Ad una prima occhiata sembrava un posto ordinato e pulito, ben tenuto ed organizzato. Sarebbero stati bene.
La stanza a loro assegnata era al primo piano. Appena entrò Miss Parker i due gemelli le corsero incontro con il sorriso sulle labbra. Miss Parker abbozzò un sorriso a sua volta, chinandosi alla loro altezza.
Il viso dei due bambini tornò triste non appena capirono che quello sarebbe stato il loro ultimo incontro.
Gli occhi di Miss Parker erano freddi e distaccati come solito, ma un’anima di disperazione non riusciva ad essere celata allo sguardo attento di Adam ed Eve.
Miss Parker si lasciò comunque abbracciare, stringendo delicatamente i due corpicini esili tra le braccia, inspirando profondamente il profumo della loro pelle infantile. Sussurrò: «Promettetemi che sarete sempre insieme. - chiuse gli occhi parlando - Promettetemi che starete bene, e vi aiuterete a vicenda, … sempre.»
«Non andare via, Miss Parker.» mormorò Adam.
«Non lasciarci, Miss Parker.» continuò la sorella.
Miss Parker li strinse più forte imponendosi di non piangere. Strinse le labbra e si liberò dalla presa alzandosi in piedi.
«Mi dispiace… mi spiace tanto.» disse voltandosi ed uscendo.

Al Centro quella mattina si respirava un’atmosfera molto più opprimente del solito. O forse era solo una sua impressione, causata dalla sua breve ma intensa vacanza, se così si poteva chiamare, di quei giorni. Camminò spedita lungo l’atrio principale, senza salutare nessuno e senza fermarsi agli sguardi degli spazzini che si voltavano a guardarla. Indossava uno dei suoi completi, con una minigonna veramente corta.
Prese l’ascensore e schiacciò il pulsante per il sottolivello dov’era l’ufficio di Sydney.
Entrò nel laboratorio per simulazioni gettando un’occhiata alla sfera in plexiglas appesa al soffitto al centro della stanza. La luce del neon era puntata proprio su di essa e rimandava un riflesso opaco al pavimento. Miss Parker si fermò un istante ad osservarla, poi procedette controvoglia salendo i tre gradini in marmo scuro che portavano all’accesso all’ufficio dello psichiatra. La porta vetrata era chiusa, bussò e si affacciò prima di ottenere risposta: «Syd, ci sei?» chiese facendo un passo nella stanza.
«Miss Parker! - Sydney si voltò verso la porta posando sullo scaffale della libreria il volume che stava leggendo - Quando sei tornata?» chiese.
«Arrivo ora dall’aeroporto.» rispose avvicinandosi alla scrivania dietro la quale era andato a sedersi l’uomo.
«È andato tutto bene?» si informò.
Miss Parker sistemò i capelli dietro le orecchie e strinse le labbra sospirando: «Alla fine… sì.» rispose senza convinzione nella voce.
Sydney la guardò negli occhi, chini sulle mani che si contorcevano senza sosta nervosamente attorno ad un pezzo di carta.
«Che cos’è?» chiese riferendosi al foglio che stringeva.
«Solo un pezzo di carta, Syd.» rispose mentendo. Lo trattenne ancora un po’, poi lo posò sulla scrivania spingendolo verso lo psichiatra.
Lui lo prese tra le dita sollevandolo leggermente per leggere meglio, si infilò gli occhiali, sorrise.
Miss Parker sospirò voltandosi intorno, per non vedere il viso di Sydney, per staccare la mente da quel foglio.
«È molto dolce, Parker. Così avrai un loro ricordo.» asserì Sydney.
«Avrei preferito non averne nessuno!» fece lei continuando a passeggiare senza meta davanti alla scrivania, cercando di non guardare il foglio, o Sydney.
«Io credo che non sia vero.»
Miss Parker rimase in silenzio, ferma davanti alla porta, indecisa se rimanere o andarsene. Scelse di rimanere.
«L’ho trovato nella tasca della giacca quando ero già a Blue Cove.» spiegò. La sua schiena era rivolta allo psichiatra, i suoi occhi lucidi, non voleva che lui lo notasse.
Sydney alzò di nuovo il biglietto sotto la luce, lo rilesse, solamente tre parole, cariche di significato, soprattutto per una persona come Miss Parker alla quale i bambini non erano mai piaciuti e ai quali lei non era mai piaciuta.
Miss Parker strinse i pugni incrociando le braccia sul petto e voltandosi di scatto.
«Non voglio avere nessun loro ricordo, Syd.» sibilò con uno sguardo di ghiaccio.
«Non è vero.» ribatté nuovamente.
Miss Parker distolse lo sguardo. Aveva ragione, ma si impose di dimenticare i visi meravigliosamente teneri dei due gemellini biondi.
Sydney le porse il biglietto, lei tentennò, indecisa se prenderlo e tenerlo custodito come un tesoro, prenderlo e strapparlo, o lasciarlo a Sydney, che ne facesse ciò che desiderava.
«Parker…» la richiamò l’uomo.
«Mi mancano.» ammise dolorosamente chinando il capo.
«Lo posso immaginare.»
Miss Parker prese il biglietto, lo lesse un’ultima volta, lo piegò accuratamente e lo infilò di nuovo nella tasca della giacca. Nella sua mente riecheggiò la voce di Adam che le chiedeva di restare, l’immagine di Eve che la stringeva, vide se stessa piangere sul sedile della propria auto dopo aver letto l’ultimo ricordo di quelle giornate: “we love you”.
«Dimmi, Syd, ci sono state novità durante le mia assenza?» chiese abbandonando l’argomento per distrarsi.
Lo psichiatra non fece in tempo a rispondere che Broots entrò nella stanza senza bussare: «Syd, - esordì. Rendendosi conto di non essere soli si fermò sulla soglia fissando Miss Parker. Sbatté le palpebre un paio di volte e balbettò un accenno di saluto: - Oh, Miss Parker, bentornata…»
«Broots, l’hai trovato?» lo interruppe Sydney raggiungendolo.
«No, purtroppo no, ma ho trovato questo.» si scusò porgendo all’uomo un foglio.
«Di che cosa state parlando?» chiese la donna incuriosita facendo da parte Broots con una mano.
Sydney lesse il foglio in silenzio, pensieroso, andando a sedersi dietro la scrivania.
«Miss Parker…» cominciò Broots.
«Si tratta di Jarod?» chiese lei intuendo qualcosa. Il suo sesto senso non la tradiva mai.
«Si.» confermò Sydney ripiegando il foglio in quattro e gettandolo sul ripiano della scrivania.
«Dov’è adesso?»
Sydney e Broots si guardarono colpevoli e sospirarono entrambi, lasciando Miss Parker tremendamente irritata e curiosa.
«Syd…» bisbigliò temendo il peggio.
«Non lo sappiamo.» rispose infine l’uomo indicandole il foglio con lo sguardo.
Miss Parker sollevò il foglio incredula: «Come non lo sapete?!» gridò. Lesse il documento. Era classificato come strettamente confidenziale, indirizzato a Mr Parker in data giornaliera: “il soggetto è stato iniziato alla fase due, risponde bene alla terapia e crediamo possa essere utilizzato a partire dalla prossima settimana.”
«Che cosa significa? - chiese lasciando cadere il foglio sul tavolo - Credete che si riferisca a Jarod?»
Broots annuì con la testa: «L’ho trovato tra i file di Raines questa mattina.» spiegò.
«Sydney, io credevo che saresti stato tu il suo tutore, come sempre…» continuò la donna guardando il viso dello psichiatra.
«Lo credevo anch’io, ma non siamo nemmeno stati avvertiti dell’arrivo di Jarod al Centro, non abbiamo neanche potuto vederlo… Spero solo che stia bene.» fece a testa china.
«A dire la verità non sappiamo con certezza se sia al Centro, lo supponiamo.» specificò Broots andando a sedersi su una della poltroncine accostate al muro.
Miss Parker era rimasta in piedi, senza parole, spostando lo sguardo dal volto di Sydney a quello di Broots senza sapere cosa realmente stava vedendo; la sua mente era altrove, seguiva una strana associazione di idee, idee che non sapeva nemmeno da dove arrivassero, ma che sentiva reali, mostruosamente reali: udiva le grida disperate, sentiva l’odore del sangue, e poteva vedere la sua ombra contorcersi sotto i colpi della catena.
Rabbrividì sbattendo le palpebre nell’intento di scuotersi da quella atroce sensazione.
«Abbiamo controllato ogni registrazione del servizio di sorveglianza, ma non c’è traccia di Jarod, né di anomalie, nemmeno nel SL-27 o nell’Ala Rinnovamento.» stava proseguendo Broots.
«Quei figli di…» imprecò fuori di sé.
«Calmati, Parker, se è qui lo troveremo.» disse Sydney senza realmente crederci. Ma il suo tono era deciso, e risoluto. Miss Parker si tacque per qualche istante.
«Che cosa possiamo fare?» chiese Broots rompendo finalmente il silenzio.
Nessuno rispose. Miss Parker si ricompose, scacciò il velo dai suoi occhi azzurri, trasse un profondo sospiro e lasciò l’ufficio diretta all’ascensore.
Non si sentiva a suo agio. Era sola nella cabina, uno spazzino era appena uscito lanciandole un’occhiata furtiva in segno di riconoscimento. L’ascensore salì due piani, poi si fermò, le porte scorrevoli si aprirono. Dalla parte opposta non c’era nessuno. Miss Parker rimase immobile, scrutando il corridoio deserto, il piano buio. Spinse di nuovo il pulsante della sua destinazione spazientita e le porte si richiusero, come un occhio.
Istintivamente si ritrovò con lo sguardo al soffitto: nell’angolo in alto alla sua destra un vecchio foro di proiettile le rammentò le sue origini. Strinse i denti fino a farsi male, giusto per riportare la sua mente all’erta.
L’ascensore si fermò e lei uscì raggiungendo a grandi passi le lastre di vetro opaco che costituivano la porta dell’ufficio di suo padre. La spalancò a due mani ed entrò senza attendere oltre.
Suo padre era rivolto di spalle, in piedi dietro la sua scrivania e parlava ad un registratore portatile. Sentendo l’inconfondibile ticchettio dei tacchi della figlia sul pavimento lucido si voltò di scatto sollevando i baffi bianchi in un sorriso: «Oh, angelo mio, sei tornata!» la salutò spegnendo il registratore.
«Papà…» fece avvicinandosi e ricambiando il sorriso. I suoi canini appuntiti lo fecero risultare vagamente demoniaco, ma suo padre non se ne accorse.
«Sapevo che prima o poi ce l’avresti fatta, tesoro, non ho mai dubitato che avresti riportato qui Jarod.» disse andando ad abbracciarla senza slancio.
Miss Parker si tolse il sorriso dalle labbra e si liberò in fretta dalla presa. Raggiunse la scrivania con passi lenti e misurati, svogliatamente, passando un dito sul bordo del tavolo e controllando con la coda dell’occhio i documenti che vi stavano sopra.
«Papà, sono felice anch’io di essere riuscita finalmente a riportare all’ovile la pecorella smarrita, - mentì - e quindi ho pensato che avrei potuto prendermi… - esitò - qualche giorno di vacanza. - tornò a respirare - … Sempre che tu non abbia bisogno di me.» aggiunse.
Il padre le sorrise di nuovo con gli occhi lucenti, le circondò le spalle col braccio sinistro e la scosse delicatamente: «Ma certo che puoi, angelo, te lo meriti! - rise falsamente. Poi, per rispondere allo sguardo incerto di lei riprese: - Se vuoi ti cedo il mio rifugio per le vacanze a Saint Thomas, - disse - oppure, scegli tu, dovunque tu voglia!» concluse scuotendola più forte.
Miss Parker sorrise di nuovo, chinò la testa e rispose con voce vellutata: «Veramente… preferirei… andare per conto mio, con la macchina.» disse tentennando.
Suo padre gongolò.
«Naturalmente, come preferisci. Farò sgombrare immediatamente il tuo ufficio.»
Miss Parker si staccò da lui sorpresa ed aprì la bocca per parlare, ma non uscì nessun suono.
In quell’istante entrò Lyle.
«Oh, chi si rivede, la mia bella sorellina! - salutò - Come stai? - chiese senza interesse - E come è andato il viaggio?» aggiunse sogghignando in tono di sfida.
Miss Parker gli rivolse una smorfia di intesa rimanendo a braccia conserte e tornò a rivolgersi al padre: «Papà, io pensavo di liberare l’ufficio domani, non c’è fretta, in fondo.» riuscì a dire.
«Ma come, sei appena tornata e già te ne vai?! - fece Lyle col suo abituale tono sarcastico - Papà non deve averti dato una mancia adeguata per avere un’aria così risentita!» scherzò.
«Ora basta, - Mr Parker li zittì prima che Miss Parker ribattesse velenosamente - cercate di andare d’accordo per una volta, in fondo questi sono giorni di gloria per il Centro e per la famiglia Parker: - disse - Jarod è finalmente tornato, e siete stati proprio voi due a farlo tornare.» concluse prendendo entrambi i figli in un abbraccio poco paterno.
«A proposito di Jarod, - cominciò Miss Parker - ho saputo che Sydney non è più il suo supervisore. Tu ne sai qualcosa, Lyle?» chiese retoricamente accentuando il tono sul nome del fratello.
L’uomo senza un pollice le sorrise sadicamente: «Forse papà ha ragione: hai proprio bisogno di una vacanza!»
«Lyle! - lo riprese Mr Parker - Dimenticati di Jarod, angelo, - tornò a rivolgersi alla figlia - ormai quell’essere non ti darà più alcun fastidio e non ti riempirà più la testa con menzogne su me e tua madre.» concluse risoluto.
Miss Parker esitò ancora un momento al centro della stanza, guardando gelidamente negli occhi il fratello, che ricambiò ghignando beffardamente.
Lyle uscì mentre suo padre andò a sedersi sulla poltrona in pelle nera dietro la sua scrivania.
Una volta soli Miss Parker si avvicinò nuovamente al padre, cercando di non urtare di nuovo contro il muro di bugie ben costruite che lo attorniava.
«Papà, dimmi la verità, Jarod è qui al Centro?»
Mr Parker alzò il viso su quello di lei, ammirando la fredda bellezza della figlia e ricordando la moglie scomparsa.
«Tesoro…» cominciò.
«Lo so che non approvi, ma io voglio sapere se sta bene, Sydney lo vuole sapere, vorrei… vederlo.» ammise.
Il padre sospirò tentennando.
“Cerca una scusa.” pensò malignamente Miss Parker.
«Io non so dove sia, in realtà; ho affidato a Raines il progetto “Simulatore”, è lui che se ne occupa, ora…»
«Quell’asmatico bastardo…»
«Angelo! - la richiamò suo padre con occhi severi - ti prego di moderare i termini.»
Miss Parker sbuffò: «Potrei chiamarlo in tanti modi, … ma se preferisci ci metto il “signore” davanti!»
«Tesoro, ti prego, non andare a cercare altra sofferenza, dammi retta! - sbottò - Lasciati alle spalle tutta questa triste storia e rilassati.» ordinò.
Miss Parker strinse le labbra e annuì col capo, visibilmente insoddisfatta. Si voltò e raggiunse elegantemente la porta, lasciando che i tacchi a spillo delle sue scarpe firmate ticchettassero in modo irritante sul pavimento.
Spalancò la porta con un unico gesto ed uscì nel corridoio.
Suo padre mentiva, lo sentiva chiaramente dentro di sé come una febbre, e non poteva fare nulla per aiutare Sydney e Broots a rintracciare Jarod. Inoltre, ad ulteriore conferma ai sospetti che aveva, il padre l’aveva lasciata libera di sgomberare l’ufficio, addirittura cercando di allontanarla il giorno stesso. Lyle e Raines avevano in mente qualcosa, e suo padre li stava coprendo, ne era certa. Volevano sbarazzarsi di lei il prima possibile per tenerla all’oscuro… dei loro piani riguardo a Jarod, o chissà cos’altro.
Grugnì di rabbia entrando nel suo ufficio. Cominciò a pensare a dove avrebbe potuto cercare Jarod.

Quella notte non riuscì a prendere sonno. Si alzò e si infilò la vestaglia di seta andando in soggiorno. Si versò un bicchiere di whisky liscio e si sdraiò sul divano sorseggiandolo. Chiuse gli occhi.
Le porte pesanti scricchiolarono slittando sulle guide poco oliate. L’odore di muffa era irrespirabile. Estrasse la sua pistola, inserendo il primo colpo in canna, per essere pronta ad ogni evenienza. Strisciò felinamente attraverso la fessura che era riuscita a strappare alla porta e posò il piede destro su qualcosa di morbido. Trasalì, ritirando il piede. Il suo cuore aveva avuto un acceleramento improvviso e le ci volle qualche istante per riprendere il controllo della situazione. Era buio, ma in fondo, sulla destra, riusciva a scorgere una luce tenue. E poi sentì le grida disperate.
Aprì gli occhi, scossa da un dolore paralizzante allo stomaco. Posò a terra il bicchiere di whisky precariamente appoggiato al bracciolo del divano e si portò entrambe le mani al ventre. Gemette.
Tentò di alzarsi, ma non riuscì, ricadde con una vampata, seduta, cercando di tenere gli occhi aperti, ma il dolore era insopportabile.
Si allungò alla ricerca della borsa sul tavolino lì accanto, e rovistò freneticamente con la mano sinistra alla ricerca della bottiglietta di medicinale rosa pallido.
“A che cosa serve, Parker, oramai è meglio un dottore.” si rimproverò.
Trovò la bottiglietta, accorgendosi con delusione che era quasi vuota. L’aveva bevuta all’ora di pranzo, quando aveva avuto un altro attacco. Rimase in silenzio, ansimando accaldata semidistesa sul divano, sola. Tirò su col naso. Avrebbe voluto non essere sola. Pensò a Jarod. Il dolore la riportò alla realtà, ma si impose di resistere: presto sarebbe passato, come le altre volte.
Gemette.
Chiuse gli occhi e vide un magnifico cielo stellato, la luna una falce bianchissima, nemmeno una nuvola. Li riaprì.
Il momento era passato. Respirava ancora affannosamente, ma si sentiva già meglio. Ora sentiva solo freddo.
Si alzò faticosamente e raggiunse il bagno; si bagnò i polsi con l’acqua gelata, sentendo il sangue affluire più massicciamente alla testa che le pulsava. Il suo sguardo cadde sul suo viso riflesso nello specchio: la ferita alla testa era praticamente guarita, e la cicatrice non sarebbe stata troppo visibile, come aveva detto Jarod. I suoi occhi però erano cambiati: ora non era più una cacciatrice. Il suo sguardo era più tranquillo ora, freddo, ma dolce e tenero mentre sorrideva involontariamente alla sua immagine.
Tornò a sdraiarsi sotto le coperte, decisa a dormire almeno qualche ora.
Si rese conto di aver posato il piede su di una camicia, o una maglia, in ogni caso un indumento maschile.
Si guardò intorno con circospezione, attenta ad ogni minimo rumore, ma le grida coprivano ogni cosa. Quelle urla non riusciva a sopportarle, le facevano male. Male psicologico.
Decise di dirigersi direttamente verso la fessura di luce in fondo al corridoio a destra. Lentamente.
Il suolo che calpestava era privo di pavimentazione e ogni suo passo rimbombava nell’oscurità. Raggiunse la fessura tentando di fare il minor rumore possibile: era una porta oscillante, al di là della quale non sapeva che cosa avrebbe trovato. La scostò con il piede sinistro e infilò la canna della sua arma tra le ante.
La luce le colpì gli occhi; per un istante non vide più niente.

Un forte rumore accanto a sé lo svegliò. Aprì gli occhi sbattendo le palpebre più volte. La luce artificiale rossa che lo colpiva mandava un mormorio ritmico, di elettricità. Si guardò intorno per quanto poté.
Gli faceva male tutto il corpo, si sentiva trafiggere da mille aghi. Non riusciva a respirare dal dolore, non riusciva neppure a muoversi. Era legato, immobilizzato.
C’era qualcuno nella stanza, sentiva il suo respiro, i suoi passi, ma non riusciva a vederlo.
Rabbrividì non appena qualcosa sfiorò la sua mano destra. Era freddo, e duro. Cercò di sollevare la testa dal tavolo, ma era troppo pesante, davvero impossibile da muovere, e così le gambe, le braccia, e tutto il resto del corpo.
«Non ti agitare. Non ci vorrà molto.» bisbigliò una voce risoluta accanto al letto. Il tono era stato secco ed inespressivo, glaciale. La voce di uno spazzino.
«Che cosa…» tentò di biascicare, ma non riuscì a pronunciare correttamente le parole. Nessun suono oltre questo uscì dalla sua bocca. Si sentiva le labbra secche, la gola bruciava, gli occhi irritati faticavano a rimanere aperti.
Lo spazzino gli stava slegando una mano, per poterla spostare su un carrello coperto da un telo sterile alla sua destra.
La luce rossa nella stanza rendeva il viso dello spazzino ancora più accigliato, disegnando ombre demoniache sulla sua fronte e le sue mani sembravano già coperte di sangue mentre si infilava i guanti. Sollevò una siringa.
Jarod sentì la puntura sulla mano. Gridò.
Lo spazzino sembrò non farci caso. Prelevò un campione di sangue e lo ripose con cura dietro di sé, Jarod non riusciva a vedere dove.
«Mmmh…» si lamentò cercando di ritirare il braccio verso di sé.
Non vi riuscì, il suo bracco scivolò dal carrello, che venne spinto poco più in là, e rimase a penzolare, oscillando pesantemente fuori dal bordo.
Lo spazzino senza cambiare la sua espressione di una virgola sollevò il braccio di Jarod e lo ripose sul tavolo, accanto al corpo, legandolo di nuovo alla sponda con le cinghie.
Gli avevano prelevato il sangue. Perché?
Rinunciò a pensare.
Lo spazzino si portò sull’altro lato del tavolo e, stavolta senza slegare il braccio di Jarod, infilò un nuovo ago nella vena sulla sua mano, attaccando a questo il tubo di una flebo. Jarod tentò di seguire con lo sguardo l’altro capo del tubicino, ma gli girava la testa. Dovette chiudere gli occhi. Sentiva già il liquido scorrere nelle sue vene. Che cosa gli stavano facendo? Perché Sydney non era lì, perché permetteva tutto questo?
Una lacrima involontaria scese agli angoli dei suoi occhi chiusi.
Sentì i passi dello spazzino che si allontanava. E questo fu l’ultimo suo ricordo.

Miss Parker dondolava nervosamente le gambe accavallate sotto la lastra di vetro della sua scrivania.
Il suo ufficio era illuminato come sempre dalla grande vetrata alle sue spalle, ma era diverso quella mattina. L’inquietudine di Miss Parker lo rendeva saturo e vuoto allo stesso tempo. Gli scatoloni bianchi di imballaggio rendevano l’ambiente ancora meno accogliente. Avrebbe dovuto impacchettare tutta la sua roba, svuotare l’ufficio ed andarsene, ma aveva altro per la testa.
Ticchettava le unghie della mano sinistra sul ripiano, e con la desta stringeva il foglio che Broots aveva portato nell’ufficio di Sydney il giorno prima. Era ormai la centesima volta che lo leggeva e rileggeva, senza riuscire a smettere di farsi domande del tipo: “che cosa avranno intenzione di fargli?”, “dove lo avranno portato?”, oppure “chissà se sta bene…?”.
Sospirò. Piegò di nuovo il foglio in quattro e si alzò di scatto dalla poltrona. Si infilò la giacca del tailleur nero ed uscì a grandi passi dal suo ufficio.
Il corridoio era pieno di spazzini, tentò furtivamente di passare inosservata, ma Sam la fermò: «Miss Parker, vuole che cominci a riempire gli scatoloni?» chiese.
«Ordini di mio padre?» domandò lei gelida squadrandolo.
«Come, scusi?!» fece lo spazzino sorpreso.
«Non importa, Sam, preferisco fare da sola. - tagliò corto girandosi. - Ah, Sam… - aggiunse raggiungendo l’ascensore: - fai in modo che nessuno si avvicini a quell’ufficio, ne va delle tua vita.» concluse andandosene.
L’ascensore la portò a destinazione: il sottolivello ventisei. Il corridoio era buio e non c’era nessuno.
“Meglio così.” pensò.
I suoi passi avanzarono nell’ombra per alcuni metri, unica fonte di suono in tutto il sottolivello. Si fermò di fronte ad una grata di aerazione. Si guardò intorno un istante, osservando l’aria immobile attorno a sé. Con un coltellino tascabile che aveva recuperato apposta si apprestò a togliere le viti che fermavano la grata.
Una volta rimosso l’ostacolo, lo posò a terra e con circospezione si guardò intorno ancora una volta.
«Angelo?» chiamò sottovoce.
Nessuno rispose.
Miss Parker si accinse ad intrufolarsi nel condotto. Strisciò faticosamente sino al tubo principale, dove finalmente riuscì a recuperare una posizione semieretta, facendosi strada con la torcia elettrica.
«Angelo? …» chiamò ancora un po’ più forte.
In un angolo vide una coperta consumata arrotolata in fretta, accanto, uno scatolone che aveva l’aria di essere lì da parecchi anni.
Miss Parker si avvicinò, chinandosi sullo scatolone e tentando di sollevare il coperchio.
«Miss Parker…»
Miss Parker sussultò spaventata, voltandosi di scatto già accarezzando il calcio della sua pistola.
«Mio dio, Angelo! - imprecò - Non ti avevo sentito arrivare.»
L’uomo la osservava con gli occhi azzurri spalancati.
«Angelo, ho bisogno del tuo aiuto.» disse finalmente. Miss Parker frugò nella tasca della giacca e ne estrasse il foglio spiegazzato.
«Miss Parker… preoccupata?» fece l’uomo sfiorandole una mano.
Lei non si scompose, stringendo le labbra annuì impercettibilmente e continuò: «Ho bisogno che tu mi dica che cosa senti.» Gli porse il foglio.
Angelo prese il foglio rigirandolo tra le mani. Non lo lesse, lo annusò, poi si guardò intorno lasciandolo cadere a terra. Miss Parker assisteva alla scena visibilmente preoccupata, con l’espressione accigliata di chi tenta di capire ma non può. Angelo era tornato sui suoi passi, era uscito dal condotto e Miss Parker lo seguì riluttante.
«Miss Parker… ha paura. - disse infine Angelo nel buio del corridoio - Miss Parker… - ripeté - … non può vedere, il sangue, le catene, … - Angelo si interruppe, alzando timidamente una mano sul volto della donna e posando le dita sulle sue orecchie. - Miss Parker sente le urla, ma non può vedere!» disse con enfasi.
Miss Parker non capiva, ma sapeva che quelle immagini che ora Angelo stava evocando appartenevano alla sua memoria; al suo subconscio, per lo meno. Ciononostante non riusciva a capire il nesso.
«Miss Parker…» sussurrò Angelo guardandola negli occhi.
«Tu sai dove si trova, Angelo? Dimmelo: dove si trova Jarod?» domandò.
L’uomo rimase immobile, gli occhi spalancati su di lei, la bocca semiaperta.
«Devi ascoltare, Miss Parker.» disse enigmaticamente con il dito indice alzato al soffitto.
Miss Parker seguì la direzione con lo sguardo.
«Che cosa dovrei ascoltare esattamente?!» fece poco convinta.
«Ti porteranno da lui. Solo tu lo puoi sentire. Miss Parker deve ascoltare.» ripeté.

«Notizie?» chiese sinteticamente entrando nella stanza.
«Nessuna, purtroppo.» rispose altrettanto sinteticamente Sydney.
Miss Parker posò la sua valigetta sul tavolo ingombro di carte.
«Siete sicuri di aver controllato ovunque, in questo dannatissimo posto?» sbraitò sottovoce per non farsi sentire da orecchie indiscrete.
Broots si scostò dalla sua scrivania: «L’unica cosa ragionevole da pensare è che Jarod non sia più al Centro, ma che l’abbiano trasferito.»
Miss Parker tentennò. Giocando con le dita sul ripiano chiuse gli occhi sforzandosi di non perdere la calma.
«Miss Parker…» Sydney attirò la sua attenzione.
«Dove? - chiese scuotendosi dai sui pensieri - Dove potrebbe essere?»
«Bhè… - iniziò Broots avvicinandosi con la sedia a ruote al tavolo cui erano accostati lo psichiatra e la donna. Sollevò dal tavolo un paio di fogli seppelliti sotto gli altri e li porse a Miss Parker: - … forse Raines lo ha già fatto trasferire in Africa, al Triumvirato. - disse - Oppure in uno dei suoi laboratori segreti.» continuò.
Miss Parker lesse alcune righe: “Chiedo opportunamente che il progetto venga accelerato per consentire all’esperimento una sicura riuscita sotto ogni punto di vista. Pertanto trasferirò il soggetto in luogo più appropriato per la sicurezza e l’esito del progetto.” La firma era quella di Raines.
«Quella è una copia del documento che Raines ha sottoposto a tuo padre il giorno stesso in cui Jarod è stato riportato al Centro.»
Miss Parker si sedette su una poltroncina sospirando. Suo padre sapeva tutto e le aveva deliberatamente mentito.
«Parker… - Sydney le posò una mano sulla spalla come leggendo i suoi pensieri: - non è detto che tuo padre ti abbia mentito. - disse - Raines ha acquistato un particolare prestigio agli occhi del Triumvirato, potrebbe scavalcare l’autorità e diventare una minaccia seria… per tuo padre, per te, per… Jarod.»
Miss Parker lo guardava con gli occhi sbarrati, incredula nel sentirlo pronunciare tali parole di scusa per suo padre.
«Che cosa facciamo, ora?» disse Broots.
Sydney sospirò profondamente.

Si scostò scacciando il raggio di luce che l’aveva colpita agli occhi. Le lampadine nude pendevano dal soffitto con estrema innaturalezza, come impiccati. Grugnì infastidita e aprì la porta oscillante del tutto. Il corridoio era deserto. Impugnò più saldamente la sua arma ad un nuovo grido di sofferenza. Fece un passo avanti, incerta. Non capiva quell’inquietudine, quell’ansia che le impediva di muoversi più scioltamente, legandola alla gola e soffocandola di paura. Il dolore lancinante che le sue grida le causavano erano come milioni di spilli che la trafiggevano. Nonostante tutto non poteva impedirsi di continuare a mettere avanti un piede dopo l’altro, scivolando lentamente in direzione delle grida. Giunse ai tre scalini che davano accesso ad una porta blindata. Preparò la sua arma, afferrò la maniglia e spinse la porta pesantemente. L’odore del sangue l’avvolse e le grida si fecero più vicine, più acute, più sofferte.
Si svegliò accaldata. La gola secca. Quelle sensazioni innaturali non la abbandonarono: si sentì intrappolata, sola, angosciata, … che cosa cercava in quel posto? Dove diamine era quel posto? Perché continuava a sognare?
Forse non aveva bisogno di cercare la risposta.
Ansimò alla ricerca dell’interruttore sul comodino alla sua sinistra e accese la luce. In quell’istante, quando la luce intensa illuminò la stanza da letto, quando i suoi occhi smisero di vedere, Miss Parker precipitò. Si sentì svuotare completamente l’anima, senza motivo, senza alcun preavviso.
Mise a fuoco l’immagine della sua stanza da letto, le pareti chiare, ombreggiate dalla notte, il letto coperto dalla biancheria scura, la sua vestaglia, le pantofole, il comodino con la lampada da tavolo, la sveglia e la foto di sua madre. Vide se stessa riflessa nello specchio del comò alla parete opposta, i suoi capelli neri erano spettinati ed elettrici, il suo viso pallido risaltava ancora di più e gli occhi spaventati la fissavano increduli. Si sistemò meglio, tentando di raccogliere le idee.
Non riusciva a pensare ad altro che a Jarod.
Si distese di nuovo. Non voleva più sognare. Non voleva più sentire le sue grida sofferenti, sentire l’odore del sangue, e vedere la sua ombra contorcersi impotente. Chiuse gli occhi cercando di impedirsi di piangere.
Era solo un sogno dopotutto. Non sapeva che cosa in realtà stesse sognando, era solo una vaga sensazione. Una terribile sensazione che le attanagliava lo stomaco e la tratteneva nel sogno anche da sveglia.
Magari era solo colpa della sua ulcera.
Si portò una mano sullo stomaco istintivamente.
Aprì gli occhi sbattendo le palpebre un paio di volte. L’odore del sangue era penetrante e le stava invadendo l’anima. Ebbe un capogiro. Nell’attimo di smarrimento si accorse di essere tornata nel laboratorio per simulazioni, e poté vedere, tremolante nella penombra, la parete accanto a sé grondare sangue.
Si trasse a sedere di scatto. Era di nuovo in camera sua.
Che cosa significavano quei sogni? Perché non riusciva a liberarsene? Perché aveva così tanta paura, a cosa era dovuta quell’angoscia insuperabile?
Miss Parker stava per scoppiare dalla disperazione, era sull’orlo di una crisi di nervi, ed era sola.
Singhiozzò sforzandosi inutilmente di mantenere la calma, anche se sapeva che qualunque cosa avesse fatto, non appena avesse chiuso gli occhi nuovamente quelle tremende immagini e le opprimenti sensazioni si sarebbero affacciate al suo subconscio, rendendola inerme.
Allora le tornarono in mente le parole di Angelo: “Miss Parker deve ascoltare, ti porteranno da lui.”
«Devo ascoltare. - ripeté in un sussurro - Cosa dovrei sentire? - si chiese - Che cosa…» fece sforzando la sua mente stanca.
Tutto quello che sentiva era il silenzio. Poi lentamente riuscì a percepire in lontananza le sue grida.
Era solo un mormorio lontano, ma era certa di non sbagliarsi: stava gridando, ed erano le stesse identiche sofferte urla che la laceravano nel sogno. Ma ora era sveglia. O forse stava ancora sognando?! Le grida erano nella sua testa.
Le sembrava di impazzire, non capiva più nulla, sentiva solo che doveva fare qualcosa per impedire loro di fargli del male, doveva farli smettere, doveva salvarlo, o non sarebbe più riuscita a vivere!
«Aiutami, ti prego! - bisbigliò a se stessa raggomitolata tra le lenzuola - Dove sei?»
“Miss Parker deve ascoltare.” ripeté la voce di Angelo nella sua testa.

“Dove sei?” continuava a ripetersi.
Percorse lentamente, ma con passo nervoso, il corridoio illuminato del sottolivello quattordici diretta all’ascensore.
Quando le porte scorrevoli slittarono sui carrelli aprendosi automaticamente davanti a lei, le pareti interne della cabina si tinsero di nero, lasciando trapelare un solo filo di luce dall’alto, nell’angolo. Miss Parker rimase immobile, le labbra socchiuse, gli occhi spalancati, la sigaretta nella sua mano destra tremò, lasciando cadere la cenere a terra. Non osò entrare. La luce chiara illuminava delicatamente i volumi, creando un chiaroscuro definito sul vestito della donna sul pavimento. Miss Parker si sentì la sigaretta scivolare dalle mani, ma non la trattenne, non voleva che sua madre la vedesse fumare. Si accorse di aver pensato una sciocchezza.
“Mamma…” mormorò dentro di sé sentendo le lacrime affiorare agli occhi.
L’aria nella cabina buia rimase immobile, solo il suo respiro concitato, somigliante molto più ad un sommesso singhiozzo, si liberava tra le mura imponenti del sottosuolo. Miss Parker non osava entrare nella cabina, non osava inginocchiarsi sul pavimento accanto alla donna, se lo avesse fatto che cosa sarebbe successo? Avrebbe scoperto che non c’era più nulla da fare? Che era morta? Che sua madre… improvvisamente il ronzio delle porte scorrevoli dell’ascensore la riportò alla realtà e Miss Parker gettò una mano nella fessura che stava per chiudersi, sforzandosi di riaprire. Finalmente cedettero e con una piccola perdita di equilibrio si ritrovò all’interno. Era vuoto. La luce regolarmente funzionante, il pavimento sgombro, pulito. Niente macchie di sangue, niente cadavere, nulla.
Le porte scorrevoli si richiusero di nuovo, e stavolta nessuno le fermò. Miss Parker attese ancora un istante prima di pigiare il bottone, gli occhi ancora invasi dalle lacrime.
Durò poco. Uscì nel pianerottolo con la stessa sprezzante determinazione nel volto di quando era entrata dall’ingresso principale qualche minuto prima, e si diresse con fare sicuro verso l’ufficio di Sydney.
Trovò l’ufficio vuoto.
Seccata, si guardò intorno cercando qualcosa che la potesse aiutare. Il tavolo dello psichiatra era ingombro di carta, dati di statistica e documenti da archiviare, cartelle mediche e una scatolina contenente dischetti dell’archivio digitale del Centro. Miss Parker uscì nel laboratorio per simulazioni e sbirciò oltre l’entrata, nel corridoio, ma nessuno era in vista.
Tornò nell’ufficio di Sydney, chiudendosi la porta alle spalle e andando a sedersi dietro la scrivania. Sollevò il lettore di dsa dal pavimento accanto a lei e cominciò a visionare i primi filmati: le date erano recenti.
L’immagine di Raines, calvo, secco, spiritato, percorreva il corridoio largo ed illuminato. La didascalia in basso a sinistra indicava: 10/18/01, RENEWAL WING, FOR CENTRE USE ONLY.
“Il giorno in cui Jarod è stato portato al Centro.” pensò Miss Parker.
Raines era in compagnia di Willy e di un altro paio di uomini in nero. Si fermarono di fronte ad una delle porte di accesso. Un uomo di schiena si affacciò all’occhio della telecamera.
«La terapia è già cominciata. - disse la voce di Lyle. “Bastardo!” pensò. - E Miss Parker?» chiese l’uomo.
«È riuscita miracolosamente a sfuggire a due tentativi.» rispose Willy mentre Raines traeva una profonda boccata di fumo dalla sua sigaretta accesa, tossendo di conseguenza.
«Significa che non avremo i gemelli e che quella rompiscatole ci sarà presto di nuovo tra i piedi?!» ribatté Lyle retoricamente.
«Forse possiamo ancora avere i bambini. - ansimò Raines espirando il fumo - Sappiamo per certo che Miss Parker era diretta a Butte, nel Montana.»
Lyle, rimanendo di spalle: «Invio subito una squadra.» Poi Sparì.
“Dannazione!”
«Miss Parker?»
La voce di Sydney la fece sussultare.
«Ah, Syd, …»
«Credevo fossi andata a casa, ti stavo venendo a cercare, ma a quanto pare ti sei servita da sola.»
«Perdonami, Syd, credevo non ci fosse nessuno.»
«È molto tardi Miss Parker.» asserì l’uomo.
Miss Parker tolse il dischetto dal lettore e lo rigirò tra le dita.
«Broots lo ha trovato un’ora fa nell’archivio. Crediamo che Jarod si trovi da qualche parte nell’Ala Rinnovamento, ma Raines ha posto una sorveglianza speciale, non possiamo accedervi.» mormorò quasi sconsolato.
«E… i bambini?» chiese Miss Parker.
«Non ne sappiamo nulla.»
Miss Parker stirò un sorriso di rammarico: «Tanto per cambiare! - esclamò. Dopo una pausa aggiunse: - Non possono averli trovati, non sono dove pensano loro… a dire il vero non lo so neppure io dove siano ora…»
«Perché sei tornata, Parker?»
Sospirò, massaggiandosi le tempie. Sollevò lo sguardo a cercare quello di Sydney: «Ho parlato con Angelo, oggi. Lui non mi ha detto nulla di Jarod, ha solo farneticato qualcosa su… - Miss Parker gesticolò incomprensibilmente - … su l’ascoltare.» concluse.
«Credi che Angelo sappia dove sia Jarod?»
«Credo che impazzirò se non ne vengo a capo, Sydney… da quando è cominciata questa assurda storia non faccio che avere incubi spaventosi, non riesco a dormire decentemente una notte e ho i nervi a fior di pelle!»
Sydney si sedette di fronte e lei, dalla parte opposta della scrivania: «Che tipo di sogni?»
«Sento le sue urla disperate, lo torturano, lo frustano. Io non riesco a vederlo… ma so che non è lontano, e mi ritrovo in un laboratorio per simulazioni, e le pareti sono insanguinate…»
«Senti le grida di Jarod?»
Miss Parker abbassò gli occhi in segno affermativo. «Se fosse reale…»
«Sarebbe terribile.» concluse lo psichiatra.
Miss Parker rimase in silenzio per un istante ancora.
«Se quel posto esiste, quel posto è al Centro, e ho intenzione di scovarlo.» disse infine.
«Come? Raines e Lyle ci stanno tenendo d’occhio: mi sento lo sguardo vigile dei loro spazzini alle spalle ogni momento, non possiamo esporci più di tanto, dobbiamo essere prudenti, Parker.»
«Ma lo uccideranno, Syd! - gridò tentando di soffocare le proprie parole. - Abbiamo comunque un punto di partenza: l’Ala Rinnovamento.» affermò decisa puntando l’indice verso lo psichiatra.
«È pericoloso, Parker, questa volta nemmeno tuo padre potrà salvarti! Raines è in accordo con la Torre, se…»
«Non me ne importa un accidente!» tagliò corto.
Si guardarono negli occhi entrambi, gli animi agitati. Sydney fu il primo a distogliere lo sguardo, sentendo di non poter sostenere un istante di più la vista del viso candido di lei, con quegli occhi risoluti e tremanti di rabbia e sconforto allo stesso tempo.
Miss Parker si alzò. Raggiunse la porta e si voltò un attimo indietro: «Se tu avessi sentito le sue grida… non esiteresti un istante.» disse.
«Aspetta, Parker. - la trattenne Sydney - C’è una cosa che devi vedere.»

Catherine Parker percorse velocemente il corridoio del SL-27 stringendo al petto un fascicolo voluminoso di cartelle mediche. La sua agitazione era palpabile nonostante la sua figura si intravedesse appena nella penombra e fosse filtrata dalla freddezza insana dello schermo. La didascalia collocava quelle immagini al 04/12/70, il giorno prima della sua morte. La donna si guardò intorno con espressione preoccupata sul volto bianco. La telecamera di sorveglianza seguì i suoi movimenti lungo il corridoio, sino a che non raggiunse una porta chiusa alla sua destra. Catherine Parker spiò all’interno attraverso la feritoia e, controllando che nessuno l’avesse seguita, entrò. La stanza era poco illuminata e alle pareti erano appesi tanti pezzi di carta di giornale strappata, con apparente casualità. La donna rimase al centro della stanza osservando con gli occhi spalancati ed un’espressione d’orrore sul viso l’insolita carta da parati. I suoi occhi si riempirono lentamente di lacrime, e la sua figura si strinse ancora di più attorno al fascicolo che stava stringendo ora con mani tremanti di rabbia, disapprovazione e disperazione. Lasciò sfuggire dalle sue labbra un lieve grido di dolore che fece tremare la coscienza di Miss Parker. Catherine Parker si voltò per uscire dalla stanza. Sulla soglia c’era una figura in ombra.
«Non avrebbe dovuto spingersi tanto oltre, Mrs Parker.» la apostrofò una voce maschile.
Catherine Parker trasalì, ritraendosi verso la parete. «Stia lontano da me!» gridò quasi terrorizzata.
L’uomo scivolò nella sua direzione, mantenendosi scostato dalla luce. «Non avrebbe dovuto cercare nell’archivio; - continuò la voce maschile con tono minaccioso - a sua figlia non farebbe piacere sapere che lei è così…»
«Lasci in pace mia figlia!» gridò Catherine Parker zittendo l’uomo prima che finisse la frase.
«Allora mi ridia quei fascicoli.» disse calmo l’uomo avvicinandosi ulteriormente e tendendo una mano nella sua direzione.
La donna si ritrasse ancora fino a posare la schiena alla parete fatta di carta.
«Mi dia quei rapporti!» ordinò più perentoriamente la voce.
Lei sembrava non sentire nemmeno le sue parole, fissando sbigottita lo sguardo buio dell’uomo che la stava spingendo sempre più contro la parete.
«Mi lasci in pace! Lasci in pace me, mia figlia e mio marito!» continuò Catherine Parker senza esito.
Ansimando, posò le sue dita affusolate contro la carta chiazzata dei giornali e premette, graffiando e stracciando la parete. La carta cedette e la falsa parete si spezzò, facendo cadere la donna sul pavimento dietro di questa. La cartella con i rapporti le scivolò dalle mani per la sorpresa e i fogli si sparpagliarono attorno a lei, che rimase incredula con gli occhi spalancati dalla paura e dalla sorpresa.
«Ma che cosa diavolo è questo posto?!» fece guardandosi intorno. La stanza nascosta era dipinta completamente di nero e sul pavimento era sparsa una sostanza collosa simile a gelatina.
«Che cosa ha intenzione di fare qui dentro, Raines?» gridò.
Miss Parker ebbe un tuffo al cuore al suono di quel nome pronunciato da sua madre e si portò una mano alla bocca.
«Che cosa sta facendo, Raines?!» ripeté con più enfasi nella voce.
«Non si preoccupi dei miei progetti, ora ha cose più importanti alle quali pensare…» fece l’uomo viscidamente.
«Oh mio Dio! - singhiozzò - A quale bambino è riservato questo inferno?!»
«Le avevo detto di non cercare nell’archivio, ma lei non mi ha dato retta!» gridò la voce ora rauca di Raines. La sua figura si abbassò su quella della donna, mostrando il suo volto mostruoso sotto la luce: «Ora nemmeno suo marito sarà in grado di proteggerla dalla Torre!» la ammonì.
Catherine Parker lo fissava visibilmente sconvolta, finché l’uomo non si alzò, rimanendo però nella stanza, aspettando che se ne andasse, la invitò dalla porta ad uscire con un cenno della mano.
La donna ansimò turbata raccogliendo in fretta i fascicoli caduti a terra e ripulendoli dalla sostanza gelatinosa come meglio poteva. Si alzò ricomponendo la sua immagine e uscì in fretta, correndo via per il corridoio sotto lo sguardo truce di Raines.
Il disco era finito e Sydney lo tolse dal lettore. Il viso languido di Miss Parker lo fece sentire in colpa.
«Miss Parker…» cominciò.
«Dove l’avete trovato?» chiese interrompendolo.
«Era nell’archivio, lo ha trovato Broots assieme agli altri, in uno scatolone col nome di tuo padre.» disse.
Miss Parker si alzò improvvisamente in piedi: «Mio padre sapeva di questo?» chiese quasi urlando.
Sydney scosse la testa in segno di disapprovazione: «Non gridare, Parker, … non so che cosa c’entri realmente tuo padre, forse questi dsa sono stati classificati ed archiviati sotto il nome di tuo padre perché non venissero trovati. - disse scuotendola dolcemente per le spalle. Lei si divincolò. I suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. - Naturalmente è solo una supposizione.» continuò lo psichiatra.
«Chissà quanti ce ne sono, allora, nell’archivio!» fece Miss Parker quasi tra sé e sé.
Sydney rimase ad osservare la sua figura longilinea passeggiare nervosamente accanto alla scrivania. Il suo viso pallido e le sue movenze eleganti gli riportarono alla mente la figura della madre che percorreva gli stessi passi nel suo ufficio, pochi minuti prima di entrare in quel maledetto ascensore.
«L’unica cosa che non mi spiego è: perché conservarli, perché nasconderli invece di distruggerli?!» continuò Miss Parker fermandosi a fissare gli occhi pensierosi dello psichiatra.
«Miss Parker…»
«Sydney, - lo interruppe lei nuovamente - … ti prego. Che cosa sai veramente?»
Sydney la guardò con aria interrogativa: «Come?!» fece senza capire che cosa intendesse.
«Syd, tu sei sincero con me, non è vero?!» chiese per conferma.
«Certo, ma non riesco a capire che cosa tu…»
«Syd! - lo interruppe di nuovo - Ho bisogno che tu mi dica la verità!»
Sydney rimase impassibile, il suo sguardo su di lei, compostamente seduto.
«Che cosa vuoi sapere?»
Miss Parker trasse un respiro profondo e si sistemò meglio i capelli prima di porre la sua richiesta: «Dimmi perché tutt’a un tratto ti sei messo a difendere mio padre, perché, sai qualcosa che io non so?!»
Sydney si alzò lentamente dalla sua poltrona e la guardò negli occhi. Il viso di Miss Parker tradiva una miriade di emozioni diverse che difficilmente lo psichiatra sarebbe stato in grado di decifrare.
«Tuo padre ha commesso molti errori nella sua vita,» cominciò.
«E così ho fatto io.» constatò la donna.
«… ma non posso biasimarlo.» terminò quasi ignorando l’osservazione.
Miss Parker lo stava ora fissando negli occhi sempre più stupita.
«La Torre ha minacciato tua madre, te, la sua famiglia; non aveva molta scelta. Ha fatto la cosa che, temo, avrei fatto anche io.»
«Di che cosa stai parlando, Syd?» la voce di Miss Parker suonò rotta, incapace di sfuggire alle labbra tremanti.
«Ha scelto di sacrificare sé stesso per poter salvare voi, ma qualcuno non era d’accordo.» spiegò enigmaticamente.
«Sydney… io contino a non capire: che cosa intendi?»
«Prima che tuo padre rassegnasse le dimissioni dal comando che gli venivano richieste dalla Torre… tua madre venne uccisa.»
Miss Parker sembrò sconvolta, le lacrime cominciarono a scendere sulle sue gote, senza lamenti: «Mio padre voleva lasciare il Centro?!»
«Per te, e per tua madre.»
«Perché… perché non l’ha fatto?! - la voce rotta dall’emozione - Perché non ce ne siamo andati prima che la uccidessero?! Dovevamo arrivare a questo punto!?»
«Parker…»
Miss Parker si asciugò gli occhi velocemente con la mano e riassunse la sua abituale fredda compostezza: «Non ti preoccupare, Sydney, - lo rassicurò tenendo la distanza - ho intenzione di andare in fondo a questa storia, e a qualunque altra il Centro mi sottoporrà, non mi tiro indietro.» affermò risoluta. Prese il pacchetto di sigarette che aveva in tasca e ne accese una. Inspirò e sospirò profondamente, sentendosi piena di fumo e vuota d’affetti.
«Per ora, però, la cosa più urgente è scoprire dove si trova Jarod.» concluse inalando una nuova boccata dalla sua sigaretta.

La sua voce dolce e vellutata lo svegliò delicatamente. Quando aprì gli occhi riconobbe l’odore del sangue. Le ombre vacue che riuscì a distinguere si ricomposero in un soffitto grigio di cemento armato. Non riusciva ancora a muoversi. La schiena gli faceva terribilmente male e faceva fatica a respirare dal dolore.
«Jarod…» disse la voce in un sussurro.
“Sono qui.” rispose in silenzio.
«Non aver paura. - continuò - Io sono qui con te.»
“Non lasciarmi.”
«Non ti lascio.»
Jarod chiuse gli occhi non appena il gentile tocco della sua mano gelida lo sfiorò sulla nuca.
“Dove sono?”
La voce non rispose, ma le sue mani candide carezzarono amorevolmente il suo viso. Jarod aprì gli occhi e l’immagine evanescente della donna gli sorrise.
“Chi sei?” le chiese senza ancora riuscire a ricordare, ma sforzandosi di cercare qualche reminiscenza di quel sorriso immensamente luminoso nei meandri della propria psiche. I denti bianchi, i canini appuntiti. Le labbra delicatamente curve nell’espressione. Gli occhi lucenti, chiari, severi.
L’immagine rimase in silenzio a contemplare il corpo martoriato dell’uomo: le braccia e le gambe livide, il sangue che formava rivoli coagulati era colato sul tavolo di metallo freddo sul quale era disteso e legato. Le catene attorno ai polsi ed alle caviglie.
Un flash attraversò la sua mente: la donna gridava nella sua direzione, gridava il suo nome, il suo viso adirato, i suoi occhi severi.
“Chi sei?” ripeté.
La donna non rispose di nuovo, continuando a carezzare delicatamente il suo corpo, scivolando sul braccio e prendendogli la mano, stringendola saldamente tra le sue.
Jarod la vide di nuovo gridare il suo nome, gridare di fermarsi, e correre.
«Jarod…» disse la donna sussurrando.
«Jarod!» gridò nella sua testa l’immagine irata di lei. Vide la donna alzare la pistola contro di lui e sparare, la vide correre, la vide gridare, i suoi occhi pieni d’odio.
Jarod si scosse, frastornato da quelle immagini.
“Chi sei?” chiese tra le lacrime: “Che cosa ho fatto?” domandò più a sé stesso, confuso. Le due immagini contraddittorie della donna si sovrapposero sotto i suoi occhi.
La donna chinò il capo sul suo viso, baciandolo sulla fronte. Il tocco delle sue labbra fredde lo fece tremare. I suoi capelli neri scivolarono sulla sua pelle livida, il suo profumo dolce riempì le sue narici e Jarod chiuse gli occhi.
Quando li riaprì un istante dopo, lei era scomparsa.
“Non lasciarmi…” singhiozzò Jarod. Il dolore tornò l’unica sensazione palpabile e l’odore del sangue rimpiazzò il buon profumo della donna. “Che cosa ho fatto? Non andare via… ti prego, non lasciarmi!” gridò disperatamente dentro di sé: “Ti prego, non lasciarmi solo… di nuovo!”
«Miss Parker…» sussurrò nell’oscurità.
Mentre quelle ultime parole risuonavano nella sua mente il cigolio fastidioso della porta blindata echeggiò nella stanza, e i passi di qualcuno si avvicinarono furtivi, incerti.

Miss Parker lasciò l’ufficio di Sydney, diretta alla sala controllo, dove si aspettava di trovare Broots. Aveva ragione: l’uomo era seduto di fronte al suo computer, e digitava qualcosa sulla tastiera. Sembrava molto concentrato. Miss Parker sorrise silenziosamente, avvicinandosi tentando di non fare rumore. Broots non si accorse di nulla.
«Broots!» lo chiamò una volta alle sue spalle, battendo le mani a pochi centimetri dal suo viso.
Broots fece un salto sulla sedia girevole, urtando con uno scatto involontario della mano la caraffa di caffè accanto alla tastiera, rovesciandone il contenuto su una pila di fogli sparsi sul ripiano della scrivania.
«Oh, mio Dio! … - tentò di riprendere fiato - Mi-miss Parker… mio Dio, che spavento, credevo fosse…»
Miss Parker rimase serissima in volto: «Chi credevi che fosse, Broots?!» fece sarcasticamente.
«Bhè, non importa. Ma quello che importa è che devi vedere alcune registrazioni.» disse tentando di risistemare alla meglio la scrivania.
«Ancora?! - disse scocciata - Se sono quelle riguardanti mia madre, le ho già viste nell’ufficio di Sydney.»
«Oh, no, no, no, queste… riguardano Jarod!»
Lo sguardo della donna divenne immediatamente interessato.
«Le ho appena trovate, è per questo che mi sono spaventato, se qualcuno sapesse… credo che saremmo tutti morti prima dell’alba!»
Miss Parker gli intimò di tacere con un cenno della mano. Si voltò in direzione della porta di scatto, e con passo lento e misurato, senza far rumore raggiunse il corridoio sempre poco illuminato.
«Brigitte!»
La bionda le sorrise da dietro la porta, appoggiata al muro con la schiena, il lecca-lecca in bocca che la mano destra rigirava febbrilmente, la sinistra sul pancione.
«Ancora al lavoro a quest’ora, Miss Parker»
Miss Parker strinse le labbra regalandole uno dei suoi familiari sguardi raggelanti: «Potrei farti la stessa domanda. Ma invece ti chiederò: che cosa vuoi?»
La donna si staccò dal muro, entrando nella stanza, scansando Miss Parker con la pancia.
«Volevo solo vedere che genere di lavoro si sbriga a quest’ora di notte nei sottolivelli del Centro.» Parlando si era avvicinata allo schermo del computer al quale lavorava Broots.
«Almeno noi lavoriamo.» replicò Miss Parker frapponendosi tra lei e la scrivania.
Brigitte sorrise di nuovo: «Sai, “angelo”… c’è qualcuno che pensa che il vostro “lavoro” ultimamente non sia del tutto compatibile con gli affari del Centro.»
Broots osservava le due donne con gli occhi sbarrati. Il sudore cominciava ad imperlare la sua fronte al pensiero di che cosa avrebbe fatto o detto Miss Parker, o di che cosa sarebbe successo se Brigitte avesse scoperto le loro attività.
Miss Parker rise: «E questo qualcuno è, come al solito, riferito alla tua persona, suppongo.»
«Dovresti essere più attenta nella scelta dei tuoi partiti Miss Parker: accollarsi cause perse in partenza non fa che peggiorare la tua precaria situazione.» rispose tranquillamente la donna carezzandosi l’ingombrante pancia.
Miss Parker abbassò il suo sguardo di riprovazione sulla donna che portava in grembo il suo fratellastro.
«Sarebbe un vero peccato ripetere l’esperienza di mammina, non credi?!» continuò sarcastica la biondina, accentuando l’intonazione sulla parola “mammina”.
L’espressione di Miss Parker si accese d’ira, i suoi occhi divennero lucidi, le sue mani si trattennero a fatica lungo i fianchi, la volontà di afferrare il collo sottile a soli pochi centimetri da lei era per Miss Parker quasi un imperativo, un desiderio da sopprimere per un bene più grande chiamato sopravvivenza.
«Non ti permetto di nominare mia madre.» ringhiò.
«Voleva solo essere un avvertimento materno.» replicò Brigitte con voce pacata, simulando lo sguardo amorevole di una madre. A Miss Parker sembrò l’immagine della perfidia.
«Suonava più come una minaccia.» replicò a sua volta.
«Prendila come ti pare.» disse con aria seccata e facendola da parte con una mano, lo sguardo puntato sullo schermo. Lesse: “Memorandum per gli addetti alla manutenzione”.
Brigitte volse lo sguardo su Broots, seduto con gli occhi sbarrati che la fissavano, e poi su Miss Parker che la squadrava dall’alto della sua imponente statura con fare impercettibilmente divertito, le braccia incrociate sul petto. Brigitte le rivolse un sorrisetto stirato. Miss Parker si schiarì la voce e la invitò ad uscire con un cenno della mano.
«Comunque credevo che fossi in partenza, Miss Parker.»
«Infatti.»
«Allora… buon viaggio.» aggiunse.
«Contaci.» le rispose Miss Parker con un falso sorriso in segno di sfida.
La donna si girò di nuovo verso l’uomo paralizzato dalla paura sulla sedia girevole e gli fece l’occhiolino prima di andarsene.
Miss Parker tirò un sospiro di sollievo mentre Broots balbettava: «Credi… credi che abbia sentito?»
«Avanti, fammi vedere che cosa hai trovato.»
«M-ma… mi ha fatto l’occhiolino! Se avesse sentito il nostro discorso…»
«Broots!» lo richiamò la donna abbassandosi sullo schermo per evitare il riflesso della lampadina. L’uomo si tacque, tornando a digitare sulla tastiera.
Dei passi nel corridoio richiamarono di nuovo la loro attenzione. Miss Parker si voltò nuovamente verso la porta che aveva provveduto a chiudere dopo che Brigitte se ne era andata, pronta ad impugnare la pistola. La porta si aprì lentamente e comparve Sydney.
Entrambi tirarono un sospiro di sollievo e gli fecero cenno di avvicinarsi in silenzio e chiudere la porta. Lo psichiatra eseguì. Broots gli spiegò che aveva scovato un altro filmato nell’archivio digitale riguardante Jarod.
Si disposero attorno allo schermo e Broots spinse finalmente “enter”.

Fine seconda parte

Miss Parker camminava decisa verso l’ufficio di suo padre. Le labbra serrate, ripeteva mentalmente ciò che avrebbe voluto uscisse dalla sua bocca nei minuti seguenti.
Raggiunta la porta a vetri bussò ed entrò senza attendere risposta. L’ufficio era vuoto, ma la luce sulla scrivania era ancora accesa. I suoi piani andavano a gambe all’aria.
Si guardò intorno, scocciata, risentita. Si sedette sulla sedia di pelle ad aspettare.
Poi sentì i passi inconfondibili di suo padre accompagnati dal cigolio della bombola di Raines e dallo scalpiccio di alcuni spazzini.
«… sono d’accordo, ma non posso lo stesso… oh, angelo, …» Non appena aveva visto sua figlia Mr Parker si era zittito. Raines dietro di lui.
Miss Parker sorrise falsamente a suo padre.
«Tesoro… che cosa fai ancora qui… è molto tardi…»
Miss Parker sciolse il sorriso.
«Ci lasci soli, Raines, per favore.» chiese l’uomo con espressione turbata.
Raines obbedì senza fiatare, rivolgendo alla donna seduta dietro la scrivania del potere un’occhiata truce e sadica.
«Papà…»
«È un vero peccato che tu te ne vada proprio ora, seduta su quella poltrona sembri davvero a tuo agio.»
«Già… Ho già liberato l’ufficio, è solo che… volevo salutarti prima di andarmene.» disse titubante, alzandosi mesta; il suo sorriso era svanito, ma era subitamente comparso ad increspare le labbra di Mr Parker: «Certo, angelo, non potevi andare via senza salutarmi.» Le carezzò freddamente una guancia e andò a sedersi dietro la sua scrivania.
Miss Parker non si voltò, mantenendo la schiena rivolta all’uomo.
«Bene… allora… io ti lascio. Buon lavoro.» concluse.
«Divertiti.» le rispose suo padre.
Miss Parker si voltò a fissare gli occhi dell’uomo ancora una volta e sorrise. I suoi canini appuntiti le diedero un aspetto più demoniaco del solito. Un velo le copriva gli occhi, ma non era tristezza.
«Farò del mio meglio.» assicurò più a se stessa che al padre, che ormai era passato a considerare i fogli sparsi sulla scrivania.
Mentre il rumore dei suoi tacchi si allontanava, Mr Parker alzò il ricevitore e compose il numero di un interno.

Spinse la porta delicatamente, quel tanto che bastava per permetterle di vedere il lato destro del corridoio. Deserto. L’illuminazione era forte, stranamente. Entrò.
Per sicurezza gettò un’occhiata alla telecamera di sorveglianza per controllare che la spia di funzionamento fosse spenta. Perfetto: Broots aveva fatto il suo lavoro.
Camminò stando attenta a che i suoi tacchi non provocassero troppo rumore sul pavimento piastrellato. Il suo respiro controllato, quasi trattenuto.
Ebbe un flash: vide il corridoio illuminato, lo stava percorrendo, i suoi passi furtivi scansavano la luce.
Tornò a respirare. Era già stata lì.
Lo percorse interamente, sino a giungere alla porta scorrevole. Le guide erano state oliate da poco, una puzza di vernice fresca la infastidì, poggiò una mano sul metallo freddo e la pittura si scrostò, cadendo ai suoi piedi. Sussultò. Afferrò la maniglia e spinse la pesante porta verso destra.
Dalla parte opposta il buio. Si infilò faticosamente tra lo stipite e la porta, per poi richiudersela alle spalle.
Un nuovo flash la sorprese: gli abiti maschili sul pavimento, le grida disperate, la sottile luce sulla destra. Era sulla buona strada.
Ritrovò la camicia di Jarod in un angolo accanto ad un mobile in metallo che aveva tutta l’aria di essere adatto all’arredamento ospedaliero. L’odore di muffa era irrespirabile.
Estrasse la pistola e disinserì la sicura, stringendo saldamente l’impugnatura. L’armò e si accinse a raggiungere la porta oscillante in fondo a destra.
I suoi passi lenti, misurati, felini. Miss Parker scivolò inconsapevolmente attratta dallo spiraglio di luce. Le grida immaginarie riecheggiarono nella sua scatola cranica come lame, i suoi incubi divenivano improvvisamente previsioni di un imminente futuro. Si scoprì incapace di procedere, il respiro affannoso, i brividi la percorrevano. Se avesse aperto quella porta avrebbe trovato il corridoio senza pavimentazione, la fila di porte blindate sul lato destro, i tre gradini che conducevano al laboratorio per le simulazioni, l’odore del sangue, le grida di dolore, l’ombra, Jarod. Fu solo quest’ultimo pensiero che la indusse a proseguire.
Come in un sogno rivide pezzi delle sue visioni ad ogni passo che faceva, sino a raggiungere la pesante porta blindata, fino ad afferrare la fredda maniglia di ferro e a trarre un profondo sospiro di incoraggiamento.
Aprì ed entrò.

Una fioca luce rossastra pervadeva la grande camera gelata. Era umido, le pareti erano in ombra, ma Miss Parker riusciva ugualmente a percepire la presenza di qualcuno nella stanza. Il faro era puntato su di un tavolo veterinario, con un ronzio elettrico che la disturbò. Schizzi di sangue coagulato avevano disegnato rigagnoli scuri sul metallo freddo. Le catene penzolavano dai quattro angoli con un fastidioso cigolio. Si guardò intorno.
Le pareti erano sporche, sembravano bagnate, tante goccioline scivolavano fino a terra, a formare pozze d’acqua maleodorante e scura. La luce rossa le faceva apparire gocce di sangue. Rabbrividì. Siringhe erano sparse sul pavimento, Miss Parker ne raccolse una. Le parve di percepire un gemito, velato, lontano, nell’ombra. Lasciò cadere la siringa.
Non vedeva niente. Il faro rosso era troppo debole per raggiungere le pareti del laboratorio per simulazioni. Si avvicinò al tavolo e vi posò sopra i polpastrelli. Era certa che Jarod fosse stato lì. Strinse le labbra alla vista del sangue. Sospirò faticosamente, girando su se stessa ed attorno al tavolo, si chinò per osservare i sacchetti che vi erano stati riposti sotto, ne sollevò uno e lo portò sotto la luce: conteneva medicinali, sedativi, sonniferi e allucinogeni in quantità industriali.
Si chiese se avessero usato quella roba su Jarod.
Tornò a chinarsi sotto al tavolo per prendere il resto dei sacchetti e notò qualcosa muoversi dalla luce all’ombra. O almeno così le era sembrato.
“Non mi stupirei se fosse un topo.” pensò “Questo posto è un vero mattatoio.”
«C’è qualcuno?» bisbigliò.
Non ottenne risposta. Si diresse con passi misurati verso l’angolo più lontano dalla porta.
«C’è qualcuno?» ripeté con un filo di voce.
La cosa si mosse di nuovo. Miss Parker sussultò. Ne era certa, c’era qualcuno, o qualcosa, aveva visto… cosa aveva visto? Un piede? Una mano? Una coda?
Si avvicinò ulteriormente. Cercò di penetrare l’oscurità, si sentì improvvisamente pervasa da un senso di inquietudine. Aveva paura. Di cosa non riusciva ancora ad identificarlo, ma era reale, percepibile, palpabile nella sua mente, e ora Miss Parker stava spremendo i suoi sentimenti per scacciarli il più lontano possibile da se stessa, ma quella stanza non faceva che rammentarle i più terrificanti incubi di quegli ultimi giorni, le grida laceranti che riecheggiavano ancora indisturbate nella sua mente.
Si accorse di respirare a fatica, tratteneva il respiro, ma appena si lasciò andare cominciò ad ansimare. Respirava affannosamente per l’ansia.
«Jarod…» sussurrò alla sagoma raggomitolata nell’angolo.
Le rispose un gemito, un singhiozzo strozzato.
Miss Parker deglutì e riprese fiato: «Jarod, sei tu? - chiese - Sono io, Miss Parker.» continuò con voce flebile, vellutata tendendo una mano.
«Non lasciarmi più.» sussurrò Jarod tra i singhiozzi.
Miss Parker rise, le lacrime agli occhi. Si avvicinò, chinandosi su di lui.
Jarod mantenne la sua posizione fetale, si lasciò accarezzare dalla mano fredda di lei che si posò sui suoi capelli scompigliati e scese sino alle spalle nude.
«Vieni qui.» gli disse.
Jarod dondolò contro il muro. Miss Parker lo trascinò con cautela sotto la luce: Jarod tremava, gli occhi chiusi, le mani attorno alla vita; era sporco di terra, bagnato, la sua pelle era solcata da profondi tagli e lacerazioni ancora grondanti sangue su tutto il corpo. Indossava solo dei sudici pantaloni da pigiama.
La donna rimase a bocca aperta, combattuta tra la gioia di averlo finalmente ritrovato vivo e la pena nel vederlo ridotto a quel modo. In un solo istante sentì su di sé il dolore che doveva aver sofferto. Si chinò su di lui e lo strinse tra le braccia, lui gridò per il dolore. Miss Parker lo lasciò, bisbigliandogli all’orecchio parole rassicuranti, cercando di calmarlo, farlo smettere di piangere, ma sentire il suo nome sembrava che lo facesse solo piangere più forte. Ora doveva sbrigarsi, non aveva molto tempo per portarlo fuori da quella prigione.
Quando finalmente smise di singhiozzare Miss Parker lo fece alzare e trascinare faticosamente fuori del laboratorio, lungo il corridoio, sino alla porta scorrevole e gli infilò la camicia che aveva trovato appallottolata lì accanto.

Miss Parker era seduta sul letto. La sua mano sinistra danzava sfiorando delicatamente il viso di Jarod, disteso su un fianco. Ora dormiva. Ma non era sicuramente un sonno tranquillo. Erano passate le tre di mattina da quasi venti minuti, Miss Parker sospirò osservando la sveglia sul comodino. Jarod gemette, strizzò gli occhi e tornò a dormire.
“Che cosa ti hanno fatto?” pensò lasciando scivolare il suo sguardo lungo le spalle e la schiena martoriate.
Sentì un rumore provenire dal piano inferiore e si affacciò alla ringhiera.
«Sydney, finalmente! - lo accolse scendendo le scale di corsa - Si sono già accorti della fuga?»
Sydney lasciò cadere il soprabito sul pavimento e la guardò negli occhi: «A quest’ora lo avranno scoperto, ma di sicuro non hanno messo i manifesti; nessuno doveva sapere che Jarod era al Centro.»
«Broots?»
«Ci telefonerà in caso di problemi o attività sospette.»
Miss Parker rimase pensierosa: «E se dovessero richiamarci per ricatturarlo?»
«Non succederà. Se volevano eliminarci dalla partita questo è il momento adatto. Ora siamo fuori dai giochi.»
Miss Parker annuì.
«Come sta Jarod?»
«Ora sta dormendo. - rispose mesta - Ma non fa che avere incubi: prima si è svegliato, ha cominciato a piangere, a gridare frasi senza senso, ho cercato di calmarlo, ma mi ha scaraventata a terra urlando che non ero reale, che non era vero, si è avvicinato e si è chinato su di me, … credevo che volesse picchiarmi, uccidermi, invece si è accasciato sul pavimento e mi ha chiesto scusa piangendo. - Miss Parker tirò su col naso - Non ho potuto fare altro che prenderlo tra le braccia e cullarlo come un bambino. - aggiunse chinando lo sguardo - Io… non l’avevo mai visto così, Syd, ti prego… fallo tornare come prima, ti prego! Non posso vederlo così!» disse senza più riuscire a trattenere le lacrime.
Salirono le scale in silenzio. Jarod era disteso sul letto con la schiena all’entrata; le ferite chiaramente visibili.
Sydney si sedette sul bordo del letto esaminando con cura le condizioni dell’uomo, Miss Parker rimase accanto alla ringhiera, osservando lo psichiatra cambiare espressione.
«Credo che lo abbiano torturato, ho visto delle catene. - disse - E… - si avvicinò alla poltroncina nell’angolo e porse allo psichiatra il sacchetto di medicinali - Lo hanno sicuramente drogato.»
«Barbiturici, sonniferi, allucinogeni, …» elencò controllando il contenuto del sacchetto.
Rimasero in silenzio per un attimo, contemplando entrambi i propri sentimenti nei riguardi di Jarod. In quel momento si sentirono colpevoli: «Se solo lo avessimo trovato prima.» sussurrò Sydney.
Miss Parker distolse lo sguardo.
«Ha detto qualcosa?»
«Nulla che avesse un senso.»
«Che cosa ha detto? »
Miss Parker sospirò cercando di ricordare le parole esatte: «Ha detto che lui non era chi era, che non sapeva più chi era, … che io non ero reale, che non voleva perdermi più, … che era solo un sogno. Secondo te significa qualcosa?»
Sydney spostò la sua attenzione su Jarod.
«Lo hanno sfinito. Hanno tentato di distruggere la sua volontà per poter controllare la sua psiche, per fargli fare cose contro il suo volere, inconsciamente.»
«Simulazioni?» ipotizzò Miss Parker.
«Possibile, ma improbabile: nessuno sarebbe in grado di svolgere simulazioni concludenti sotto l’effetto di pesanti farmaci che deviano la mente, neanche Jarod.»
Miss Parker sospirò: «Che cosa facciamo adesso?»
«Speriamo… che si riprenda. Sospendiamo i farmaci, dovrebbe tornare a fare connessioni mentali più logiche, e non lasciamolo mai solo.»

Jarod aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il proprio braccio destro steso sul lenzuolo candido. La vena era ingrossata, poteva chiaramente sentire il pulsare del sangue attraverso la scatola cranica, rumore assordante che lo fece sussultare e strizzare gli occhi sforzandosi di alzare la testa dal cuscino.
«Jarod…»
Jarod si fermò in ascolto. L’aveva udita veramente? L’ultima volta ricordava confusamente di averla sentita chiamarlo nell’ombra del sottolivello del Centro. E ora dove si trovava?
«Jarod…» Miss Parker comparve accanto a lui, si sedette sul lato opposto del letto e tendendo una mano lo stava accarezzando sulla fronte. Ricordò improvvisamente il bacio che gli aveva dato e la sua gelida mano sul collo.
«Come stai?»
Jarod non riuscì a parlare. Voleva parlare, voleva gridare. Ma non riusciva proprio a muoversi. Miss Parker gli sorrise, il suo volto illuminato dalla luce tenue del primo mattino che penetrava tra le persiane.
«Miss Parker… » bisbigliò.
«Sono qui.» disse lei.
Jarod sbatté le palpebre un paio di volte, scacciando le ombre opache che gli impedivano di mettere a fuoco la sua immagine. La sua mano era calda ora, e il suo sorriso dolce, i capelli scuri incorniciavano un viso pallido per la stanchezza, ma i suoi occhi erano sempre gli stessi e le sue movenze feline inconfondibili la rendevano talmente reale che per un istante credette di poterla stringere di nuovo tra le braccia… Ma non era possibile: Miss Parker non c’era più. Lyle la aveva uccisa. Aveva ucciso lei e i due bambini, aveva fatto in modo che non tornasse più al Centro. E l’aveva rinchiuso.
Ma adesso non era più al Centro, e non era incatenato al tavolo. Dov’era ora?
Miss Parker si allungò oltre il suo viso e prese il bicchiere d’acqua sul comodino alle spalle dell’uomo; glielo porse: «Alzati, ce la fai da solo?»
Jarod non si mosse. Pensava di averlo fatto, ma di fatto non si era spostato di un millimetro. Eppure l’aveva pensato, aveva comandato al suo corpo di sollevarsi dal letto e prendere il bicchiere che lei gli stava porgendo!
Miss Parker posò il bicchiere e lo aiutò ad alzarsi, causandogli un dolore insopportabile: le sue ferite sembrarono riaprirsi e riempirsi di lame e spilli, tanto da farlo gridare.
Miss Parker lasciò la presa: «Perdonami…» disse.
Jarod tornò a respirare a fatica. No, quella non poteva essere Miss Parker. La sua Miss Parker non avrebbe mai chiesto scusa, non sarebbe mai stata tanto dolce e disponibile, … o forse si?!
«Miss Parker… - sussurrò - Miss Parker…» fece più forte.
«Si, sono qui.» rispose lei prendendogli la mano tra le sue.
Era calda e morbida la sua pelle, non era come l’aveva vista tra le ombre nel laboratorio per simulazioni, era reale, era lì accanto a lui e poteva toccarla, sentire il suo profumo, la sua voce, … “Miss Parker!”
Miss Parker sorrise. Il sorriso più dolce che le avesse mai visto. Jarod posò i suoi polpastrelli sulle sue labbra, giusto per controllare che non fosse solo un sogno, che non fosse solo una visione, che fosse tutto vero.
Una lacrima di gioia rimase arginata tra le sue ciglia.
«Miss Parker… - ripeté inconsapevolmente - … Non lasciarmi.»
«Non ti lascerò più.» rispose con voce vellutata.
Jarod sorrise. Miss Parker era viva! Ed era lì con lui!… “Lì dove?” si chiese subito dopo. Ma la sua domanda rimase senza risposta, almeno per quel momento, perché Jarod si addormentò di nuovo.

Quando di svegliò fu per via dell’acqua che sentì scivolare sulla faccia.
Sydney lo stava scuotendo delicatamente per farlo svegliare, e lo chiamava: «Jarod…»
Jarod si innervosì, con un gesto inconsulto scacciò la mano dello psichiatra: «Io… io non sono io!» gridò con le lacrime agli occhi.
«Jarod…»
«No! - gridò più forte - Non chiamarmi così!»
Miss Parker corse su per le scale, salendo i gradini a tre a tre, richiamata dalle urla.
Jarod si era alzato a sedere e combatteva con sé stesso, tenendo la testa tra le mani e piangendo disperatamente, tentando di scacciare dalla sua mente chissà quale demone.
«Io non sono più io! - gridò di nuovo - Io non sono chi sono! Io non so più chi sono!»
«Calmati.» disse Miss Parker posandogli una mano sulla spalla.
«Lasciami!» Jarod sembrava pazzo, un istante prima era incapace di muoversi e subito dopo diventava violento.
Miss Parker osservò l’espressione preoccupata di Sydney: «È l’effetto dei farmaci: Raines deve avergli fatto qualcosa che ha provocato in lui un disturbo della psiche e della memoria.»
«Una personalità multipla, come fece con Dannie-Einnad?» chiese Miss Parker.
«No, non penso. Ma deve averlo sconvolto. Credo piuttosto che gli abbia fatto vivere qualcosa di particolarmente traumatico che lo abbia spinto a provare emozioni incontrollabili, per indebolirlo, e successivamente sfruttarlo, magari rimuovendo alcuni dei suoi ricordi.»
«Eliminazione selettiva della memoria. Può farlo?»
«Non so esattamente fino a che punto Raines si sia spinto con i suoi esperimenti, ma… penso di si.»
Jarod ora piangeva sommessamente, ciondolando sul letto, avvolto nel lenzuolo.
«Se gli avessero fatto credere… che fossi morta?» ipotizzò.
«Possibile. Questo spiegherebbe il suo rifiuto nei tuoi confronti: non ti considera più reale, non ti considera più parte di questo mondo, crede che tu sia un fantasma, o una sua proiezione mentale. Raines deve aver sfruttato il suo dolore per abbassare le sue difese.»
«E intanto Lyle lo aiutava con punizioni corporali.» concluse con un’espressione irata.
Miss Parker carezzò amorevolmente le tempie di Jarod, sussurrando dolcemente parole di scusa. Lui rimase immobile, con il viso ancora solcato dalle lacrime, si lasciò coccolare appoggiando timidamente il capo sulla sua spalla.
«Ma ora si sta rendendo conto che sei ancora viva. Questo lo confonde ancora di più.» provò a spiegare lo psichiatra.
Il respiro di Jarod divenne più regolare. Miss Parker lo baciò sulla fronte.
«Quando è con te sembra un’altra persona.» osservò Sydney.
Rimasero in silenzio per un istante interminabile, accompagnati solo dal rumore ritmico del ramo di pino spinto dal vento d’ottobre che batteva contro il tetto di legno.
«Ci sarà un modo per farlo tornare quello di prima.» affermò risoluta a voce bassa.
«Potremmo provare a fargli riprendere coscienza di sé con i dsa.»

Erano già passati due giorni da quando Sydney era tornato al Centro. Jarod aveva trascorso le ore a dormire. Parlava pochissimo, mangiava ancora meno, ma sembrava più tranquillo. Miss Parker non lo lasciava mai solo, per paura di sconvolgere il delicato equilibrio che sembravano aver trovato.
Quando non dormiva, Miss Parker portava nella sua stanza la valigetta argentea che conteneva la sua vita e, uno alla volta, in ordine cronologico, Jarod si rimpossessava dei suoi ricordi. Miss Parker seduta accanto a lui, ad osservare ogni più celato stato d’animo, cercando di fare in modo che la verità su di sé non fosse troppo traumatica da accettare. Ma dalla sua espressione non trapelava mai nulla: il suo sguardo posato sullo schermo come se nemmeno lo vedesse, quasi andasse oltre, a fissarsi nella sua memoria, definendone contorni e sfumature. O più semplicemente, non voleva affatto vedere, ma solamente dimenticare quella triste sequela di anni bui, dei quali l’unico spiraglio di luce era stato Miss Parker, l’ancora di salvezza che gli aveva permesso di non soffocare, di non perire in una estenuante lotta per la sopravvivenza che tra le mura del Centro era inevitabile, come nella giungla; l’unica persona che aveva saputo dargli quel minimo di affetto che meritava così tanto.
Quando squillò il suo cellulare, Miss Parker si svegliò di soprassalto. Non ricordava nemmeno di essersi addormentata.
Si alzò dal divano guardandosi intorno stupita e rispose stropicciandosi gli occhi con il suo solito inconfondibile: «Cosa?»
Era Sydney: «Come va la “terapia”?» chiese sottovoce.
«Ad essere sincera non te lo so dire. - disse cercando Jarod con lo sguardo, ma senza trovarlo - Credo bene, ma non sarei pronta a giurarlo.»
«Qui invece ci sono dei problemi.»
«Non ce ne sono sempre?!» fece con aria cinica.
«Questa volta sono particolarmente grossi: qualcosa si muove, su alla Torre. Pare che il Triumvirato abbia divergenze interne. Tuo padre è al settimo cielo e Raines ha qualche nuovo lavoro sottobanco, sono pronto a scommetterci.»
«Di che tipo? Riguarda Jarod?»
«Non lo sappiamo ancora, ma Broots sta passando a setaccio la rete interna. Per ora sappiamo solo che i campioni di sangue di non si sa chi sono stati recapitati a Raines nel suo nuovo ufficio.»
«Nuovo ufficio?!»
«Si, si è trasferito a Donoterase da quando Jarod… da quando lo abbiamo sottratto alle sue amorevoli cure.»
Miss Parker sgranò gli occhi: «Donoterase?! Ma è il laboratorio per esperimenti genetici, dove ha vissuto Gemini. … Credi che ci siano sospetti su di noi per la fuga?»
«Se siete in pericolo vi telefonerò al più presto»
«Syd, … - lo interruppe Miss Parker - Forse dovremmo semplicemente andarcene, lasciare tutto… abbandonare il Centro.»
«Non vuoi scoprire la verità su tua madre?» le chiese candidamente.
Miss Parker si irrigidì. «Che importanza ha la verità se sei morto.» commentò con amarezza.
Sydney non disse nulla, interdetto all’altro capo del telefono.
«Non importa.» concluse Miss Parker con un tono di rimpianto per aver dato voce alle sue paure.
«La verità è al Centro, Miss Parker.»
Lei fece una smorfia di disapprovazione: «Curioso come un covo di menzogne sia anche l’unico dove io possa infine trovare quello che cerco.»
«Hai ragione… Ma forse avrei dovuto dire che la verità è il Centro.» disse accentuando il tono della voce sul verbo.
Rimase pensierosa, con il telefono premuto contro l’orecchio, gli occhi bassi, lo sguardo che seguiva involontariamente i giochi di luce sul parquet.
«Meglio che vada. Non vorrei che si insospettissero troppo.»
Miss Parker sospirò chiudendo la comunicazione. Le ultime parole di Sydney la avevano lasciata perplessa: se la verità era al Centro, perché non la aveva ancora trovata? Se il Centro aveva tutte le risposte, perché Jarod era fuggito?
A quest’ultima domanda si rispose che senza la libertà non avrebbe mai potuto trovare ciò che cercava.
E lei allora, perché non era scappata anche lei?
Cause di forza maggiore: suo padre. “Patetico.” pensò.
Si riscosse dai suoi pensieri e cominciò a rendersi conto che Jarod non era nella stanza. Ricordava solo che prima che si addormentasse lui era seduto accanto a lei sul divano e guardava i filmati. La valigetta era accuratamente riposta sul tavolino nel centro della stanza. Pensò che fosse tornato a letto, e si alzò per raggiungere la camera al piano superiore, ma la trovò vuota. Bussò alla porta del bagno. Nessuno rispose, non c’era nessuno. Scese le scale di corsa, col cuore in gola. Stava per chiamarlo, quando si bloccò: l’ultima volta che Sydney lo aveva chiamato col suo nome la sua reazione era stata violenta e gli aveva causato una crisi d’identità.
Ebbe un tuffo al cuore al pensiero che fosse fuggito. Come avrebbe fatto a ritrovarlo, ora?
Poi lo vide attraverso la finestra.
Prese la coperta sul divano e corse fuori a piedi nudi. Lui era in piedi in mezzo al prato, di spalle, indossava solo il pigiama e tremava per il freddo.
Miss Parker si avvicinò con cautela e lo avvolse nella coperta da dietro: «Che cosa fai qui fuori, si gela.» disse piano.
Lui non rispose, non si voltò nemmeno. Le raffiche di vento autunnale spazzavano via le foglie rossastre cadute dagli alberi del bosco circostante, che si andavano a posare sull’acqua del lago increspandola di delicate onde.
«Stai tremando, torniamo dentro.»
«Dove siamo?» chiese ignorando i suoi ordini.
«Vicino al lago White Cloud.» disse girandogli attorno per vederlo in faccia. Aveva gli occhi persi nel vuoto, come quando guardava i dsa, e la barba incolta.
«La baita di Sydney?» chiese.
Miss Parker sorrise: «Si,» confermò. Stava per aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensò.
«Dov’è Sydney?»
«Perché non ne parliamo dentro, magari davanti ad una tazza di the caldo, eh!?» propose.
Jarod si lasciò guidare senza opporre resistenza.

Sydney scese alla sala comunicazioni del Centro dove stava lavorando Broots seduto davanti al computer. Non era del tutto soddisfatto delle notizie che aveva ricevuto da Miss Parker, ed era fermamente convinto che fosse stato tutto troppo facile: sottrarre Jarod al Centro non era affare da poco, e che nessuno se ne fosse accorto era decisamente molto improbabile. Ma se il silenzio forzato della direzione nascondeva qualcosa, e Sydney ne era certo, che cosa mai sarebbe successo nei prossimi giorni? Una squadra di ricerca speciale era già stata avviata alla ricattura? Avevano prove concrete del loro tradimento? Se le stavano ancora cercando… le avrebbero trovate? Certo, non che il Centro avesse bisogno di prove per uccidere, bastavano i sospetti, ma qualcosa rimbalzava nella testa di Sydney, un’idea fissa che non gli faceva dormire sonni tranquilli: Raines aveva già un altro progetto. Non sapeva ancora che cosa riguardasse, ma era molto importante per lui. E per la sua carriera e smania di potere nella gerarchia del Centro.
«Hai trovato qualcosa, Broots?» domandò entrando.
«Dipende: i campioni di sangue recapitati a Raines erano di Jarod. E questa è una cosa che avremmo anche potuto immaginare, ma… a Donoterase, Raines ha ordinato due macchine incubatrici e nuova attrezzatura ospedaliera. Ha anche fatto trasferire là alcuni campioni dell’archivio genetico.»
«Ci sta riprovando.»
«A creare un nuovo simulatore, un altro Gemini?! Non credo, Syd, per far nascere un bambino avrebbe bisogno di uteri umani, donne-incubatrice, ma il rapporto non menziona nulla del genere; inoltre non si spiegherebbero i campioni dell’archivio genetico.»
Sydney rimase pensieroso.
«Syd…»
Lo psichiatra stava per parlare, ma fu interrotto: «Signor Broots, - apostrofò uno spazzino entrando con fare baldanzoso nel laboratorio - è desiderato al sotto livello cinque.» lo informò.
Broots lanciò un’occhiata a Sydney con aria perplessa. Che avessero già scoperto tutto?
«Ecco… è… è urgente?» chiese titubante.
«È della massima importanza, la prego di seguirmi.»
Sospirando l’uomo si avviò, lasciando solo Sydney che tornò ad immergersi nei suoi pensieri.
Non aveva alcuna intenzione di lasciar fare a Raines una qualunque delle sue diavolerie. Doveva scoprire prima che cosa stava tramando, e mettere fine agli atroci esperimenti che conduceva illegalmente sotto il benestare della Torre. Ma come avrebbe fatto visto che ora si era addirittura allontanato dal Centro?
Inoltre aveva promesso a Jarod che avrebbe lasciato quel posto una volta per tutte. Non poteva certo andarsene in un momento come quello: se Jarod era in pericolo, o Miss Parker, o chiunque altro, lui avrebbe trovato un modo per sistemare la situazione. Un’azione risolutiva e definitiva. Come aveva tentato di fare Catherine Parker.
«Ha qualche problema, Sydney?» chiese una voce alle sue spalle.
Si voltò di scatto, sorpreso ed un po’ irritato dall’essere stato colto impreparato.
«No, tutto bene.» rispose con studiata cortesia.
Brigitte girò attorno al tavolo e gli si parò davanti, succhiando con fare innocente il suo lecca-lecca rosso.
«Lo sa, credevo che l’aria di montagna facesse bene, ma lei ha davvero una brutta cera… senza offesa, ovviamente.»
«Ovviamente… non capisco a cosa si riferisce.»
«Ovviamente. - ripeté la donna con un mezzo sorriso - Eppure avrei giurato di non averla vista per un paio di giorni.» incalzò.
Sydney incrociò le braccia sul petto: «Sono stato molto impegnato.»
«Lo posso ben immaginare. E… in cosa esattamente?»
«Progetti.»
«Un po’ vago, no?!»
Sydney sorrise amaramente senza però aggiungere altro.
«Ho capito, - disse infine la donna inumidendo le labbra. Gettò un’occhiata fingendo noncuranza agli incartamenti sul tavolo, poi si girò e fece per andarsene. - Ah, Sydney, se per caso vedesse Miss Parker…»
«Miss Parker è partita.» la interruppe lo psichiatra.
«Ma certo… e perché mai dovrebbe vederla, giusto?!» gli strizzò l’occhio e se ne andò sculettando da dove era venuta.
Sydney tirò un sospiro prepotentemente trattenuto e si andò a sedere su una poltroncina nella penombra.
Come diamine avevano fatto a sapere che era stato in montagna, al rifugio? Se sapevano di lui allora sapevano anche di Jarod e Miss Parker?! Si passò una mano sulla fronte, indeciso se afferrare il telefono e chiamare il cellulare della donna oppure attendere sviluppi. Se avesse aspettato però avrebbe anche potuto essere troppo tardi per loro. E se fosse stata solo una trappola per tastare il terreno?!
Brigitte spinse i battenti dell’ufficio di Lyle con prepotenza e si affacciò sorridendo diabolicamente. Raggiunse la poltrona in pelle nella quale era sprofondato l’uomo e si mise ad osservare le mosse di Sydney sullo schermo del computer, da sopra lo schienale, con i gomiti piantati nella gommapiuma.
«Allora? È quello che ci aspettavamo?»
Lyle le fece segno di tacere con un gesto fulmineo della mano monca, mentre con l’altra spingeva l’obiettivo della telecamera di sorveglianza ad inquadrare un primissimo piano dello psichiatra. Non voleva farsi sfuggire nemmeno la minima reazione.
Sydney inarcò le sopracciglia come faceva sempre quando pensava. Lyle sorrise.
«Forse è la risposta che cercavamo.»
«O forse sta solo pensando a cosa ordinare stasera per cena!» irruppe nel silenzio la voce di Mr Parker che stava entrando in quel momento.
«Papà, Sydney sta coprendo Miss Parker, è evidente! Lui sa dove si trova Jarod, e sono pronto a scommettere che mia sorella è con lui. Se le nostre supposizioni sono esatte… potrebbero trovarsi alla baita che Sydney ha in montagna, ci serve solo una conferma.»
«Che bisogno avevi di una conferma? - chiese - Se pensavi che fossero là perché non hai mandato subito una squadra?»
Lyle spostò lo sguardo da suo padre a Brigitte che giocava col lecca-lecca all’interno della bocca. Fece spallucce e borbottò qualcosa tra i denti.
«Lascia perdere Sydney. Ora dobbiamo ritrovare Jarod.»
«Perché non mi lasci giocare un po’ con quei due, - fece Brigitte andando ad abbracciare il marito con l’aria imbronciata: - sono più che certa che dopo cinque minuti avremmo tutte le informazioni che ci servono.»
Mr Parker rise, le diede un colpetto gentile sulla pancia e la baciò sulla fronte: «Un’altra volta, eh, tesoro.» poi uscì velocemente diretto al suo ufficio.

Sydney arrestò l’auto dietro a un gruppo di siepi che crescevano selvatiche nei pressi della strada sterrata che correva attraverso i campi, una delle poche isolette sotto le fronde ombrose di striminziti alberelli.
I campi erano incolti, nonostante probabilmente sarebbero stati produttivi. Ciò che in realtà interessava ai proprietari del terreno era ciò che stava sotto di esso. Il paesaggio del tutto desolante, spoglio e privo di attrattive non avrebbe di sicuro incuriosito nessuno. Non c’era anima viva, infatti.
Era a pochi chilometri dal Centro, eppure sembrava essere in Texas, dove prati sconfinati facevano sentire soli al mondo.
Sydney si munì di una torcia elettrica ed estrasse dal cruscotto una cassetta di sicurezza opportunamente chiusa col lucchetto; la aprì con la chiave che aveva in tasca e sollevò la pistola soppesandola e rigirandola tra le mani, studiandola con cura, quasi l’ammirasse e allo stesso tempo ne provasse profondo orrore. Finalmente si decise ad impugnarla; vide la sua immagine riflessa nello specchietto dell’auto, era diversa, seria come sempre, ma più determinata, priva di quel sorriso sornione e ingannatore che mandava in bestia tutti quanti, ora il suo sguardo era inquisitore, non più indagatore, e la sua espressione scolpita nella disapprovazione, nella rabbia e nel rifiuto.
Inserì il caricatore e armò la sua pistola con un brivido che lo percorse fulmineo in tutto il corpo.
Lasciò l’auto nascosta dietro i cespugli e si incamminò a passo moderato, la pistola nella tasca della giacca, sotto il sole che si stava alzando. Non c’erano nuvole quel giorno. L’aria era comunque pungente, più del giorno precedente, segno che l’inverno sarebbe presto arrivato.
L’inverno arriva sempre per tutti.
Il fienile isolato appariva un’oasi lontana ancora, ma Sydney poteva chiaramente distinguere il rumore della porta che sbatteva spinta da sporadiche folate di vento che giungevano a scompigliargli i capelli ormai grigi. La sensazione di disagio che aveva provato appena aveva lasciato il Centro poche ora prima si stava ora intensificando: non era mai a suo agio a portare un’arma, né a rischiare così tanto.
Per tutta la vita lui aveva eseguito gli ordini, chiuso gli occhi di fronte alla realtà, finto e taciuto nei confronti della verità. Che si trattasse di Jarod, di suo fratello Jackob, o di Miss Parker. Adesso qualcosa sarebbe cambiato.
Giunto alla porta del fienile vi si accostò con la schiena alla parete di legno e sbirciò attraverso la fessura. Via libera. Spinse la porta con cautela ed entrò. Il nitrito di una solitaria cavalla stanca lo salutò e lo spavento gli fece salire il battito cardiaco percettibilmente; la cavalla sbuffò e si allontanò trotterellando, varcò la soglia ed uscì nel prato.
Sydney riprese fiato e con maggior prudenza si guardò attorno. In fondo alla stalla c’era la botola, seminascosta dall’erba medica; tirò la maniglia e per l’ultima volta controllò alle sue spalle. Nessuno in vista, nessun rumore all’orecchio. Si accinse a scendere i gradini di cemento che condussero al primo piano sotterraneo di Donoterase, aprì con circospezione la porta del laboratorio e si trovò nel corridoio principale.
Non c’era nessuno, stranamente.
Sydney posò la mano sulla tasca, tastando sotto i polpastrelli la sagoma rigida della pistola. Era veramente pronto a tutto. Avrebbe trovato Raines e gliel’avrebbe fatta pagare.
Scivolò rasentando i muri, abbassandosi in prossimità delle feritoie delle porte blindate che si aprivano lungo il corridoio e raggiunse il laboratorio di criobiologia. Controllò attraverso l’oblò nella porta che non ci fosse nessuno e afferrò la maniglia, la quale però rimase bloccata. Sydney spinse e tirò, strattonò con violenza, senza ottenere alcun risultato se non la sensazione della bile che montava. Era troppo nervoso, doveva stare calmo, o l’avrebbero di sicuro scoperto prima che fosse riuscito a capire quali piani aveva in mente Nosferatu. Quindi trasse un profondo sospiro e si voltò guardingo tendendo l’orecchio per carpire l’eventuale presenza di qualcuno. Nessuno. Sospirò estraendo dalla tasca interna della giacca una tessera magnetica che aveva sottratto nel vecchio ufficio di Raines e la passò nel quadro elettronico a destra della porta. La luce verde si accese con un sibilo e Sydney poté aprire la porta. Si ritrovò tutt’a un tratto avvolto nell’oscurità rotta dal lampeggiamento del quadro di comando. Accese la torcia e si diresse alla cella frigorifera, la aprì e venne accolto da un fresco alito di formaldeide che gli fece gelare il sangue nelle vene. Con cautela estrasse un contenitore di campioni congelati e lo posizionò sul banco da lavoro. Erano etichettati in ordine alfabetico, ma catalogati solo con sigle irriconoscibili. Raines sapeva coprire le proprie tracce. Quale di quelle provette era di Jarod? E le altre di chi erano?
Sydney cominciò a studiarle una per una, a porre paragoni e confronti chimici, fisici, molecolari.
Una cosa era certa: tutti quei campioni presentavano il medesimo fattore anomalo nel sangue, quello stesso fattore che rendeva Jarod speciale. Il “gene del simulatore”.
Forse Broots aveva ragione: il Grande Ustionato non aveva abbandonato l’idea di creare un sociopatico al suo servizio, e ora voleva fare esperimenti genetici con campioni di Jarod e di chissà chi altro. Da quanto tempo questa storia andava avanti? Lo psichiatra si sentì salire un moto di disgusto dallo stomaco, stava per vomitare, quando il raggio della sua torcia elettrica cadde su alcuni incartamenti posati in pila, coperti da un cellofan e classificati “top secret”.
Sydney controllò l’orologio: probabilmente non avrebbe avuto ancora molto tempo.
Trrrr… Trrrr… «Maledizione! - imprecò frugandosi nelle tasche in cerca del telefono - Chi è?» chiese sgarbatamente.
«Sono io, - rispose la voce titubante di Broots, il tono di Sydney gli aveva vagamente ricordato quello abituale di Miss Parker - scusa, … ma dove sei?»
«A Donoterase.»
«A Donoterase! Ma sei pazzo?!»
Sydney cominciava a spazientirsi: «Lascia perdere, che cosa vuoi?» tagliò corto.
«Io… sono appena tornato dall’ufficio del mio amico Manny, quello alle comunicazioni, sai… quello che non ha più la lingua…»
Broots aveva la cattiva abitudine di perdersi sempre in chiacchiere inutili nel momento meno opportuno, mandando su tutte le furie Miss Parker. Ma stavolta non era Miss Parker ad avere i nervi a fior di pelle: «Mio dio, Broots, il punto, non la storia della lingua di Manny!» lo zittì.
Broots rimase perplesso, non si aspettava di ricevere una risposta simile dallo psichiatra: lui era sempre così controllato, posato, sempre composto e calmo, qualunque cosa accadesse, a parte quella volta quando…
«Broots!» lo richiamò Sydney alla realtà.
«S-si, ci sono, - balbettò - ecco… Manny è sicuro che Lyle abbia inviato una squadra di spazzini proprio a White Cloud!» disse agitatissimo.
Sydney rimase immobile nell’oscurità del laboratorio, il fiato congelato nei polmoni.
«Sydney…»
«Si… quando?»
«Solo una mezz’ora fa. Pare anche che avessero una certa fretta. Syd… che facciamo?»
«Hai provato a chiamare Miss Parker?» chiese.
«Certo, già tre volte, ma il telefono non prende, forse non c’è campo… Syd!»
Sydney non rispose, aveva aperto uno dei fascicoli “top secret” ed era rimasto letteralmente a bocca aperta.
«Broots… Broots dobbiamo avvertire Miss Parker assolutamente: qui ci sono delle cose che la riguardano.»
«Quali cose?» chiese l’uomo all’altro capo del telefono tentando di non agitarsi ulteriormente sulla sedia.
«Campioni, medicine, esperimenti, … e non solo, - fece aprendo un secondo fascicolo: - qui ci sono anche Jarod, suo fratello Kyle, Angelo, Lyle, … e Brigitte! - esclamò sorpreso - Brigitte ha il “gene del simulatore”!»
Broots apparve sconcertato, la sua voce tremolò e sbatté gli occhi freneticamente: «Che dici, Syd, … Brigitte è una simulatrice?»
«Probabilmente lo è solo potenzialmente, come lo è Miss Parker. Non so davvero che cosa pensare, so solo che se non fermo Raines in tempo questo diventerà il suo cantiere per menti disturbate, o peggio. Broots va a White Cloud e…»
«Syd! Sarebbe un’ammissione di colpa! Mi uccideranno!»
Lo psichiatra si irrigidì: «Non è il momento di avere la coda di paglia, Broots, la squadra di spazzini di Lyle sta andando là per giustiziarli!»
«Giustiziarli…?!» ripeté l’uomo col cuore in gola.
«Va, Broots, sbrigati.» disse chiudendo la comunicazione. Aveva sentito un rumore, dei passi, qualcuno si avvicinava. Sydney spense la torcia e richiuse i campioni nella cella frigorifera, andando a nascondersi dietro la credenza dei medicinali. Uno spazzino passò davanti alla porta e sbirciò all’interno facendosi luce con una torcia. Non vide nulla di anomalo e proseguì. Sydney trasse un sospiro di sollievo e sentì i passi pesanti dell’uomo in nero allontanarsi, poi improvvisamente si fermarono e tornarono indietro frettolosamente; Sydney col cuore in gola strinse il pugno attorno alla pistola che teneva nella tasca, pronto a far fuoco su chiunque e comunque.
«Joe! - chiamò lo spazzino - Ehi, Joe! Mr Raines mi ha chiesto di portargli alcuni documenti, ci pensi tu a chiudere la Sezione Rossa?»
Una voce di rimando gli rispose affermativamente e i passi dello spazzino si allontanarono nuovamente.
Sydney tornò a respirare e continuò a leggere i documenti riservati: “La compatibilità è quasi perfetta, probabilmente un margine di errore esiste e non è trascurabile, ma le nuove tecniche di ricostruzione cellulare che sto sperimentando saranno utili anche a questo progetto.” Sydney diede una scorsa all’intestazione della pagina: era classificato “Dolls Project”, il ricevente della copia era cancellato, ma l’indirizzo era quello dell’interno della Torre. Raines sviluppava progetti segreti per il Triumvirato! Ora si trattava di scoprire quali, esattamente. Continuò a leggere ancora qualche riga, ma i nomi erano in codice e il progetto non veniva mai chiaramente spiegato. Qualcosa però nei meandri della contorta mente dello psichiatra gli fece scattare un’assurda, e quanto mai azzardata associazione di idee: i campioni di tre simulatori erano stati messi a confronto, esaminati e catalogati, assieme a tre campioni prelevati da componenti delle più alte sfere del Centro. Probabilmente combinando geneticamente il sangue dei Parker e quello di un genio come Jarod, o Angelo, il Triumvirato avrebbe avuto tra le mani la più potente arma politica e sociale che avessero mai potuto concepire.
Era sicuro che le prove che gli servivano fossero proprio sotto il suo naso. Si guardò intorno sventolando il raggio di luce, ma il laboratorio asettico non offriva molte possibilità ancora non vagliate, a parte forse l’armadietto metallico in fondo alla sala. Sydney lo raggiunse a grandi passi e forzò la serratura. Per un istante il suo cuore smise di battere, quando il rumore dei cardini che cedevano rischiò di attirare l’attenzione di uno degli spazzini di Raines; ma pareva che nessuno se ne fosse accorto.
Sydney si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Cominciava veramente a sudare freddo. L’armadietto conteneva alcune cartelle mediche di soggetti il cui nome era cifrato, un mazzo di chiavi e una tessera magnetica. Si soffermò su quest’ultima: apriva l’area denominata “Sezione Rossa”.
Lo psichiatra decise di seguire il suo istinto, afferrò la scheda, il mazzo di chiavi e le cartelle; spense la torcia e uscì frettolosamente dal laboratorio, diretto al piano inferiore. La mano sudava sulla pistola, ma la presa rimaneva salda. Lo sguardo vigile ispezionava accuratamente il corridoio e la tromba delle scale in cemento. Deserto. Era troppo strano: possibile che non ci fosse nessuno?! Possibile che per il suo nuovo progetto Raines non avesse predisposto un minimo di sicurezza maggiore?!
Sgattaiolò velocemente giù per le scale, per quanto poté, introdusse la tessera magnetica nel quadro e infilò una delle chiavi nella toppa. Inaspettatamente la porta si aprì con uno scatto e la luce lampeggiante sopra la sua testa divenne rossa.
Entrò col cuore in gola in un ambiente illuminato solo da una luce violacea al neon che percorreva le pareti; l’aria era pregna dell’odore insopportabile di disinfettante. Posò i suoi incartamenti sul banco accanto al microscopio e si soffermò ad osservare alcuni campioni congelati contenuti in una vetrinetta refrigerata: sul bordo di ogni contenitore era riportata la stessa sequenza di cifre che aveva letto poco prima nelle cartelle mediche. Le confrontò; aveva ragione!
“Ma non c’è modo di sapere a chi appartengono?” si chiese. Esaminò alcuni tessuti al microscopio e non rimase affatto sorpreso dallo scoprire che erano cellule umane, e per di più cellule riproduttive, femminili per due campioni, maschili, per i restanti. In un altro scomparto erano invece raggruppati altri tessuti, stavolta embrioni, cellule uovo fecondate, congelate, e catalogate in base agli accoppiamenti.
Sydney alzò il viso dal microscopio con aria schifata. Cosa ne avrebbe fatto Raines di quegli embrioni umani? Altri esperimenti? Erano forse nuovi tentativi di clonazione? Incroci genetici azzardati, sicuramente amorali?
Gli tornò alla mente l’ipotesi che aveva espresso poco prima: il patrimonio genetico dei Parker sommato a quello di un simulatore come Jarod…
Gli ci volle qualche istante per realizzare: i campioni di sei simulatori, tre potenziali e con un cognome interessante, e tre attivi, erano stati prelevati anni prima, congelati, e in seguito combinati per creare embrioni da impiantare a tempo debito in uteri umani. Le due donatrici involontarie dovevano essere senz’altro Miss Parker e Brigitte, due Parker, mentre i donatori maschili non potevano che essere Jarod, Angelo, Kyle, … e Lyle.
Sydney si contorse le mani al pensiero che Raines potesse aver fecondato un ovulo di Miss Parker col seme del suo stesso fratello gemello. Inorridì per la meschinità e l’amoralità di quel viscido essere strisciante; sentiva le gambe pesanti e la testa cominciò a girargli. Faceva troppo caldo là sotto, sentì l’impellente bisogno di uscire, di respirare un po’ d’aria fresca. Si allentò il nodo della cravatta e si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello dietro di sé, passandosi una mano sulla fronte e massaggiandosi le tempie e gli occhi, quasi a voler scacciare quelle immagini dalla sua mente, come se volesse smettere di vedere. Stavolta aveva visto anche troppo e non sarebbe bastato fingere che nulla fosse successo.
A Raines non era bastato un Jarod, ne aveva voluto una copia, e quando anche quella gli era sfuggita tra le dita aveva tentato di nuovo di porre nelle sue grinfie un progetto ancora più ambizioso: perfezionamento della mente superiore. Se la personalità di Jarod era riuscita a sopravvivere nonostante i suoi sforzi anche in Gemini, stavolta il “suo” simulatore sarebbe stato perfetto.
Un brivido di riprovazione lo percorse nello stesso istante in cui il sospetto che il progetto di Raines fosse già stato avviato gli attraversò la mente: Brigitte.

Si stirò lentamente, ancora con gli occhi chiusi, si inumidì le labbra e sbadigliò. Si rigirò nel letto, sentendo freddo. Cercò con la mano il calore di un corpo steso accanto al suo, ma non lo trovò; aprì faticosamente gli occhi, sbattendo le palpebre più volte per abituarsi al buio. La stanza era in penombra, le persiane erano ancora chiuse, ma il mattino era già arrivato; aveva dormito tranquillamente, come non gli capitava da parecchio tempo. Si guardò intorno in cerca di qualcosa di familiare. Le coperte erano rovesciate dall’altro lato del letto, Jarod si strinse nelle spalle rabbrividendo.
«Miss Parker…» chiamò sottovoce. Un singulto gli rispose dalla porta socchiusa del bagno. Un singhiozzo strozzato. Jarod si alzò a fatica, infastidito dal dolore per le ferite non ancora cicatrizzate e dal freddo inaspettato che aveva provato al suo risveglio. Raggiunse la porta del bagno con passo stanco, trascinando i piedi sul pavimento di legno.
«Posso entrare?» chiese spingendo appena la porta. Miss Parker era seduta per terra accanto al gabinetto, con le braccia strette attorno alle ginocchia premute sul petto. Singhiozzava sommessamente, cercando di reprimere le proprie lacrime. Alzò il viso bagnato di pianto sull’uomo e gemette.
«… Miss Parker… che cosa succede?» chiese allarmato Jarod chinandosi su di lei protettivo.
«Io… sto male.» disse con un filo di voce.
«Che cos’hai?» Jarod le prese il viso tra le mani asciugandole le lacrime. Era pallida, tremante, non aveva la forza necessaria per spiegarsi a parole, si limitò a gettare lo sguardo all’interno della tazza. Jarod seguì i suoi occhi: l’acqua era rossa di sangue.
«Ho vomitato sangue. - disse singhiozzando - Jarod… fa male…» gemette stringendosi le mani sullo stomaco, rossa di rabbia. Si sentiva ferita nello spirito più che nel corpo.
«Se sei arrivata a questo punto dovevi stare male da un po’, perché non me l’hai detto?!» la rimproverò. Il suo tono era duro, ma non voleva farla sentire in colpa e la invitò in un abbraccio protettivo al quale lei si abbandonò. Jarod la prese in braccio e la sollevò dal pavimento mugugnando per il dolore ai muscoli e alla pelle livida, la posò sul letto e provò ad accertarsi delle sue condizioni, ma il dolore di Miss Parker era troppo forte, tanto che non poté trattenersi e gridò, mentre due grossi lacrimoni le solcavano le gote involontariamente.
«Rilassati Parker, - disse sottovoce - ora ti porto all’ospedale.»
Miss Parker si asciugò le lacrime col dorso della mano e strinse le labbra: «No, sono stanca degli ospedali. Io i dottori li odio!» si sforzò di gridare, ma le parole le si strozzarono in gola e uno spasmo le contrasse lo stomaco, facendola piegare su se stessa.
Jarod le scostò i capelli dalla faccia e le massaggiò l’addome con l’altra mano, tentando di alleviare il suo dolore, senza troppo successo. Con movimenti lenti e grevi prese il telefono e compose il numero, sotto lo sguardo supplicante e lucido di lei: «Jarod… ti prego, non ce la faccio. - bisbigliò - Non ce la faccio a restare ferma in un letto d’ospedale, non voglio più…» Il dolore la costrinse a stringere i denti e prese a respirare a fatica.
Jarod posò la cornetta nonostante una voce maschile gli avesse già risposto all’altro capo del telefono. Si sedette accanto a lei sul letto e tentò di visitarla di nuovo.
«Parker, potrebbe essere una cosa seria stavolta, sarebbe più prudente che ti portassi in ospedale per un controllo, e se poi ti senti meglio ti riporto a casa in serata, promesso.» le disse sperando di essere convincente.
«Non ho bisogno di andare in ospedale… - riprese fiato un poco - Non avrò bisogno di andare in ospedale… se tu… starai con me.»
Jarod le sorrise disarmato: era proprio una bambina capricciosa, ma decise di dargliela vinta; si alzò con qualche sforzo e le diede una pacca gentile sulla fronte: «Vado a cercare una farmacia, ti serviranno degli antiacidi, e probabilmente un sedativo.»
«Sedativo…?!» chiese Miss Parker prima che lui varcasse la soglia della camera.
«Nel frattempo cerca di rilassarti, lo stress di questi giorni non ti ha fatto per niente bene.»
Miss Parker rimase rannicchiata in un canto del letto, gli occhi lucidi e le mani sull’addome dolente. Rimase a fissarlo mesta mentre le voltava le spalle. Sussultò per un nuovo spasmo; o forse per la vista delle ferite che si stavano cicatrizzando faticosamente sulla sua schiena.
«Jarod, - lo richiamò; lui si voltò. - Perché… perché sei così buono con me?»
Jarod aggrottò le sopracciglia con aria ingenua e stupita: «Che cosa intendi?»
Miss Parker strinse le labbra e sbatté gli occhi, cercando le parole adatte prima di riprendere: «Io ti ho dato la caccia come a un animale per anni, ho tentato di riportarti al Centro, ti ho tenuto lontano dalla tua famiglia, ti ho fatto soffrire, … perché adesso ti prendi cura di me?»
«Perché tu lo fai. - rispose candidamente - E perché sei sempre stata l’unica vera amica che io abbia mai avuto quando tutto nella mia vita era una bugia. - aggiunse. Miss Parker socchiuse le labbra. Jarod le sorrise e continuò: - Sei stata l’unica a capire quello di cui avevo bisogno, l’unica che abbia saputo darmi quel minimo di affetto che al Centro…» non finì la frase. Abbassò lo sguardo e si voltò nuovamente in direzione della porta, conservando nella memoria le immagini di Miss Parker ragazzina che scendeva gli scalini di ferro nel laboratorio per simulazioni e si avvicinava a lui sorridendo, lasciando ondeggiare la gonna sopra il ginocchio.
Dagli occhi chiusi di Miss Parker scese una lacrima, ma lui non poteva vederla.
Si vestì velocemente nell’anticamera e uscì non curandosi di abbottonare il cappotto, pensando al giorno prima, quando lui era ancora il malato e Miss Parker l’infermiera.

Sydney non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che aveva per le mani: una squadra di spazzini sopraggiunse con le armi in pugno e gli intimò di lasciar cadere sul tavolo gli incartamenti che stava leggendo.
Erano cinque, e puntavano ognuno la propria pistola su di lui, e Sydney sapeva che non avrebbero esitato a fare fuoco. L’unica via di fuga era bloccata, impossibile scappare.
«Glielo ripeto per l’ultima volta, Sydney, lasci quei documenti!» gridò uno di loro. Aveva il filo di un auricolare penzolante da un orecchio e la radio appesa alla cintola.
Lo psichiatra gettò le cartelle mediche a terra e alzò le mani sopra la testa. L’uomo in nero si avvicinò con cautela e si chinò a raccogliere i fascicoli mentre gli altri quattro tendevano la loro arma su Sydney.
Fu solo un istante, lo spazzino non ebbe nemmeno il tempo di respirare, Sydney lo aveva afferrato per la gola e ora lo teneva davanti a sé come uno scudo. Si meravigliò lui stesso del suo gesto, ma non aveva molto tempo per pensare, doveva solo agire, uscire da lì, raggiungere la baita a White Cloud, parlare a Jarod e Miss Parker… sempre che fossero ancora vivi.
Quest’ipotesi lo rese ancor più determinato nel suo intento, e mentre gli spazzini di fronte a lui con le armi tese si agitavano increduli e indecisi se sparare al compagno o assecondare il fuggiasco, Sydney prese la via delle scale trascinandosi dietro un ostaggio, e lasciò Donoterase con le cartelle mediche dei sei potenziali genitori del bambino che stava crescendo in Brigitte.
Pochi chilometri dopo aver imboccato l’autostrada, il fuggitivo scaricò il suo ostaggio dall’auto in corsa, nello stesso istante in cui il laboratorio di Raines sotterrato nei campi del Delaware andava distrutto da un incendio che lui stesso aveva appiccato. Era solo dispiaciuto di non aver potuto fronteggiare Raines.
“Una tana di meno.” era stato il suo pensiero “Vediamo se riesco a distruggere la tua bara, Nosferatu.”

Broots viaggiava a velocità sostenuta. Molto superiore a quanto avrebbe dovuto essere il limite per il codice della strada, ma non poteva fare altrimenti, ne andava della vita di Miss Parker. E di quella di Jarod. Ancora non sapeva che cosa avrebbe fatto, ci avrebbe pensato in seguito, quando sarebbe arrivato a quella maledettissima baita. Sbandò. Era troppo agitato, talmente agitato da non riuscire a stringere il volante. Era un suicidio, se lo sentiva nella pelle, se lo sentiva nelle viscere. Non ne sarebbe uscito vivo stavolta, ed era solo colpa di quei pazzi per i quali lavorava, quei pazzi dai quali dipendeva la sua sopravvivenza e la serenità della sua famiglia. Pensò alla sua bambina, com’era piccola, com’era inesperta, se gliel’avessero sottratta… se le avessero fatto del male per colpa sua… No, non sarebbe successo nulla, sarebbe andato tutto per il meglio.
Nonostante tutto riusciva ancora a mantenere lucida la vista.
Faceva freddo all’esterno dell’abitacolo, ma la sua tensione era tale da appannare i vetri senza bisogno del termosifone. Digrignò i denti nervosamente tentando di comporre il numero senza distogliere gli occhi dalla strada fangosa. Perché diamine non rispondeva?!
Che fosse oramai troppo tardi?! No, non voleva nemmeno pesare a quell’eventualità, come avrebbe fatto lui… come avrebbe fatto senza Miss Parker che gli copriva le spalle, senza l’unica persona, a parte Sydney, della quale poteva fidarsi al Centro, che lo aveva sempre difeso, alla quale avrebbe affidato la propria vita…
No, non poteva certamente tirarsi indietro. Soprattutto perché aveva portato con sé la pistola. Non si sentiva affatto più rassicurato, solamente molto più spaventato. Spaventato anche da sé stesso, da ciò che stava andando a fare. Non voleva usarla davvero, però se non avesse avuto scelta… d’altronde era proprio a quello che serviva: per difesa. E a volte la sola apparenza bastava. Non con gli spazzini del Centro, però.
Il disco telefonico gli rispose nuovamente che l’utente non era raggiungibile. Perse la pazienza e scaraventò il telefono contro la portiera del passeggero. Stava sorpassando ogni limite di ragionevolezza, doveva controllarsi, ormai mancavano solo poche miglia.
Era così assorto nei suoi pensieri, concentrato e teso all’inverosimile che balzò sul sedile al primo squillo del telefono, andando a baciare il soffitto con la testa nuda.
«Pronto?» rispose con voce insicura. Se fosse stato un impiegato del Centro?! Che cosa gli avrebbe detto?! Come avrebbe giustificato la sua improvvisa dipartita?!
«Broots!»
«Oh, mio dio, Sydney, che sollievo!» l’espressione contorta sul suo volto si rilassò faticosamente dopo aver pronunciato quelle poche parole.
«Sei riuscito a parlare con Miss Parker?»
«No, il telefono ancora non prende, o è spento, non lo so, Syd, sto guidando come un matto!»
«Broots, ascoltami bene: non tornare al Centro.»
«Cosa?! Che è successo, Syd? Va tutto bene?»
«Tranquillo, si sistemerà tutto, vedrai.» rispose con voce calma.
«Hai scoperto qualcosa a Donoterase?»
«Si, una coltura di potenziali simulatori.»
«Una che?!» fece il tecnico stropicciando gli occhi pronto a ricevere notizie peggiori.
«Raines aveva avviato un progetto di fecondazioni in vitro che riguardano anche Jarod e Miss Parker, per non parlare di Brigitte.»
«Brigitte partecipa agli esperimenti di Raines?»
«Molto più di questo; a dire il vero non ne sono completamente sicuro, ma credo che il bambino di Brigitte possa essere la concretizzazione del progetto “il simulatore perfetto”.» rispose con tono pungente.
«Che cosa hai intenzione di fare, ora?»
«Qualcosa farò. - disse fermamente - Broots… non tornare al Centro, mai più: prendi la tua Debbie e va il più lontano possibile da quel posto.»
Quando Sydney aveva quel tono significava qualcosa di poco rassicurante, questo Broots lo sapeva benissimo, ma non era proprio il momento di mettersi a discutere: in lontananza vedeva già le auto del Centro parcheggiate scomposte sul prato antistante la baita.
«Syd, sono arrivato, e ci sono due auto del Centro.»
Broots spense il motore qualche metro prima e scese, avvicinandosi alla casa di corsa, tenendo il telefono premuto contro l’orecchio.
«Sembra tutto tranquillo.» bisbigliò.
«Guarda dentro, Broots, cosa vedi?» gli chiese lo psichiatra.
Broots sbirciò da una finestra. La porzione del soggiorno che si presentò ai suoi occhi bastò per dargli un’idea precisa di ciò che era accaduto o stava tuttora accadendo all’interno: i mobili erano rovesciati, le tende squarciate, ovunque c’erano pezzi di vetro rotto, piume d’oca e sangue… tanto sangue, schizzi, sulle pareti, sui pavimenti lignei, sui cocci. Una mano guantata, la mano di uno spazzino, giaceva contorta sul pavimento, la pistola ancora in pugno, il sangue rappreso, colloso, riverso sul parquet.
Broots inorridì, ritraendosi dietro la parete, tremante come un filo d’erba al vento.
«Syd… Syd, è terribile… c’è sangue, mobili fracassati, vetri rotti, … sangue dappertutto!» gridò in preda al panico, allontanandosi dalla casa, gesticolando e incespicando nei suoi stessi piedi.
Sydney aveva chiuso gli occhi solo per un istante, il tempo di riprendere il fiato necessario per pronunciare poche parole: «E Jarod? Miss Parker? Li vedi Broots?»
Broots farfugliò qualcosa, incapace di articolare le parole, in preda al panico cadde e il telefono rotolò tra le foglie secche.
«Broots… Broots! Rispondi! Maledizione! Li vedi?»
L’uomo riafferrò l’apparecchio e bisbigliò: «No, Syd, non li ho visti… che cosa faccio?»
Sydney si lasciò sfuggire un sospiro agitato, confuso, preoccupato. Erano arrivati troppo tardi.
«Va via di lì, Broots, vattene!» disse infine con rammarico. Non voleva mettere ulteriormente in pericolo la vita del tecnico. Non inutilmente.
Broots non rimase a farselo ripetere. Corse sino alla sua auto senza voltarsi indietro. Aveva già aperto la portiera quando un grido agghiacciante, disperato, disumano, incomprensibile si levò dalle pareti della baita, rimbalzando su ogni tronco d’albero, accarezzando le increspature dell’acqua, scivolando sull’erba stizzita, sino a riecheggiare nella sua scatola cranica. Quel grido lo pietrificò. Rimase come inebetito a fissare la casa con gli occhi spalancati e le mani sudaticce strette attorno al telefono e alla pistola. L’urlo proveniva dalla casa, ne era certo. Un urlo raggelante, straziante e straziato. Rabbrividì: dunque qualcuno in mezzo a quella carneficina era ancora vivo?!
«Broots… Broots! - chiamava intanto lo psichiatra - Che cos’era?»
Non avrebbe saputo rispondere. Un brivido lo percorse da cima a fondo prima che potesse di nuovo aprir bocca e far uscire qualcosa di sensato: «Sydney… c’è qualcuno in quella casa!» disse richiudendo la portiera dell’auto e scivolando titubante e vistosamente tremante dalla tensione nuovamente in direzione della baita.
«È Jarod?» chiese speranzoso lo psichiatra.
«Non lo so.»
Non poté aggiungere altro: una raffica di spari esplose all’interno della casa; dopo il quindicesimo smise di contarli e si andò a nascondere come uno scarafaggio alla vista della luce dietro la carrozzeria di una delle berline nere del Centro.
«Syd!» gridò.
«Va via, Broots!» ripeté lo psichiatra all’altro capo del telefono.
Il tecnico corse come una lepre tenendosi le mani a protezione della testa, si infilò al posto di guida della sua auto e ripartì senza nemmeno curarsi di riattaccare. Il cellulare gli era scivolato dalla mano e giaceva sull’erba costellata da foglie dai colori autunnali, liberando al vento il suono nervoso e irritante della linea occupata.

Quando vide le auto dai vetri oscurati che invadevano il prato un irritante senso di disagio e paura gli artigliò lo stomaco. Fermò l’auto dietro la baita e scese stringendo i pugni attorno al sacchetto di plastica che aveva in mano.
Senza far rumore raggiunse la porta sul retro; le labbra serrate, i nervi tesi.
La porta era leggermente scostata. La spinse con la punta delle dita e la lasciò scivolare sui cardini finché si bloccò. Infilò una mano tra lo stipite e la porta e lo sentì sotto i polpastrelli nello stesso istante in cui l’odore del sangue gli punse le narici.
La porta era bloccata da un corpo morto, riverso sul pavimento, era scivolato lungo la porta e aveva lasciato la traccia viscida sul legno.
Doveva essere successo da poco, il sangue non era ancora coagulato. Infilò un piede tra lo stipite e la porta e fece pressione col corpo per spostare il cadavere che ostacolava il passaggio. La aprì quel tanto che bastava per poter scivolare all’interno, lo fece con molta attenzione, senza fare il minimo rumore. Il soggiorno era a soqquadro, la mobilia era rovesciata, i divani sventrati, come del resto i cadaveri dei tre spazzini che giacevano immobili sul pavimento ingombro. Fori di pallottola avevano tappezzato le pareti di legno e i frantumi di vetri e finestre erano, silenziosi, caduti sui cadaveri; tante piccole scintille alla luce fioca del sole d’ottobre facevano di quella stanza il regno dei cristalli. Se solo non fosse stato per tutto quel sangue, per le piume e per il resto…
Deglutì e passò oltre con sforzo, il cuore in affanno. Improvvisamente si rese conto di aver paura. Una paura terrificante. Una paura insormontabile. Sentiva il suo cuore battere. Si chiese se qualcun altro lo potesse percepire. La paura era attorno a lui e gli sussurrava all’orecchio, lo faceva sentire in colpa, lo faceva tremare, lo faceva incespicare nei gradini mentre raggiungeva il piano superiore, aspettando il momento per sopraffarlo, per distruggerlo e divorarlo. E dopo?
Dopo sarebbe stato troppo tardi.
Ormai era in cima alle scale. Trasse un profondo respiro di incoraggiamento che andò ad alimentare la sua ansia. Una mano armata era riflessa nello specchio, posata a terra come uno straccio consumato, il resto del corpo coperto dal pesante copriletto di piume che erano volate in aria a sotterrare il silenzio tormentato della morte.
Il silenzio…
Tutto era silenzio. I vetri. Le piume. Il legno. Il vuoto.
Solo il suo cuore. Solo il suo cuore riempiva il suo vuoto di battiti che scandivano come sussurri sempre più insistenti una nota di paura.
La paura…
Della morte. Della vita. Della morte nella vita.
L’immobilità era morte. Lui la conosceva la morte. Aveva già sperimentato, anche troppe volte, che cosa significasse “perdere” qualcuno che si ama.
Entrò nella stanza da letto.
L’uomo in nero era disteso a pancia bassa accanto al letto, in diagonale, come se nel cadere avesse tentato di girarsi e non vi fosse riuscito, come se avesse tentato di fuggire… Fuggire…
Si guardò intorno con circospezione, agguantando con lo sguardo ogni dettaglio della stanza, figurando davanti ai suoi occhi la scena che si era dovuta svolgere meno di un’ora prima. Una colluttazione. Il coltello che penetrava nelle lenzuola e lacerava con esse anche il materasso. Il volo delle piume. Quattro spari. Una vita che si dissolveva.
Lei non c’era. Miss Parker non era sdraiata sotto le coperte come l’aveva lasciata.
Il cuore cominciò a palpitare in apprensione, ogni istante crescente, ogni attimo più intenso del precedente. Finché il suo sguardo si soffermò sulle strisce di sangue tra le lenzuola. Erano quattro, come se qualcuno avesse lasciato la traccia delle dita insanguinate prima di scivolare a terra.
Lasciò cadere senza neanche accorgersene il sacchetto di plastica che aveva stretto tra le mani e si precipitò dalla parte opposta del letto.
Quando Jarod era ancora al Centro, quando era solo un ragazzino, Miss Parker andava a trovarlo quasi tutti i giorni per riempire il vuoto della loro solitudine. E lui aspettava sempre con impazienza di vederla comparire in cima alle scale, e di sentire la voce di Sydney che con un sospiro annunciava la sospensione della simulazione in corso. Ma era accaduto una volta che lui l’aveva attesa invano. Per giorni non si era fatta viva. Non l’aveva più vista nemmeno lungo il corridoio, parlare con suo padre, passeggiare nell’area riservata agli esperimenti di botanica, tra le gardenie e le violette. Cominciava a preoccuparsi. Aveva chiesto a Sydney, ma lui non gli aveva risposto, anzi, si era adirato con lui e gli aveva ordinato in malo modo di concludere la simulazione e di non pensare più a Miss Parker. Se ne era tornato al suo posto avvilito e aveva incrociato le braccia: «Io non concludo nessuna simulazione se prima nessuno mi dice che cosa è successo a Miss Parker!»
Così avevano dovuto accontentarlo. Mr Parker non era d’accordo, ma Sydney glielo aveva detto lo stesso: lo aveva preso da parte e gli aveva rivelato che Miss Parker era molto malata e che era tenuta in osservazione al sottolivello quattordici nell’infermeria del Centro. Nessuno poteva entrare se non suo padre.
Quella notte Jarod era sgattaiolato fuori della sua camera e aveva raggiunto la stanza di Miss Parker al sottolivello quattordici. Quando era entrato ed aveva scostato il telo bianco… e l’aveva vista… aveva provato una strana sensazione: la sua pelle era candida come il latte e i suoi occhi erano chiusi, l’espressione rilassata, i capelli scuri abbandonati sul cuscino facevano risaltare ancor di più il pallore del viso; se non fosse stato per il leggero respiro e la mano stretta attorno al lenzuolo, avrebbe creduto che fosse morta.
Quell’immagine gli tornò agli occhi non appena la vide stesa sul parquet, gli occhi chiusi, il viso reclinato da un lato, i capelli lunghi scompigliati le cadevano sulla gota e ne nascondevano il pallore, la mano sinistra era accanto al corpo, la destra era abbandonata in grembo.
Rimase a fissarla incapace di qualunque cosa per un interminabile istante. Sembrava dormire profondamente…
Un sonno che sarebbe durato in eterno.
Sotto le dita affusolate si era formata una chiazza rossa che si era ormai riversata sul pavimento ed era scivolata fin sotto il letto, a macchiare le lenzuola rovesciate a terra.
Jarod si riscosse improvvisamente dai suoi pensieri e si inginocchiò accanto a lei, carezzandole una guancia scostando i ciuffi neri che le coprivano il viso, proprio come aveva fatto quella notte nel sottolivello quattordici; quella volta Miss Parker si era svegliata, aveva aperto gli occhi e il suo viso si era illuminato in un sorriso nel vederlo comparire accanto a sé.
Ma questa volta non si mosse.
«Miss Parker…» la chiamò con un filo di voce. Con la punta delle dita sfiorò la sua gota, scendendo giù sino al collo, poi le prese la mano insanguinata tra le sue e se la portò alle labbra mentre le lacrime gli pungevano gli occhi.
«Miss Parker…» sussurrò. Le dita si strinsero attorno al polso esile della donna fino a lasciarle un livido, nel disperato tentativo di percepire un flebile, forse ultimo, battito cardiaco che non venne mai.
Pianse. In silenzio, cercando di rianimarla, cercando di cogliere ogni apparente movimento, senza volersi arrendere. Mai.
“Miss Parker…” Questa volta l’aveva persa veramente. Non era una delle false verità del Centro, non era l’ennesima cattiveria di Lyle, non erano i farmaci che gli somministrava Raines… Era la realtà. La nuova realtà che avrebbe dovuto vivere. Che avrebbe dovuto accettare.
“Miss Parker…!”
I suoi occhi erano colmi di lacrime e non riusciva a vedere nulla, li tenne chiusi, ma le lacrime continuarono a scorrere sul suo viso e a cadere su di lei, come se potessero trasmetterle un po’ del dolore che provava e che era, dopotutto, segno di vita.
“Miss Parker… non lasciarmi!”
Anche le sue mani ora erano insanguinate. Si sentì colpevole. Colpevole. Colpevole. Come se avesse premuto il grilletto… Chi aveva premuto il grilletto? Chi era stato a fare questo? Chi aveva osato fare questo alla sua Parker?…
“Non lasciarmi… Miss Parker!”
E che cosa mai avrebbe potuto fare adesso? Adesso che erano tutti morti. Nemmeno questa soddisfazione gli era rimasta, nemmeno la vendetta l’avrebbe sollevato dal peso della sua coscienza, ora che era rimasto solo. Che cosa avrebbe fatto? Ora che non c’era più nemmeno lei…?
“Jarod…” La sua voce gli rimbombò nel cranio. Il tono perentorio di chi è a caccia.
“Jarod…” L’aveva sentita veramente?! Era come quando sotto l’effetto delle droghe di Raines lei gli era apparsa in una luce evanescente. La sua voce calda e determinata.
“Jarod…” Il suo sorriso da bambina, gli occhi agghiaccianti della bellezza.
“Jarod…” Quel nome continuava a insinuarsi nella sua mente. Il suo nome. Un sussurro, un fremito, un grido, una velata richiesta d’aiuto.
Perché la sua voce…? perché la sentiva nonostante… nonostante ormai…
Scoppiò in singhiozzi sommessi.
«Jarod…»
Jarod alzò il viso tremolante. Le ombre attorno a sé si confondevano come nella nebbia, ma distinse ugualmente la figura che avanzava nella stanza, accompagnata da un rauco cigolio.

«È ora di tornare a casa, Jarod.» sibilò la voce del male avanzando verso di lui.
Non disse nulla. Non riusciva a parlare. Non riusciva a pensare. Non riusciva a trovare la forza di alzarsi dal pavimento e fuggire.
Può darsi che non lo volesse. Fuggire… avrebbe voluto dire staccarsi da lei, lasciarla sola ancora una volta… ammettere che Miss Parker non ci fosse più, accettare la sua morte…
«No!» gridò a sé stesso. Chiuse gli occhi e scosse energicamente la testa, come a voler scacciare quei pensieri orribili dalla sua mente.
«Non cercare di negarlo. Hai perso. Tu, lei, Sydney. Avete tutti perso. - continuò - Una partita che non valeva la pena di essere portata a termine. Non trovi? - chiese con un sorriso sadico sulle labbra indicando con un gesto della mano l’intera stanza, soffermandosi poi sul cadavere di Miss Parker - Avreste fatto meglio ad arrendervi subito. Io vi avevo avvertito, dopotutto.»
“Se te ne vai ora… ti pentirai di essere mai fuggito dal Centro!” Quelle parole risuonarono nella sua memoria e come lame su di lui aprirono una ferita chiamata rabbia.
«Tu… - gridò in preda alle emozioni - Tu, demonio! Come hai potuto…»
«Avreste dovuto prevederlo: era destino dopotutto… tale madre, tale figlia. - lo interruppe - I latini dicevano: “si vis pacem, para bellum”» sentenziò estraendo una pistola da sotto la giacca e puntandola su di lui con gesti che tradivano calma e soddisfazione.
Il suo respiro si fece più intenso contro la rabbia che montava, si alzò in piedi lentamente, in segno di sfida, seguito dal movimento della pistola che si portò a livello del suo petto. Lo sdegno e la rabbia gli fecero dimenticare ogni altro sentimento, la vendetta… la vendetta era ora l’unica azione possibile, quando credeva di aver perso anche quella… Vendetta. Vendetta. Morte.
Non gli importava più nulla, non pensava più nulla. Il dolore e la rabbia erano più forti di tutto quanto. La paura era solo di non riuscire a compiere un omicidio.
Tanti anni prima, quando era stato sul punto di sparare al viscido essere che ora gli stava di fronte con l’espressione soddisfatta del gatto che ha finalmente catturato il topo, o quando era fuggito con Sydney e Broots dal laboratorio tra i boschi, non ci era riuscito. Aveva preferito prestar fede ai propri principi. Ora non ne aveva. L’unico scopo rimastogli era la vendetta. La Morte avrebbe pareggiato i conti. Si avvicinò minaccioso con lo sguardo focalizzato sul volto dell’avversario.
«Tu ora verrai con me.» stava dicendo Raines, ma Jarod non sentiva più una parola. Non sentiva altro che la voce di un bambino cantare una ninnananna. Una voce spaventata che gli diede la forza necessaria per bisbigliare la sua sentenza: «Io non vado da nessuna parte con te. Tu hai rubato la mia vita, la sua, quella di famiglie che volevano solo essere! - la sua voce si alzava di tono parola dopo parola - Tu sei un mostro!» gridò alla fine, prima di afferrare il polso dell’uomo sul cui volto il sorriso della serpe era sparito. Gli occhi spalancati alla violenta reazione inaspettata. Credeva di averlo piegato, di averlo distrutto, di averlo ricondotto all’essere l’unica cosa che poteva, una cavia. Ma il dolore era andato ben oltre.
Il dolore gli aveva fatto superare il limite. La sopportazione impossibile e la rabbia implacabile. La vendetta plausibile. La vendetta certa.
Raines sentì la stretta delle sue mani sul collo, come artigli sulla preda. Era diventato una preda.
Guardò il suo viso contorto dalla rabbia, l’espressione di chi non ha più niente da perdere perché ormai anche la ragione l’ha abbandonato. La pazzia sarebbe stata allo stadio successivo. E per lui era la morte.
Cercò di divincolarsi, ma la stretta si intensificò ancora di più e il respiro scomparve del tutto. Divenne insensibile.
Jarod non mollò la presa finché non lo vide diventare viola, le impronte sul collo arrossato. Lo lasciò cadere a terra esanime. Il respiro affannoso.
Raines tossì e cercò di riprendersi, si alzò sui gomiti, ma rimase ancora ansimante con lo sguardo fisso sulla canna della pistola puntata su di lui.
«Che cosa hai intenzione di fare… uccidermi?!» rantolò.
«Tu… sei già morto.» rispose. Le lacrime scendevano dai suoi occhi e lo spettro di Raines era solo una figura pallida sotto i suoi piedi. Tremò.
“Miss Parker… mi dispiace tanto.”
Il dolore raggiunse il culmine, la rabbia anche. Il suo animo si liberò finalmente in un grido incapace di ogni spiegazione, mentre premeva il grilletto scaricando l’intero caricatore sul Demonio. Gli spari risuonarono nella foresta, facendo fuggire in uno stormo schiamazzante e disorganizzato gli uccelli appollaiati sui rami, le foglie plananti al suolo rabbrividirono, le acque del lago si incresparono. E quando tutto fu silenzio Jarod pianse, continuando a premere il grilletto, ancora ed ancora.
Finché con un ultimo, immane sforzo si lasciò cadere sul pavimento rosso accanto a lei.
“Miss Parker… mi dispiace tanto, mi dispiace tanto…”

«Nooooo…!»
Sydney guardò atterrito l’uomo ai suoi piedi che si contorceva sul pavimento stringendo i palmi delle proprie mani contro le tempie.
«Nooooo…! Nooooo…!» continuava a gridare scalciando e picchiando la testa contro il marmo lucido del laboratorio per simulazioni.
«Che cosa diavolo gli prende?» tuonò Lyle entrando nella stanza e vedendo la sagoma contorcersi sotto i riflettori puntati su di lei, come fosse epilettica, … o pazza.
«Non lo so davvero.» rispose in tono tranquillo lo psichiatra, ma i suoi occhi spalancati tradivano una certa apprensione nell’osservare l’agonia; il dolore era chiaramente visibile sul volto seminascosto dell’uomo che cercava di spremere fuori della sua testa chissà quale demone.
«Fallo smettere. - replicò Lyle insensibile - È l’unico che ci è rimasto, - continuò - non vogliamo certo che diventi inutilizzabile. - disse guardando Sydney negli occhi, e poi spostando lo sguardo sul simulatore: - Non mi è mai piaciuto, anche se devo ammettere che ha un qualche utilizzo.» concluse. Si voltò facendo scivolare le suole di cuoio delle sue scarpe nuove e schioccò le dita per richiamare l’attenzione di uno degli spazzini che attendevano alla porta. Questo si avvicinò rapidamente e gli rivelò qualcosa all’orecchio. Lyle girò il capo verso lo psichiatra che stava ora tentando di stabilire un primo contatto con l’agonizzante ai suoi piedi.
«Angelo…» chiamò con un tono molto basso, quasi che solo lui potesse sentire.
Angelo continuò a dimenarsi e a gridare, in preda ai suoi mostri, completamente tagliato fuori dal mondo.
«Ti auguro buona fortuna con il pazzoide.» ironizzò Lyle con un sogghigno mal celato; se ne andò seguito dallo spazzino, lasciando Sydney e Angelo da soli.
«Angelo, parla con me.» disse.
«Nooooo… no… no! - gridò mentre il suo viso si bagnava di pianto - Dolore… Dolore!» gridò ancora più forte.
«Chi prova dolore, Angelo? Sei forse tu?» chiese lo psichiatra allungando una mano sul suo viso per meglio cogliere la sua espressione.
«Nooooo… Dolore, solo Dolore!»
Sydney lesse il terrore nei suoi occhi azzurri, e tanta paura. Stava forse parlando di Jarod? Era ancora vivo? Non aveva avuto più alcuna notizia dopo la sparatoria che aveva costretto Broots a fuggire. Pensò a ciò che era riuscito a sentire tramite il telefono, l’urlo, gli spari, e poi il silenzio. L’urlo… era stato terrificante, nonostante lo avesse udito tramite il microfono del telefono era riuscito a trasmettergli i brividi; la sofferenza, la disperazione, il dolore… era come se quell’urlo lo avesse scosso improvvisamente nelle sue certezze interiori che erano crollate, assieme alle sue speranze, come un castello di carte; e non sapeva nemmeno chi aveva gridato e perché. Solo una sensazione di inspiegabile inadeguatezza, di disordine e sconcertante paura, del genere che fa rizzare i peli sul collo senza motivo apparente.
Le grida di Angelo lo fecero improvvisamente ritornare al presente: «Vendetta! Vendetta! Vendetta! - strillava con gli occhi spiritati rivolti al soffitto, si era alzato in piedi e ora agitava i pugni in aria gridando: - Vendetta! Vendetta! Vendetta! … - poi improvvisamente si accasciò al suolo e si riprese il capo tra le mani, piangendo sommessamente - Dolore…» sussurrò.
Sydney era rimasto impietrito a guardarlo senza muovere un muscolo. Non lo aveva mai visto così. Il silenzio tombale che era penetrato tra le mura del laboratorio lo fece sentire stranamente a disagio. Angelo si dondolò in ginocchio, raggomitolato sotto i riflettori puntati su di lui. Sydney si inginocchiò accanto a lui e lo sentì bisbigliare qualcosa senza però riuscire ad afferrarne il senso, si fece più vicino e lo sentì mormorare: «Morte… Morte… Morte… Morte… Morte…»
Rabbrividì sentendo la sua anima istantaneamente invasa da un opprimente senso di claustrofobia. L’alito della Morte. L’inevitabilità del Destino.
«Angelo…» chiamò in un sussurro.
«Vendetta porta solo Dolore. Vendetta… Morte.» spiegò in un tono più normale sempre dondolandosi.
«Chi vuole la vendetta, Angelo?»
Angelo fissò dritto davanti a sé il nulla di quella stanza. Prima di rispondere dondolò ancora un poco, poi si fermò, chiuse gli occhi e chinò il capo sul petto: «La Vendetta è già venuta, ma la Morte tornerà, la Morte tornerà perché è l’unico rimedio per scacciare il Dolore!»
Sydney chiuse gli occhi a sua volta, lasciandosi scappare un sospiro sconsolato. Che cosa stava cercando di dirgli, maledizione!?
«Sydney!»
Lo psichiatra si voltò di scatto, svegliato dai suoi pensieri dalla voce perentoria di Lyle.
«Vorrei che venissi con me, per favore.» gli disse l’uomo massaggiandosi la mano mutila e guardandolo dall’alto in basso dalla cima delle scale.
«Devo proprio venire ora?» replicò indicando con un gesto della mano che era impegnato con Angelo.
«Adesso.» rispose Lyle con tono che non ammetteva repliche.
Sydney si alzò e raggiunse l’uomo senza un pollice che lo attendeva alla porta; prima di uscire si voltò un istante verso il simulatore al centro della stanza sotto il fascio di luce: le ombre sul suo viso provocate dai riflettori gli davano un aspetto ancora più insano.
«Il Dolore va fermato! La Vendetta non è sufficiente! - gridò Angelo dal pavimento - La Morte è l’unico rimedio!» furono le ultime parole che Sydney poté udire prima di lasciare il laboratorio per simulazioni.

Sydney e Lyle vennero affiancati da una scorta di quattro spazzini non appena raggiunsero il corridoio principale. Camminarono sino all’ascensore della Torre e salirono tutti e sei. L’espressione di Sydney era impassibile, calma, controllata come sempre, ma nel suo animo squillava un campanello d’allarme: la scorta era per lui, era chiaro che sapevano che era stato lui ad appiccare l’incendio che aveva distrutto Donoterase. Ora la Torre chiedeva di lui e forse sarebbero andati in cerca anche di Broots. Segretamente sperò che fosse già lontano con la sua Debbie.
Le porte dell’ascensore scivolarono a lato e Lyle fece strada attraverso l’ampio atrio, sino alle due lastre di cristallo che costituivano l’accesso all’ufficio di suo padre. Due spazzini della scorta aprirono le porte e introdussero Sydney al cospetto della massima autorità.
«Benvenuto, Sydney.» lo accolse freddamente l’uomo dai baffi argentei da dietro la scrivania.
Sydney si guardò alle spalle: Lyle era andato a sedersi su una delle poltroncine ai lati della stanza, gli spazzini erano rimasti esclusi dalla conversazione dalla chiusura delle porte.
«Sono felice che lei abbia accettato di unirsi a noi, - continuò il padre di Miss Parker - perché sono convinto che abbia molte cose da spiegarci.»
«Lei e il suo amico Broots, che non siamo inspiegabilmente riusciti a rintracciare…» aggiunse Lyle.
«Ad esempio?» azzardò corrugando la fronte ed incrociando le braccia davanti al petto.
«Cominciamo dalla fine: meno di tre ore fa è scoppiato un incendio che ha distrutto quasi interamente i laboratori di Donoterase rendendoli inservibili, e che ha causato la morte di tre dei miei dipendenti; ci sono almeno due spazzini pronti a giurare di averla vista lasciare il luogo dell’incendio.» Mr Parker si lisciò i baffi con la punta delle dita, in attesa di risposta.
Sydney sbuffò senza alterare minimamente la sua espressione: «Vada avanti.»
«Questa mattina ho inviato quattro uomini allo chalet che possiedi al lago White Cloud - si fermò per controllare la reazione, che non venne - e non ho più loro notizie da ore, ormai.» concluse.
«È stata inviata una seconda squadra, - riprese Lyle - e se questa troverà Jarod e mia sorella allo chalet… lei, Sydney, passerà un brutto quarto d’ora, se ne rende conto, spero!?»
L’unico movimento dello psichiatra fu sbattere le palpebre, che provocò una reazione di irritazione estrema nell’uomo che gli stava seduto di fronte, il quale si alzò improvvisamente in piedi facendo scivolare la poltrona e rovesciare diversi fogli a terra: «Ora basta! - gridò con rabbia, il volto che si tingeva di rosso - Voglio sapere immediatamente che cosa è successo a quello chalet!»
«Non le so davvero rispondere, - fece in tono più che normale Sydney - io non ne so niente.»
«Non menta! - intervenne Lyle - Ha coperto Jarod per tutto il tempo che ha passato là fuori, ha aiutato mia sorella a farlo fuggire, ha distrutto delle proprietà del Centro, lei è un traditore! Vuole negarlo?!» sbraitò.
«Ho fatto quello che ritenevo più giusto.» rispose senza perdere la calma, mantenendo lo sguardo sull’uomo più anziano.
«Lei non deve fare ciò che è giusto, deve solo eseguire gli ordini!»
«Altrimenti cosa?! … farò la fine di mio fratello?! o di Catherine Parker?!» replicò perdendo un po’ del torpore che sembrava accompagnarlo.
Gli occhi di Mr Parker si infiammarono: «Lasci mia moglie fuori da questa discussione.» sibilò.
«Il Centro viene prima di tutto.» incalzò il figlio.
«Il Centro…» ripeté Sydney sottovoce “… un luogo che distrugge la vita di chiunque ne viene a contatto. Loro sono già morti e non lo sanno.” pensò senza dare sfogo alla sua rabbia. Dopotutto, anche lui era senza speranza alcuna.
Il trillo del suo telefono ruppe inaspettatamente la tensione che si era creata nella stanza. Gli occhi dei due Parker puntati su di lui mentre estraeva dalla tasca il cellulare.
«Vogliate scusarmi un momento. - fece aprendo la comunicazione: - Sydney.»
«Io… - era la voce di Jarod, il volto dello psichiatra si illuminò involontariamente - io… io non volevo che finisse così…» balbettò tra i singhiozzi.
«Jarod, - sussurrò con un sospiro di sollievo - allora sei vivo!»
Gli altri due uomini nella stanza acuirono l’udito, ritti come antenne al suono di quel nome pronunciato da Sydney.
«Io… non volevo… - ripeté Jarod - Non volevo che finisse così…»
«Jarod, ti senti bene?»
«Io vorrei solo che sapesse che ho tentato… - la voce tremò di nuovo - io ho tentato… ma era troppo tardi.»
«Che cosa vuoi dire, Jarod, non ha alcun senso quello che dici.»
L’uomo all’altro capo del telefono si lasciò sfuggire una lacrima, che venne seguita da una seconda, e in breve non riuscì più a smettere, singhiozzando e pingendo riuscì solo a dire: «Non avrei dovuto lasciarla sola!»
Sydney era rimasto in silenzio per un intero minuto, Lyle cominciò a spazientirsi: «Che cosa sta facendo, gli dica di arrendersi!»
Sydney non lo considerò: «Jarod…»
«Non avrei dovuto lasciarla, io le volevo bene! - gridò con la voce rotta dal pianto, le lacrime inarrestabili - Io le voglio bene.» si corresse.
«Miss Parker…» mormorò Sydney sbiancando tutt’a un tratto.
Mr Parker spalancò gli occhi al nome della figlia osservando l’espressione incolore dello psichiatra; che cosa era successo alla sua bambina? Che cosa le avevano fatto?
«Sydney, voglio parlare con Jarod. - disse tendendo la mano per afferrare il telefono ma senza arrivarci: - Jarod, mia figlia è con te?» la sua voce suonò davvero preoccupata.
«Io non… non dovevo lasciarla. È colpa mia, Syd, io non dovevo lasciarla sola!» gridò.
«Jarod, dimmi dove sei.» chiese lo psichiatra scansando la mano tesa di Mr Parker.
«Non la lascerò più, Syd, … non la lascerò mai più.»
«Che cosa dici, Jarod, quello che dici non ha senso…»
«Io! … - gridò in preda alla disperazione - È solo colpa mia! Le volevo bene, Syd, non avrei dovuto lasciarla sola, e ora che cosa faccio… senza di lei?!»
«Dimmi dove sei, Jarod, arrivo immediatamente.» disse lo psichiatra tentando di calmarlo. Era chiaro che la situazione si stava delineando particolarmente delicata, temette seriamente che la mente del suo protetto fosse priva di forze per reagire.
«No! - gridò - Non la lascerò mai più, Syd, … non voglio… non voglio lasciarla.» il suo grido si spense in un singulto sommesso.
«Jarod…»
«Le voglio bene, Syd, - proseguì con tono calmo - e ne voglio anche a te, per questo ti ho telefonato.»
Sydney smise di respirare. Era davvero troppo tardi? Doveva tenerlo al telefono il più possibile, doveva parlare con lui, impedirgli di abbandonarsi al dolore; nella sua testa risuonarono le grida di Angelo: “Il Dolore va fermato! La Vendetta non è sufficiente! … La Morte è l’unico rimedio!”
«Jarod, aspetta, …»
«Non ce l’ho fatta, Syd, mi dispiace, non sono stato abbastanza forte, non sono stato all’altezza…»
«Quello che dici non ha senso, … »
«Ho perso! … - gridò - … Mi dispiace tanto… ti ho deluso… Vorrei solamente che lei lo sapesse, vorrei che sapesse che ho tentato…»
Sydney era senza parole. Che cosa poteva aggiungere? Jarod era un uomo, dopotutto. Nonostante la sua mente superiore era pur sempre una persona, con le sue debolezze, e sentimenti reali, capace di gioire e di soffrire come chiunque altro. E capace di impazzire dalla disperazione.
Nell’ufficio di Mr Parker era calato il silenzio, una tensione che nessuno si azzardava a rompere, un equilibrio precario che nessuno avrebbe mai voluto si distruggesse.
«Mi dispiace, Syd, - continuò la voce di Jarod - non mi è rimasto che dirti addio.»
Sydney chiuse gli occhi al suono della comunicazione interrotta.
Gli altri due uomini nella stanza rimasero a fissarlo con gli occhi spalancati, impietriti, incapaci di articolare una semplice frase perché le loro labbra erano diventate tutt’a un tratto secche, la gola impastata e le mani umide mentre il volto scoloriva.
«Sydney…» sussurrò Mr Parker cercando a tentoni la poltrona dietro di lui.
Gli occhi dello psichiatra si aprirono di scatto, le sue labbra si schiusero, ma le parole non uscirono che dopo un interminabile istante: «È finita.»
«Mia figlia…?»
Sydney abbassò gli occhi.
«No… no, non è possibile…» bisbigliò Mr Parker lasciandosi cadere sulla poltrona in pelle nera.
Lyle spostò lo sguardo da Sydney a suo padre e poi ancora a Sydney: «Ma le avrà pur detto qualcosa! Dov’è adesso? Allo chalet?»
«È finita.» ripeté. I suoi occhi divennero lucidi sino al punto che dovette sbattere le palpebre per poter vedere di nuovo. Lacrime uscirono dai suoi occhi mentre stringeva ancora il telefono nel pugno. Era tutto finito. Non poteva fare più nulla. Il Centro era andato troppo oltre, aveva spinto Jarod ad un limite dal quale non sarebbe più tornato indietro. Il dolore e la rabbia avevano annullato ogni altra sensazione.
Qualcuno bussò alla porta. Per Sydney fu come se gli avessero bucato il cranio con un martello. Nessuno nella stanza si mosse, nemmeno quando entrò lo spazzino con un incartamento da consegnare a Lyle.
«Il rapporto sulla missione, signore. - annunciò - Sono stati trovati complessivamente cinque cadaveri allo chalet… tra i quali il corpo di Mr Raines.» aggiunse titubante lo spazzino osservando l’espressione sconvolta dei tre uomini e l’atmosfera che si era creata nell’ufficio.
“Ho perso! … Non sono stato abbastanza forte… non ce l’ho fatta!” ora capiva il senso di quelle parole “Ti ho deluso…”
«No…» mormorò Sydney scuotendo la testa.
«Jarod… e mia sorella?» chiese Lyle.
«Non li abbiamo trovati, signore.»
«Continuate a cercare. - ordinò - Non può essere andato lontano… con un cadavere.»
Lo spazzino venne allontanato da Lyle con un gesto della mano e i tre rimasero soli nuovamente, ognuno perso nei propri pensieri.
«Non lo ritroverete mai più.» concluse Sydney sospirando.

La luce al neon oscillò per qualche istante ed ebbe la sensazione che le ombre maligne che l’avvolgevano stessero per sopraffarlo una volta per tutte. Si strinse nelle braccia, chiamando al petto le ginocchia. Aveva freddo. Un’altra goccia cadde nella pozzanghera accanto a lui e il momentaneo rumore lo fece rabbrividire.
Il cemento sotto i suoi piedi era umido, freddo, ruvido, distaccato. Da ore ormai le sue sensazioni si erano affievolite. Non sentiva più nemmeno il pulsare del sangue e il bruciore sulle sue nocche sanguinanti. Tutto era scomparso. Per lo meno gli stimoli esterni, perché dentro di sé la battaglia era tutt’altro che terminata. Se prima aveva dato sfogo alla sua frustrazione e alla immensa rabbia che lo aveva dominato, ora era il turno dell’insensibilità.
Guardò senza realmente vedere ciò che lo circondava. Ombre immobili pronte a balzargli addosso al primo segno di cedimento. La sua psiche lo stava tradendo.
Era stato lui. Aveva ridotto lui tutto quanto ad un ammasso di legna da ardere. Lui aveva fracassato lo schermo del computer che ora mandava scariche elettriche e scintille colorate al suolo. Non era riuscito a sopportare la vista di Miss Parker ragazzina che correva con le lacrime agli occhi nell’ascensore per soccorrere la madre, non era riuscito a sostenere il suo sguardo lucido e il suo grido disperato mentre veniva portata a forza all’interno del laboratorio.
Lui aveva distrutto le tre sedie scaraventandole una dopo l’altra contro il muro assieme al vaso, alle foto incorniciate della sua famiglia e a tutto ciò su cui aveva messo le mani. Si era sfogato a sufficienza, aveva pianto e gridato ed era impazzito dal dolore sino a perdere ogni forza. Sino a perdere coscienza.
Si era risvegliato in un bagno di sudore, sudore freddo, il respiro affannoso, i muscoli doloranti e la testa in confusione. Si era ritrovato disteso sul cemento umido, solo. Il suo primo pensiero… non lo ricordava. Forse non ne aveva più avuto uno concreto da quando l’aveva vista. Era così bella, distesa a due passi da lui.
Non si era accorto nemmeno delle lacrime che scendevano dai suoi occhi. Non si era accorto del freddo, dell’umido, della fame, del sonno.
Non c’era più nulla di importante a quel mondo, nulla che valesse lo sforzo di liberare la mente dal demone che la stava, lentamente, ma inesorabilmente, uccidendo. Sentiva la testa pesante, le braccia erano come macigni e faceva un immane sforzo a mantenere lucida la vista. Sbatté le palpebre.
Anche chiedersi come era arrivato in quel posto, o cosa glielo avesse suggerito richiedeva troppa fatica.
Chiuse infine le palpebre, perdendo anche quella battaglia.
«Perché tutte le persone che amo devono soffrire?» mormorò al silenzio attorno a lui, il capo abbandonato sulle ginocchia.
La sua domanda non ebbe mai una risposta. Continuò a piangere per ore, senza riuscire a smettere, senza riuscire a pensare.
Finché, finalmente, percepì il freddo metallo sotto i polpastrelli. Era pesante, molto più di quanto ricordasse, ma non gli importava; la superficie rugosa dell’impugnatura gli trasmise un fremito quando la sua unghia la sfiorò e rabbrividì quando strinse il pugno attorno ad essa. Strinse talmente forte da farsi male, solo per provare a sé stesso che era ancora in grado di sentire qualcosa, che era ancora vivo. Il che lo fece intristire maggiormente.
Si alzò in piedi, meravigliandosi di poterlo fare e, barcollando, raggiunse Miss Parker. Si lasciò cadere accanto a lei, e posò l’arma a terra. Quando sfiorò la sua pelle candida immagini di lei gli attraversarono la mente come lampi di luce in una notte nera, e ricordi sbiaditi e sensazioni mai dimenticate tornarono reali. Il rumore dei suoi passi, inconfondibile per lui, Miss Parker aveva un ritmo a sé; il profumo di cocco nei suoi capelli; il suo sorriso disarmante; il calore e la morbidezza delle sue labbra che sfioravano le sue; la profondità del suo sguardo; la grazia dei suoi movimenti anche quando gli puntava una pistola contro…
Chi avrebbe detto che era tutto perduto vedendola così?! Era così bella, così bella…
Le sfiorò la fronte e un ciuffo di capelli cadde a lato del suo viso. No, non l’avrebbe lasciata. Non l’avrebbe lasciata mai più. Come poteva… come poteva pensare, o anche solo immaginare di non poter più sentire la sua voce, anche se solamente per telefono, avvertire la sua presenza per quello strano fenomeno che gli procurava la pelle d’oca, come poteva…?!
Sentì le lacrime salirgli agli occhi di nuovo. La sua mano scivolò sul suo collo, e l’altra dietro le ginocchia, la abbracciò e la sollevò delicatamente da terra, con tutta la dolcezza della quale era capace e la tenne stretta tra le braccia cullandola come fosse una bambina.
Poi si distese sul cemento e l’adagiò accanto a sé, tenendola stretta, il capo reclinato sul suo cuore, l’unico che ancora batteva. Le carezzò i capelli, profumavano di cocco…
La Morte era stata gentile, per quanto avrebbe potuto esserlo, tutto di lei era rimasto inalterato… se si tralasciava il buco nel cuore e il sangue… Grazia e Bellezza non l’avevano abbandonata. I suoi occhi però erano chiusi per sempre.
Ricordò quella notte passata con lei sotto le stelle, quando l’aveva coccolata mentre tra le lacrime gli aveva confidato che sarebbe dovuta andar via, quando lei gli aveva preso le mani tra le sue e gli aveva dato un timido, sfuggevole bacio sulle labbra.
Le prese la mano nella sua e la baciò teneramente prima di lasciarla scivolare.
Dopo quel bacio ne era venuto un altro, meno innocente del primo, e poi un altro, e un altro ancora, finché le sue mani si erano ritrovate a carezzare ciò che non avrebbero mai osato. Lei lo voleva, e anche lui, ma… Miss Parker piangeva: «Non è giusto… - aveva sussurrato tra i singhiozzi - Non posso… mi dispiace…»
Jarod le aveva asciugato le lacrime con una carezza e l’aveva stretta tra le braccia, proprio come faceva ora.
«Vorrei restare così per sempre…» gli aveva detto.
Le lacrime corsero inarrestabili mentre sollevava da terra la pistola. Guardò il suo viso un’ultima volta, per imprimersi indelebilmente quell’immagine nella memoria, per custodirla per sempre con sé. Le diede un ultimo bacio sulla fronte. Un addio. No, meglio… un arrivederci.
“Vorrei restare così per sempre…”
Armò la pistola e sparò.

«La Morte è l’unico rimedio. - bisbigliò Angelo cullandosi tra le lenzuola nell’oscurità della sua camera - Il Dolore… è finalmente scomparso… Il Dolore… è solo per chi resta.» disse in un soffio mentre dai suoi occhi scivolava una lacrima.

Epilogo

Infilò il dsa nel lettore e voltò lo schermo così che anche l’uomo dalla parte opposta della scrivania potesse vedere quelle immagini. Sul lato sinistro dello schermo, la data e la didascalia “Jarod, for Centre use only”.
«Nooooo! Lasciatemi! Lasciatemi ho detto!» gridò un ragazzino dai capelli scuri dimenandosi, cercando di liberarsi dalla stretta dei due spazzini che lo stavano trascinando di peso lungo il corridoio.
«Vi ho detto di lasciarmi! - gridò di nuovo inutilmente - Ed!» chiamò.
Raggiunsero la stanza che gli era stata assegnata e uno dei due lasciò la presa momentaneamente per aprire la porta. Il ragazzo si divincolò e corse in direzione dell’ascensore gridando: «Ed! Ed!»
Gli spazzini lo rincorsero e lo afferrarono per le braccia mentre lui ancora cercava di guadagnare la salvezza scalciando e mordendo i due uomini in nero. Lo gettarono all’interno della cella e richiusero alle sue spalle la porta con un tonfo, e uno scricchiolio annunciò lo scatto della serratura.
«Ed! perché mi fai questo?» le urla provenienti dalla cella non cessarono, neanche quando i due spazzini uscirono dall’inquadratura della telecamera.
Singhiozzi sommessi seguirono. Un pianto sconsolato, non il pianto di un bambino. Le sue mani si affacciarono alla porta della cella stringendo le sbarre.
«Voglio… voglio parlare con Ed! - gridò tra i singhiozzi - Perché…? - le sue nocche divennero bianche per la presa sulle sbarre - Chi diavolo sono io? … Ed rispondimi! Chi sono io?» lo sconforto prese il sopravvento e il pianto e la stanchezza lo fecero scivolare lungo la parete sino a che si rannicchiò in posizione fetale in un angolo della cella, le mani a coprire il viso affondato tra le ginocchia. Il suo intero corpo tremava di disperazione e rabbia.
Il dsa era finito, e l’uomo senza un pollice allungò la sua mano guantata sulla valigetta per chiuderla violentemente.
«Soddisfatto?» chiese con aria arrogante.
L’uomo di fronte a lui sollevò lo sguardo dalla valigetta argentea per posarlo su Lyle.
«Che cosa ha fatto per meritare quel trattamento?» chiese corrugando le sopracciglia.
Lyle ritrasse la mano e prese a massaggiarla: «Questa notte è fuggito dalla sua cella e ha forzato la porta dell’archivio al sottolivello sette. I miei uomini lo hanno sorpreso mentre tentava di rubare alcuni dischi.»
Edward incrociò le braccia al petto rivedendo davanti agli occhi la scena alla quale aveva appena assistito, al pianto isterico, alle grida sofferte del ragazzo.
«Perché non posso vederlo?» chiese.
Lyle sorrise gesticolando: «Ma non l’hai visto?! Era incontrollabile, assolutamente fuori di sé»
«Perché non mi è stato permesso di vederlo? Io avrei potuto calmarlo!» esclamò lo psichiatra alzando la voce.
«Non è il momento per discutere, Edward, - tagliò corto Lyle - ora credo che tu abbia cose molto più importanti alle quali pensare, tipo la prossima simulazione del ragazzo: dovrà essere conclusa per venerdì, i nostri acquirenti si aspettano molto, quindi… vedi di far in modo che questo piccolo incidente non interferisca con il lavoro del ragazzo.»
Edward rimase in silenzio. Sapeva che ribattere o polemizzare non sarebbe servito a nulla se non ad innervosire ancor di più Mr Lyle, e dio solo sapeva che cosa significasse vedere Lyle realmente arrabbiato. Uscì dall’ufficio della Torre a grandi passi regolari e prese l’ascensore sino al sottolivello sette.
Entrò nel laboratorio per simulazioni ancora poco illuminato e lo attraversò, percorse il lungo corridoio e fece cenno ai due spazzini che stavano di guardia alla porta di farlo accedere alla cella di Jarod. Le porte si aprirono ed Edward venne ammesso all’interno; era buio, la stanza non aveva finestre.
«Jarod?» chiamò lo psichiatra.
«Ed… sei tu?»
L’uomo sorrise nell’oscurità, ancora cercando la fonte della voce che gli aveva risposto, ma l’eco che era presente nella stanza glielo impedì.
«Credevo che non saresti più venuto…» continuò la voce.
«Volevi vedermi?»
Jarod non rispose. Il silenzio cominciò a diventare imbarazzante. Per un istante pensò addirittura di essere rimasto solo nella stanza, fino a che non sentì qualcosa sfiorargli la gamba del pantalone.
«Jarod…»
«Si?»
«Che cosa ti è saltato in mente stanotte?!» lo rimproverò.
«Io… ho bisogno di sapere chi sono, Ed, … e l’unico modo è cercare nell’archivio.» tentò di giustificarsi.
Edward sospirò posando le mani sui fianchi scostando la giacca del completo: «Tu non hai bisogno di sapere chi sei! … Tu sei Jarod.» gli rispose con naturalezza.
Lo sentì muoversi alla sua destra. Attese che fosse lui a parlare, ma il ragazzo non disse niente.
«Che ne dici di accendere la luce?!» propose.
La stanza si illuminò tutt’a un tratto, lasciandolo abbagliato per un istante interminabile. Quando tornò a focalizzare lo vide: era seduto per terra, la schiena al muro, le gambe incrociate e gli occhi rivolti al pavimento.
«Che cosa c’è che non va, Jarod? Sei pronto per la prossima simulazione?»
Il ragazzino sollevò il suo glaciale sguardo sullo psichiatra. Non aveva più di quattordici anni, ma il suo sguardo avrebbe fatto abbassare gli occhi a molti adulti. Si alzò in piedi svogliatamente e prese il libro che stava sul suo letto, lo rigirò tra le mani e lo porse all’uomo.
«Non è il mio nome che ho bisogno di sapere. - disse - Un nome non è nulla, in fondo… io potrei chiamarmi in mille modi diversi, ma sarei sempre io, … non credi?»
«“Quella che chiamiamo rosa, con un altro nome non profumerebbe forse ugualmente?!”» gli fece eco Edward.
Jarod sorrise: «Shakespeare.»
«Ti senti Romeo?» gli chiese.
«No, - rispose - … mi sento molto più Amleto.»
«Smetti di torturarti, ti ho già detto tutto ciò che so sulla tua famiglia, ti ho fatto avere la foto dei tuoi genitori, ti prego, ora basta! - lo rimproverò, ma il suo tono era quasi compassionevole - Devi finire la simulazione entro venerdì, sono ordini di Mr Lyle.» concluse.
Jarod strinse le labbra mentre due grosse lacrime gli invadevano gli occhi.
«Jarod…?»
«Non è vero… - bisbigliò - Loro non sono i miei genitori!»
Edward rimase perplesso mentre il ragazzo dagli occhi di ghiaccio faceva scivolare fuori da sotto il cuscino un dsa: «Loro… loro sono i miei genitori. - disse combattendo per trattenere le lacrime con lo sguardo rivolto al dischetto digitale. - L’ho trovato stanotte, nell’archivio, - disse - e ho trovato anche dei documenti… Ed, quelli non sono mio padre e mia madre! Perché mi hai mentito?» gridò puntando l’indice alla fotografia incorniciata sul suo comodino.
«Che cosa dici, Jarod…» iniziò lo psichiatra.
«No! - gridò ancora più forte - Sono stanco delle bugie! Dimmi perché?» Pianse stringendo tra le dita il dsa.
Edward sollevò la fotografia di una donna esile con un caschetto biondo che succhiava un lecca-lecca abbracciata ad un uomo di mezza età dai baffi bianchi e dagli occhi azzurri. Li studiò e poi portò la sua attenzione sul ragazzo che singhiozzava davanti a lui stringendo il suo tesoro tra le mani.
«Tua madre si chiamava Brigitte Parker, - disse - ed è morta dandoti alla luce; tuo padre… dopo la tua nascita non si è saputo più niente di Mr Parker, è scomparso senza lasciare traccia.» concluse.
Jarod tirò su col naso: «La conosco la tua storia, ma ormai non mi incanta più! Io voglio solo la verità! - gridò. I suoi occhi ora erano furiosi, taglienti. - Ho trovato dei documenti su Brigitte Parker nell’archivio: il suo gruppo sanguigno era zero positivo, il mio è AB negativo, - proseguì con tono risoluto - AB negativo si forma da A+B, o da due gruppi AB identici, non c’è zero nell’equazione! - Edward lo ascoltava in silenzio - Quella donna non può essere mia madre!» concluse.
«Dove vuoi arrivare, Jarod? Pensi che Mr Lyle ti permetterà di continuare nella tua personale ricerca delle radici ancora a lungo? Se sapesse che ti ho fatto avere questa foto, io…»
«Ed… - lo interruppe - io voglio sapere chi sono, … ho bisogno di saperlo!»
«E credi che io abbia le risposte?!»
Il ragazzino abbassò lo sguardo. Il dsa stretto nel suo pugno. «Forse tu no, ma io le troverò, … anzi, le ho già trovate.» sentenziò aprendo la mano e mostrandogli il dsa, la data era l’aprile del 1970.
«Jarod, che cosa cerchi di dimostrare?»
«Guarda il filmato, Ed.» tagliò corto il ragazzo.
Edward si sedette alla scrivania accostata alla parete e attese che lo schermo in bianco e nero del lettore dsa si accendesse, infilò il dischetto nel lettore con un sospiro e l’immagine del laboratorio per simulazioni apparve come era nel 1970, la didascalia a sinistra dello schermo era: “Jarod, for Centre use only”.
«Vuoi assaggiare?» mormorò una voce di bambino dall’interno di uno dei condotti di aerazione. Una scatola di caramelle scivolò fuori dal condotto, ai piedi di una ragazzina dai capelli neri, i cui occhi azzurri malinconici fissavano ora la scatola colorata con disappunto. La raccolse e se la pose in grembo, i suoi gesti armoniosi seguiti dallo sguardo compassionevole di un terzo ragazzino del tutto somigliante a Jarod seduto accanto a lei.
Edward gettò un’occhiata al ragazzo che osservava le sue reazioni alle sue spalle, poi tornò a prestare attenzione al filmato. Era molto somigliante, sembrava davvero Jarod. Eppure c’era qualcosa di diverso, nell’atteggiamento, nella postura, nell’espressione… qualcosa che non riusciva a cogliere perfettamente, ma che era evidente. E poi ovviamente c’erano gli occhi.
«Figlia triste…» mormorò di nuovo la voce di bambino dall’interno del condotto.
La ragazzina si alzò in piedi stringendo tra le mani la scatola di cartone, senza poterne staccare lo sguardo.
«Ti manca tua madre, non è vero?» le chiese Jarod.
Lei strinse le labbra: «Mi portava sempre questi dolci. Adesso ho solo il mio papà, ma lui lavora sempre. - il suo tono era sommesso, soffocato - La mia mamma e io parlavamo di tante cose, - continuò - lei mi pettinava o… leggevamo insieme,» la sua voce nostalgica, il suo viso si cullava nei ricordi; fece una lunga pausa, durante la quale i suoi occhi di ghiaccio divennero lucidi.
Fu Jarod a rompere il silenzio imbarazzante: «Anche io ho perso mia madre, - disse pacatamente alzandosi in piedi - ma io le parlo ancora. - La ragazza lo guardò senza capire - La sua voce è dentro di me, - spiegò fissandola negli occhi - anche quella di tua madre è dentro di te.»
Il filmato era giunto al termine, Edward lo spense.
«Ed?»
Lo psichiatra non disse nulla per un attimo che a Jarod parve una vita.
«Che cosa vorresti dimostrare con questo?» gli chiese infine con un tono aspro e duro. Jarod non se lo aspettava, rimase interdetto per qualche istante, poi ribatté: «Mi pare ovvio, quel ragazzo si chiama Jarod, come me, e la somiglianza è inequivocabile!»
Lo psichiatra estrasse il dsa dal lettore e lo tenne sul palmo della mano aperta.
Jarod tremava e non riusciva a star fermo, possibile che fosse l’unico a notarlo?! l’unico a vedere come plausibile l’ipotesi che quel ragazzo del filmato fosse suo padre?!
«Ti somiglia, è vero, ma questa è una registrazione molto vecchia, Jarod, …»
«E con questo?! Se quel Jarod è realmente mio padre, allora forse un giorno…»
«Jarod… - lo ammonì lo psichiatra - sai che non succederà mai, che non potrai mai uscire dal Centro. »
Il ragazzo guardò altrove. Avevano parlato milioni di volte a quel proposito e non aveva voglia di infilarsi in una conversazione senza scopo quando stava per scoprire le sue vere origini: «Ed, quel ragazzo ha ragione, io sento la sua voce!»
«Ma che significa?!» fece Edward scuotendo la testa, le sopracciglia aggrottate.
«La sua voce è dentro di me, io sento la voce di mia madre, e… non chiedermi come ma so che lei è quella ragazza.»
Edward scoppiò in una sonora risata: «Jarod, la tua voglia di avere una famiglia non deve spingerti ad affermazioni quanto meno azzardate, non ricordi che cosa ti ho insegnato?! devi innanzitutto attenerti ai fatti, abbandonarsi alle sensazioni e alle emozioni spesso pregiudica il risultato. Non essere cocciuto, usa la testa, tu puoi fare tutto, se solo mi dai retta.»
Jarod lo fissò, i suoi occhi azzurri velati dalle lacrime lo trafiggevano. Non volle ammetterlo davanti a lui, ma quegli stessi occhi avevano bucato lo schermo poco prima ed erano appartenuti a quella ragazzina.
Jarod singhiozzò rivivendo dentro di sé le sensazioni che gli aveva trasmesso la voce di sua madre, il tocco gentile della sua mano sulla sua guancia… era solo un sogno, ma tutte le notti tornava, in una luce azzurrata, leggera come un soffio e il suo sorriso bastava a rassicurarlo e a non farlo sentire più solo.
Quanto a suo padre… fissò il dsa un’ultima volta con determinazione: «Lui era un simulatore, proprio come lo sono io! Ed, mi avevi detto che non ce ne erano altri!»
«Perché è così! - ribatté - Tu sei speciale, e il tuo lavoro permette di aiutare milioni di persone, la tua intelligenza serve a migliorare la vita nel mondo, per questo è il caso di tornare immediatamente alla simulazione.»
«Perché non posso far parte del mondo anche io? - gridò - Non ho diritto anch’io ad avere una famiglia? Forse i miei genitori sono ancora vivi, - disse infine - forse sono là fuori, e magari mi stanno cercando, come io cerco loro…»
«E se così non fosse?! - lo interruppe lo psichiatra - Che cosa succederebbe se invece scoprissi che non sanno nemmeno della tua esistenza, o che magari sono morti, che ti hanno abbandonato, o che non hanno alcun interesse per te?!»
Forse era stato troppo duro. Si sentì terribilmente in colpa quando il capo del ragazzo cadde reclinato e le lacrime cominciarono a scendere nonostante gli sforzi per trattenerle.
«Mi dispiace, Jarod, ma è una battaglia persa. Faresti meglio a rendertene conto prima di farti del male. Soffrire non serve a far migliorare le tue capacità.»
Jarod pianse. Edward lo lasciò sfogare, si alzò in piedi e raggiunse la porta della cella a lunghi passi misurati.
«Ti concedo un quarto d’ora, - disse prima di andarsene - ti aspetto nel laboratorio, pronto per lavorare.»
La porta si richiuse dietro di lui lasciandolo solo.
Jarod asciugò in fretta i suoi occhi glaciali e si sedette sul bordo del letto; tremava tutto, singhiozzò sommessamente e si strinse il dsa al petto ascoltando ancora una volta la calda voce di sua madre che gli sussurrava all’orecchio: “Non aver paura… ci sono io qui con te… ti voglio bene.” E questo fece crescere dentro di lui la determinazione necessaria per andare avanti.
«Io non mi arrenderò mai… - mormorò a sé stesso - Non mollerò mai, Ed…»

(scritto da Camilla)

Grazie per essere finalmente giunti alla conclusione, spero ne sia valsa la pena. Se così non fosse o se aveste suggerimenti, pareri, correzioni, critiche, o altro da riferirmi, potete farlo, solo non siate troppo cattivi! (il mio ego è fortemente provato ultimamente!)
Grazie a Sara e a Deborah per la rilettura e le correzioni, non so come farei senza di voi!


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